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giovedì 30 novembre 2017

Grandi opere, tutti i no del M5S

Dalla Tav al Ponte sullo Stretto, tredici importanti infrastrutture che saranno bloccate. I grillini: lo Stato pagherà penali da un miliardo, contro una spesa prevista di 10 miliardi

ANDREA CARUGATI su "lastampa.it"
ROMA
Tredici grandi opere da fermare. Con un risparmio per le casse pubbliche «di 8-9 miliardi di euro», questa la stima fatta dai deputati del M5S. Si parte da tre opere tanto famose quanto contestate, la Tav Torino-Lione, il Mose di Venezia e il ponte sullo stretto di Messina. Per arrivare alle due pedemontane lombarda e veneta, l’autostrada Orte-Civitavecchia, la bretella tra Campogalliano e Sassuolo e una serie di linee ferroviarie ad alta velocità, l’asse tra Milano e Trieste che passa da Verona e Venezia e il terzo valico ferroviario dei Giovi (linea AV tra Milano e Genova). Per finire con il porto off-shore di Venezia e la tangenziale di Lucca.  

Si tratta di opere che si trovano in stadi di avanzamento molto diversi: le due pedemontane e il Mose, ad esempio, sono già in fase di lavori, così come l’autostrada di Orte, mentre le linee Av sono ancora in fase di progettazione. Sulla base di alcune stime, il M5S ritiene che, in caso di stop, «lo Stato dovrebbe pagare penali pari a circa un miliardo, contro una spesa prevista di 10 miliardi», dice Michele Dall’Orco, capogruppo in commissione Trasporti alla Camera. «Da qui si ricava il risparmio di 8-9 miliardi per le casse pubbliche». Che fine farebbero le opere già in fase avanzata? «Anche nel caso del Mose, che è all’80% di realizzazione, sarà necessario fare una valutazione seria», dice Dell’Orco. «La nostra opinione è che non serva, e dunque è inutile procedere con i lavori». Secco stop, in caso di vittoria del Movimento, anche alla Tav tra Italia e Francia: «Siamo ancora in tempo per bloccarla. E del resto anche il nuovo governo francese ha espresso dei dubbi. Se vinceremo bloccheremo subito i cantieri», dice il deputato. Anche il ponte di Messina è destinato a essere cestinato, «senza ulteriori indugi». 
 
Così come la stazione Alta velocità di Firenze: «Realizzarla farebbe risparmiare 4 minuti nel tragitto Milano-Roma: è evidente che sia inutile», l’opinione del M5S. Sulle penali da pagare ancora c’un alone di incertezza. La cifra di un miliardo è stata ricavata da alcuni dati richiesti al ministero delle Infrastrutture dal movimento, che denuncia un «muro di gomma» da parte del governo che «non ha fornito risposte trasparenti». «Abbiamo però scoperto che non esistono obbligazioni giuridiche vincolanti per la bretella Sassuolo-Campogalliano, che dunque si potrebbe abbandonare senza penali», dice Dell’Orco. Perché questa serie di no? «Si tratta di interventi inutili, a forte impatto ambientale e con costi altissimi: noi invece puntiamo su tanti piccoli interventi diffusi e mirati», spiegano i grillini. 
 
Il M5S intende spendere i denari recuperati dallo stop alle tredici grandi opere in questo modo: 1 miliardo per la manutenzione di strade e ferrovie (soprattutto al sud), 500 milioni l’anno per il trasporto pubblico locale, conferma ed estensione del ferro-bonus voluto dal ministro Delrio per incentivare il trasporto di merci su rotaia, inventivi per nuove immatricolazioni di mezzi elettrici e nuovi finanziamenti per piste ciclabili. Tra i punti chiave del programma sui trasporti, nuovi criteri di sostenibilità energetica e ambientale delle nuove opere, oltre a «più rigidi criteri sanitari». Il M5S chiede anche una commissione parlamentare di inchiesta «sulle grandi opere che hanno determinato disastri finanziari e ambientali».  

