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mercoledì 29 novembre 2017

Cento anni di comunismo e cento milioni di morti. Una catastrofe per l'umanità

L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, scatenato il caos
intellettuale e lasciato dietro di sé un grande raccolto di dolore.
Scrive il Wall Street Journal (6/11)

Cento anni fa i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo
dando inizio “a una serie di eventi che avrebbero portato alla morte di milioni 
di persone e avrebbero inflitto una ferita quasi fatale alla civiltà occidentale”, 
scrive David Satter sul Wall Street Journal. I rivoluzionari riuscirono a occupare
le stazioni, gli uffici postali e i telegrafi mentre la città dormiva e, quando i citta-
dini si svegliarono, trovarono il loro universo capovolto. 
I bolscevichi dicevano di voler abolire la proprietà privata, ma il vero obiettivo
era spirituale: trasformare l’ideologia marxista-leninista in realtà. Per la prima
volta si posero le basi per uno stato esplicitamente ateo e quindi incompatibile
con i valori su cui si fondava la civiltà occidentale per la quale stato e società
erano sovrastati da un potere superiore.
Il golpe bolscevico ha avuto due conseguenze. Nelle nazioni che si sono
lasciate influenzare la rivoluzione ha svuotato la società della morale, ha
degradato gli individui e li ha resi degli ingranaggi della macchina statale.
I comunisti hanno ucciso, eliminando il valore della vita stessa e i sopravvissuti
hanno perso la loro coscienza individuale. Ma i bolscevichi non si sono limitati
a influenzare queste nazioni. A occidente, il comunismo ha intaccato la società
sovvertendo i suoi valori e mettendoli in discussione. Ha creato una confusione
politica che perdura fino ai nostri giorni.
Durante un discorso del 1920 al Komsomol, Lenin ha detto che i comunisti 
subordinavano la morale alla lotta di classe. Tutto ciò che fosse in grado di
distruggere “la vecchia società sfruttatrice e che aiutasse a costruire una nuova
società comunista” era considerato positivo. Questo approccio ha separato il
peccato dalla responsabilità. Martyn Latsis, ufficiale della Cheka, la polizia
segreta, nel 1918 scrisse come dovesse essere condotto un interrogatorio:
“La nostra guerra non è contro gli individui. Noi stiamo sterminando la
borghesia in quanto classe sociale. Non cerchiamo la prova che l’atto di cui
qualcuno è stato accusato sia stato effettivamente commesso. Come prima cosa
bisogna chiedere a quale classe sociale appartiene un individuo. Questo
determinerà il suo destino”.

“Queste convinzioni furono alla base di decenni di omicidi”, scrive Satter,
“non meno di venti milioni di cittadini sovietici vennero uccisi dalle politiche
repressive. Questo numero non include i milioni di vite spezzate dalle guerre,
dalle epidemie e dalla fame generate in modo prevedibile dai principi del bolsce-
vismo”. Si contano 200.000 vittime del terrore rosso tra il 1918 e il 1920, 11
milioni di persone decedute o per la fame o per la dekulakizzazione, 700.000
esecuzioni tra il 1937 e il 1938, almeno 2.700.000 prigionieri morti nei gulag.
Alla lista bisognerebbe aggiungere un milione di detenuti, che durante la Seconda
guerra mondiale vennero liberati dai campi di lavoro e impiegati nell’Armata
rossa andando incontro a morte certa, partigiani e civili uccisi in Ucraina e nelle
repubbliche baltiche. Se a questo novero aggiungiamo anche le morti causate
dai regimi supportati dall’Unione sovietica – Corea del nord, Cina, Cuba,
Vietnam, Cambogia e altre nazioni dell’Europa orientale – il numero totale
delle vittime sfiora i 100.000.000 e “questo basta per fare del comunismo la più
grande catastrofe dell’umanità”.

Il risultato di queste morti doveva essere la creazione di un uomo nuovo, pronto
ad agire nel nome della causa sovietica. La battaglia di Stalingrado è il
paradigma di tutto ciò. Quando le unità di blocco dell’Armata rossa spararono
sui soldati che tentavano la fuga e sui civili che cercavano rifugio dalla parte
tedesca, ai bambini che andavano a riempire le bottiglie dei soldati del Reich
con l’acqua del Volga, il generale Vasily Chuikov, comandante a Stalingrado,
cercava di giustificare queste azioni affermando: “Un cittadino sovietico non
può concepire la propria vita al di fuori delle necessità della patria”.

Questi sentimenti permangono ancora oggi. Quando nel 2008 la Duma ammise
che la carestia del 1932 fu causata dalle requisizioni di grano ordinate dallo stato
per finanziare l’industrializzazione, aggiunse che i giganti industriali dell’Urss,
il mulino di Magnitogorsk e la diga del fiume Dnepr, sarebbero stati “eterni
monumenti” per le vittime.

L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, ma ha anche diffuso il caos
intellettuale. Il termine “politicamente corretto” trae le sue origini dall’assunto
secondo il quale il socialismo, un sistema di proprietà collettiva, in sé era virtuo
so, senza avere la necessità di valutare il suo operato alla luce di criteri morali
trascendenti.

Quando i bolscevichi si presero la Russia, alcuni intellettuali occidentali, influen
zati dalla stessa mancanza di etica, chiusero gli occhi di fronte alle atrocità del
comunismo. Quando gli omicidi divennero troppo ovvi per essere negati,
“i simpatizzanti iniziarono a giustificare le crudeltà dicendo che i sovietici facevano tutto con nobili intenzioni”.

Ma a occidente prevaleva una profonda indifferenza. La Russia veniva utilizzata
come pretesto per risolvere le liti politiche. Come scrive lo storico Robert
Conquest, il ragionamento era semplice: “Il capitalismo era ingiusto, il
socialismo avrebbe potuto mettere fine all’ingiustizia, quindi andava sostenuto
senza condizioni”.

L’Unione sovietica è roba del passato ma è necessario ricordare quanto scrisse il
filosofo russo Nikolaj Berdyaev: “La nostra gioventù istruita non riesce ad
ammette il significato intrinseco e indipendente delle parole scolarizzazione,
filosofia, erudizione, illuminismo, università, lo subordinano agli interessi della
politica, dei partiti, dei movimenti e dei circoli”.

Se c’è una lezione che possiamo trarre dal secolo comunista è che un potere
indipendente dai principi universali della morale non può avere ripensamenti,
dal momento che “è la convinzione da cui dipende tutta la civilizzazione”.

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