mercoledì 29 novembre 2017

Cento anni di comunismo e cento milioni di morti. Una catastrofe per l'umanità

L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, scatenato il caos
intellettuale e lasciato dietro di sé un grande raccolto di dolore.
Scrive il Wall Street Journal (6/11)

Cento anni fa i bolscevichi presero il Palazzo d’Inverno a San Pietroburgo
dando inizio “a una serie di eventi che avrebbero portato alla morte di milioni 
di persone e avrebbero inflitto una ferita quasi fatale alla civiltà occidentale”, 
scrive David Satter sul Wall Street Journal. I rivoluzionari riuscirono a occupare
le stazioni, gli uffici postali e i telegrafi mentre la città dormiva e, quando i citta-
dini si svegliarono, trovarono il loro universo capovolto. 
I bolscevichi dicevano di voler abolire la proprietà privata, ma il vero obiettivo
era spirituale: trasformare l’ideologia marxista-leninista in realtà. Per la prima
volta si posero le basi per uno stato esplicitamente ateo e quindi incompatibile
con i valori su cui si fondava la civiltà occidentale per la quale stato e società
erano sovrastati da un potere superiore.
Il golpe bolscevico ha avuto due conseguenze. Nelle nazioni che si sono
lasciate influenzare la rivoluzione ha svuotato la società della morale, ha
degradato gli individui e li ha resi degli ingranaggi della macchina statale.
I comunisti hanno ucciso, eliminando il valore della vita stessa e i sopravvissuti
hanno perso la loro coscienza individuale. Ma i bolscevichi non si sono limitati
a influenzare queste nazioni. A occidente, il comunismo ha intaccato la società
sovvertendo i suoi valori e mettendoli in discussione. Ha creato una confusione
politica che perdura fino ai nostri giorni.
Durante un discorso del 1920 al Komsomol, Lenin ha detto che i comunisti 
subordinavano la morale alla lotta di classe. Tutto ciò che fosse in grado di
distruggere “la vecchia società sfruttatrice e che aiutasse a costruire una nuova
società comunista” era considerato positivo. Questo approccio ha separato il
peccato dalla responsabilità. Martyn Latsis, ufficiale della Cheka, la polizia
segreta, nel 1918 scrisse come dovesse essere condotto un interrogatorio:
“La nostra guerra non è contro gli individui. Noi stiamo sterminando la
borghesia in quanto classe sociale. Non cerchiamo la prova che l’atto di cui
qualcuno è stato accusato sia stato effettivamente commesso. Come prima cosa
bisogna chiedere a quale classe sociale appartiene un individuo. Questo
determinerà il suo destino”.

“Queste convinzioni furono alla base di decenni di omicidi”, scrive Satter,
“non meno di venti milioni di cittadini sovietici vennero uccisi dalle politiche
repressive. Questo numero non include i milioni di vite spezzate dalle guerre,
dalle epidemie e dalla fame generate in modo prevedibile dai principi del bolsce-
vismo”. Si contano 200.000 vittime del terrore rosso tra il 1918 e il 1920, 11
milioni di persone decedute o per la fame o per la dekulakizzazione, 700.000
esecuzioni tra il 1937 e il 1938, almeno 2.700.000 prigionieri morti nei gulag.
Alla lista bisognerebbe aggiungere un milione di detenuti, che durante la Seconda
guerra mondiale vennero liberati dai campi di lavoro e impiegati nell’Armata
rossa andando incontro a morte certa, partigiani e civili uccisi in Ucraina e nelle
repubbliche baltiche. Se a questo novero aggiungiamo anche le morti causate
dai regimi supportati dall’Unione sovietica – Corea del nord, Cina, Cuba,
Vietnam, Cambogia e altre nazioni dell’Europa orientale – il numero totale
delle vittime sfiora i 100.000.000 e “questo basta per fare del comunismo la più
grande catastrofe dell’umanità”.

Il risultato di queste morti doveva essere la creazione di un uomo nuovo, pronto
ad agire nel nome della causa sovietica. La battaglia di Stalingrado è il
paradigma di tutto ciò. Quando le unità di blocco dell’Armata rossa spararono
sui soldati che tentavano la fuga e sui civili che cercavano rifugio dalla parte
tedesca, ai bambini che andavano a riempire le bottiglie dei soldati del Reich
con l’acqua del Volga, il generale Vasily Chuikov, comandante a Stalingrado,
cercava di giustificare queste azioni affermando: “Un cittadino sovietico non
può concepire la propria vita al di fuori delle necessità della patria”.

Questi sentimenti permangono ancora oggi. Quando nel 2008 la Duma ammise
che la carestia del 1932 fu causata dalle requisizioni di grano ordinate dallo stato
per finanziare l’industrializzazione, aggiunse che i giganti industriali dell’Urss,
il mulino di Magnitogorsk e la diga del fiume Dnepr, sarebbero stati “eterni
monumenti” per le vittime.

L’Unione sovietica ha rimodellato la natura umana, ma ha anche diffuso il caos
intellettuale. Il termine “politicamente corretto” trae le sue origini dall’assunto
secondo il quale il socialismo, un sistema di proprietà collettiva, in sé era virtuo
so, senza avere la necessità di valutare il suo operato alla luce di criteri morali
trascendenti.

Quando i bolscevichi si presero la Russia, alcuni intellettuali occidentali, influen
zati dalla stessa mancanza di etica, chiusero gli occhi di fronte alle atrocità del
comunismo. Quando gli omicidi divennero troppo ovvi per essere negati,
“i simpatizzanti iniziarono a giustificare le crudeltà dicendo che i sovietici facevano tutto con nobili intenzioni”.

Ma a occidente prevaleva una profonda indifferenza. La Russia veniva utilizzata
come pretesto per risolvere le liti politiche. Come scrive lo storico Robert
Conquest, il ragionamento era semplice: “Il capitalismo era ingiusto, il
socialismo avrebbe potuto mettere fine all’ingiustizia, quindi andava sostenuto
senza condizioni”.

L’Unione sovietica è roba del passato ma è necessario ricordare quanto scrisse il
filosofo russo Nikolaj Berdyaev: “La nostra gioventù istruita non riesce ad
ammette il significato intrinseco e indipendente delle parole scolarizzazione,
filosofia, erudizione, illuminismo, università, lo subordinano agli interessi della
politica, dei partiti, dei movimenti e dei circoli”.

Se c’è una lezione che possiamo trarre dal secolo comunista è che un potere
indipendente dai principi universali della morale non può avere ripensamenti,
dal momento che “è la convinzione da cui dipende tutta la civilizzazione”.

lunedì 20 novembre 2017

Il problema del neoliberismo

di Davide Maria De Luca 

In Italia è un dibattito preso poco sul serio, ma nel resto del mondo sempre più economisti sostengono che il neoliberismo - o almeno la sua versione dogmatica - non funzioni


In Italia non è molto di moda parlare di “neoliberismo”, se non da parte di un gruppo relativamente ristretto che usa questa parola per attaccare chiunque abbia delle posizioni politiche ed economiche anche solo un po’ più a destra del centro. C’è una pagina Facebook, un tempo molto attiva, chiamata “Colpa del neoliberismo”, dove vengono raccolte le migliori dichiarazioni di questo tipo. La pagina deve probabilmente la sua ispirazione alla rubrica “Tutta colpa del liberismo” pubblicata ogni settimana dal quotidiano Il Foglio tra 2015 e 2016. Sfogliandola oggi si possono trovare alcune perle di ironia involontaria, come un appello del 2016 in cui il femminicidio veniva imputato, tra le altre cose, ai «cambiamenti antropologici indotti dallo scatenamento degli istinti animali del neoliberismo». La rubrica ricorda che in altre occasioni il neoliberismo è stato incolpato per i danni causati dai terremoti, per quelli procurati dalle alluvioni e persino per la pratica della depilazione delle ascelle femminili.
Sono esempi che dimostrano come in Italia la parola “neoliberismo” sia spesso usata a sproposito. Per i suoi critici, il “neoliberismo” è un’ideologia pervasiva che ha saturato le nostre vite inculcandoci gli ideali dell’individualismo, dell’egoismo e della competizione ad ogni costo. Avrebbe contagiato anche la vita pubblica, spingendo i governi a tagliare la spesa sociale, a ridurre le tutele e a favorire gli interessi delle grandi società multinazionali. Sono idee che nella loro versione più dogmatica e inflessibile non meritano molta considerazione. Ma la scarsa qualità del dibattito italiano non deve farci dimenticare che un problema esiste. Nel resto del mondo di neoliberismo discutono i principali economisti e anche se i loro toni sono diversi da quelli presi in giro sul Foglio, le loro conclusioni non sono poi tanto differenti. Come ha scritto questa settimana sul Guardian l’economista di Harvard Dani Rodrik, non soltanto è vero che viviamo nell’era del neoliberismo, ma è vero anche che il neoliberismo, almeno nella sua versione più intransigente, è una cattiva idea.
Che cos’è il neoliberismo?
Probabilmente non c’è fonte più autorevole per rispondere a questa domanda del Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’organizzazione con sede a Washington che per decenni è stata accusata di esserne la principale centrale propagandistica. Il neoliberismo, hanno scritto nel giugno del 2016 Jonathan D. Ostry, Prakash Loungani e Davide Furceri, tre ricercatori del fondo, è una teoria economica che poggia su due assiomi fondamentali. Il primo: la competizione è sempre una cosa positiva e deve essere favorita tramite deregolamentazioni e apertura al commercio internazionale. Il secondo: lo stato deve avere nell’economia il ruolo più ridotto possibile: quindi bisogna privatizzare, tagliare la spesa, ridurre il debito pubblico e il deficit. Gli stessi ricercatori dell’FMI sostengono che l’applicazione rigida di queste teorie non sempre produca risultati positivi. Per questa ragione, aggiunge il capo economista del fondo Maurice Obstfeld in un’intervista allegata all’articolo, sono cambiate le ricette che il fondo raccomanda agli stati che chiedono il suo aiuto. Il suffisso “neo”, in questo caso, significa che i suoi aderenti hanno riscoperto l’importanza del liberismo classico, che agli albori della scienza economica sosteneva la capacità del mercato di auto-regolarsi e la necessità per lo stato di non intromettersi troppo in questo processo.
Ma i tre ricercatori dicono anche un’altra cosa: quando la sinistra accusa il neoliberismo di essere diventato un pensiero egemone nella nostra società ha almeno in parte ragione. Negli ultimi decenni i due assiomi fondamentali del liberismo, apertura alla concorrenza e ritiro dello stato dall’economia, hanno conosciuto una grandissima diffusione. Forse non è proprio “tutta colpa del neoliberismo”, ma quello che è accaduto a partire dagli anni Ottanta fino alla Grande crisi porta incisi i suoi segni, nel bene e nel male.
L’indice composito elaborato dai ricercatori dell’FMI che misura il tasso di adozione di liberalizzazioni del commercio, deregolamentazioni e riduzioni dell’intervento dello stato in economia
Il consenso keynesiano
Nel settembre del 1976 il leader del Partito laburista e Primo ministro britannico James Callaghan tenne un discorso alla conferenza annuale di partito in un clima drammatico. La disoccupazione era in crescita, l’inflazione fuori controllo e i potenti sindacati bloccavano ogni tentativo di riforma. La situazione era così grave che proprio in quei giorni il governo britannico aveva chiesto al Fondo Monetario Internazionale un prestito da 3,9 miliardi di dollari. Callaghan andò subito al nocciolo della questione.
«A lungo abbiamo pensato che fosse possibile spendere denaro pubblico per uscire da una recessione, che fosse possibile far crescere l’occupazione tagliando le tasse e aumentando la spesa pubblica. Oggi vi dico, con tutto il candore possibile, che questa opzione non esiste più»
 
Oggi il discorso di Callaghan è considerato uno dei momenti chiave nella recente storia economica dell’Occidente. Di fronte alla stagnazione e alla crisi degli anni Settanta, il primo ministro britannico stava dicendo che il vecchio modello economico, che aveva trovato d’accordo laburisti e conservatori per i 30 anni precedenti, non andava più bene. Nel Regno Unito, il periodo storico che alcuni fanno terminare con il discorso di Callaghan è stato soprannominato l’epoca del “consenso”, un trentennio in cui i due principali partiti si trovarono d’accordo, pur con qualche differenza, su una serie di idee fondamentali, fra cui due su tutte. Era giusto che lo stato avesse un grosso spazio nell’economia e che possedesse direttamente e che gestisse grandi industrie di importanza nazionale. Era giusto che alla popolazione fossero forniti un sistema sanitario nazionale gratuito, educazione a basso costo, alloggi popolari.
Nel resto del mondo sviluppato la situazione non era molto diversa. Quasi ovunque, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica, il periodo tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Settanta è stato un’epoca di crescente intervento dello stato nell’economia, di aumento delle tutele per i lavoratori, di regolamentazioni, crescita dei salari e delle dimensioni dello stato sociale. A livello macroeconomico, fu un’epoca in cui molti stati, come il Regno Unito, utilizzarono in maniera sistematica la spesa pubblica per mantenere alto il livello di occupazione, iniettando nell’economia montagne di denaro ogni qual volta la situazione sembrava stagnare. Questo periodo a volte viene chiamato l’epoca del “consenso keynesiano”, da John Maynard Keynes, l’economista britannico inventore della moderna macroeconomia e teorico dell’intervento dello stato nell’economia.
Furono gli anni in cui il congresso americano, dominato dai democratici, approvò le grandi riforme dello stato sociale e dei diritti civili come i buoni pasto per i cittadini più poveri, la copertura sanitaria per gli anziani e le famiglie meno ricche e in cui finanziò la diffusione di una estesissima rete di radio pubbliche. Il Regno Unito visse una grande stagione di intervento statale nell’economia, con la nazionalizzazione delle miniere di carbone e la creazione di un vasto e moderno stato sociale. Il pensiero keynesiano era egemone, e una volta arrivati al potere i governi di centrodestra lasciavano intatte e, spesso, addirittura espandevano le politiche adottate da quelli di sinistra. L’Italia fu forse uno degli esempi migliori di questa egemonia di pensiero. La sinistra italiana ottenne tutte le principali conquiste sociali ed economiche stando perennemente all’opposizione. Per quarant’anni, tranne sparute pattuglie di liberali, nessuno dei partiti di governo si sognò di dire che la spesa pubblica doveva essere tagliata o che bisognava privatizzare le grandi aziende pubbliche.
Ma come tutti le ideologie che restano egemoni troppo a lungo, il “consenso keynesiano” iniziò presto a diventare dogmatico e inflessibile. Come disse Keynes dopo una cena con alcuni economisti che dicevano di essere suoi sostenitori «ero l’unico non keynesiano seduto al tavolo». La crisi petrolifera del 1973 e la recessione che gli fece seguito colsero i governi impreparati. La risposta consueta a questo tipo di problemi, aumentare la spesa pubblica per riportare la piena occupazione, unita all’aumento spesso automatico dei salari, produsse quasi ovunque altissimi livelli di inflazione. I vecchi metodi non funzionavano più. Bisognava trovare qualcosa di nuovo.
Il consenso neoliberale
Un anno prima del discorso di Callaghan, il Partito Conservatore britannico aveva eletto la sua prima leader donna, la figlia determinata e ambiziosa di un piccolo commerciante dell’Inghilterra meridionale: Margaret Thatcher. Nel 1975, poco dopo la sua elezione, Thatcher partecipò, per la prima e unica volta, a una riunione del prestigioso Centro studi del Partito Conservatore. Uno degli esperti aveva preparato un discorso nella piena tradizione della politica del consenso britannica. Il partito, disse, avrebbe dovuto rimanere saldamente al centro, tenendosi lontano dalle esagerazioni della sinistra ma anche da quelle della destra. Thatcher non lo lasciò nemmeno finire. Tirò fuori un libro dalla borsa e lo tenne alto, affinché tutti potessero vederne il titolo. Era “La società libera”, dell’economista austriaco Friedrich Von Hayek. «Questo è quello in cui crediamo», disse e lo sbatté rumorosamente sul tavolo.
Von Hayek era il più importante di un gruppo di economisti fuggiti nel Regno Unito e negli Stati Uniti dall’Europa centrale caduta in mano ai nazisti. Tra gli anni Trenta e Quaranta era stato il grande avversario di Keynes. Dove quest’ultimo sosteneva l’importanza dell’intervento dello stato nell’economia, Hayek diceva che invece il suo ruolo doveva essere il più ridotto possibile. Il mercato, sosteneva Hayek, è una forza inconoscibile e imprevedibile: non ha senso tentare di indirizzarne o pianificarne gli esisti. Tutto ciò che un governo dovrebbe fare, diceva, è intervenire per eliminare le barriere alla sua libera e piena espressione. Dopo un iniziale successo, le idee di Hayek furono accantonate. Erano gli anni della Grande Depressione, milioni di persone erano disoccupati e le strade erano piene di poveri e senzatetto. L’idea che la cosa migliore da fare fosse non fare nulla non era politicamente molto attraente.
Ma quando con la crisi economica e la recessione degli anni Settanta lo stato sociale iniziò a non sembrare più sostenibile il suo pensiero, e quello degli altri economisti di quella che era stata soprannominata la “Scuola austriaca”, tornò improvvisamente di attualità. Al posto della centralità dello stato, la nuova dottrina sosteneva la necessità della sua riduzione, del suo ritiro entro confini più ristretti possibile, in modo da lasciare libere di esprimersi le forze dell’inconoscibile mercato di Hayek. Era l’idea di un altro dei politici considerati i padri del neoliberismo, il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, che la espresse perfettamente durante il discorso inaugurale della sua presidenza, nel gennaio del 1981: «Il governo non è la soluzione. Il governo è il problema».

Da allora intellettuali e politici di sinistra non hanno smesso di interrogarsi su cosa accadde in quegli anni. Lo storico Tony Judt, nel suo libro del 2010 “Guasto è il mondo”, scritto mentre era paralizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica che lo avrebbe ucciso pochi mesi dopo la pubblicazione, descrisse con amarezza come, a partire dagli anni Ottanta, «nel corso di poco più di un decennio, il paradigma dominante della conversazione pubblica passò dall’interventismo entusiasta e dal perseguimento dei beni comuni a una visione del mondo perfettamente riassunta dal famoso aforisma di Margaret Thatcher: “Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie”».
Nell’accademia, queste idee furono portate avanti dai “Chicago boys”, un gruppo di economisti americani guidati da Milton Friedman. Furono esportate in tutto il mondo dal Fondo Monetario Internazionale, dalla Banca Mondiale e dall’Organizzazione mondiale del commercio (erano le dottrine soprannominate “Washington consenus”). E, come era accaduto trent’anni prima con le idee “keynesiane”, divennero presto egemoni. Tanto da influenzare, almeno in parte, anche i partiti socialdemocratici europei e la sinistra americana.  Tony Blair nel Regno Unito, Bill Clinton negli Stati Uniti e Massimo D’Alema in Italia, venti anni prima di Matteo Renzi, sostennero tutti la necessità di un cambiamento storico nel lessico e nei programmi dei loro partiti. Furono proprio i partiti della sinistra, al potere quasi ovunque in Occidente tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Duemila, a introdurre alcune delle più grandi deregolamentazioni e privatizzazioni degli ultimi decenni.
L’asse politico intorno a cui ruotava il dibattito pubblico si era spostato verso destra e tutti i partiti avevano accettato, almeno a parole, i punti salienti dell’agenda neoliberista. Fu Clinton negli Stati Uniti ad approvare la deregolamentazione bancaria che, secondo alcuni economisti, è stata tra le principali cause della crisi finanziaria del 2008. Furono i socialdemocratici tedeschi ad approvare le riforme che hanno liberalizzato il mercato del lavoro tedesco e tagliato lo stato sociale. In Italia, la sinistra partecipò attivamente alla riduzione delle tutele sul lavoro e alla stagione delle privatizzazioni. Come disse all’Economist nel 2006 il ministro per lo Sviluppo economico del nuovo governo di centrosinistra, Pier Luigi Bersani: «Saremo più liberali di Berlusconi».

Il neoliberismo funziona?
La fine del consenso keynesiano e l’inizio del consenso neoliberale sembrò all’epoca una scelta obbligata. Lo stato sociale non era più sostenibile ai livelli degli anni Sessanta e Settanta. Sembrava che i governi facessero solo danni quando intervenivano in economia e l’apertura al commercio internazionale appariva davvero qualcosa da accettare in maniera acritica. A molti sembrò che l’era della differenza tra destra e sinistra fosse definitivamente tramontata, così come in maniera speculare l’era della destra sembrava definitivamente conclusa quando al termine della Seconda guerra mondiale si era affermato il “consenso keynesiano”.
Il presidente francese François Hollande è stato uno di coloro che hanno formulato in maniera più drammatica la sensazione di questa inevitabilità. Hollande fu eletto nel 2012 con un programma di sinistra che sembrava ritornare ai fasti del consenso keynesiano: alta tassazione per i ricchi, nessun taglio alla spesa pubblica, aumento della spesa sociale. Ma una volta arrivato al potere non riuscì ad applicare quasi nulla del suo programma. Il suo consenso precipitò ai minimi storici per vicende diverse. Verso la fine del suo mandato Hollande spostò l’asse del suo governo verso il centro e tentò di far approvare una riforma per liberalizzare il mercato del lavoro, incontrando l’opposizione di milioni di francesi. In un’intervista del 2016 si domandava sconsolato: «Quello che è in gioco oggi è se la sinistra, più che il socialismo, hanno un futuro nel mondo o se la globalizzazione ha ridotto o addirittura annientato la possibilità di portare avanti politiche alternative».
Hollande, però, era probabilmente più drammatico di quanto il momento storico meritasse. Se anche fosse vero che il neoliberismo è stato per decenni un dogma al quale era difficile sfuggire, è almeno dalla crisi economica che le cose sono iniziate a cambiare. Le critiche a un’interpretazione troppo rigida del “consenso neoliberale” hanno iniziato a moltiplicarsi e non solo all’interno dell’accademia. Nel libro del 2013 “Il capitale nel XXI secolo”, di Thomas Piketty, l’economista francese afferma che lasciato a sé stesso il mercato tende inevitabilmente a perpetuare e ad accentuare le diseguaglianze, è stato un successo mondiale e ha suscitato un dibattito anche tra i non addetti ai lavori.
La ricerca economica, inoltre, non è mai stata realmente schiava di questo dogma. Come ha scritto l’economista Dani Rodrik in un articolo uscito sul Guardian proprio questa settimana, il difetto fatale del neoliberismo inteso nella sua versione più dogmatica è che non esistono formule economiche universali, valide in ogni circostanza. Ogni scelta va calata nel suo contesto e i suoi risultati restano spesso imprevedibili. Quello che esiste, scrive Rodrik, è una percezione errata di quello che pensa l’accademia economica su questo tema. Per spiegare cosa intende, Rodrik racconta una breve storiella.
Un giornalista chiama un professore di economia e gli chiede se il commercio internazionale sia una cosa buona. Il professore risponde entusiasticamente che sì, certo che è una buona idea. Pochi giorni dopo il giornalista si traveste da studente e inizia a frequentare un seminario avanzato sul commercio internazionale. Fa la stessa domanda: il commercio internazionale è una cosa buona? Questa volta il professore è seccato: «Cosa intendi per buono?» e «Buono per chi?». Il professore si lancia quindi in un lungo discorso che culmina con una lunga lista di condizioni: «E quindi se il lungo elenco che ho fatto viene soddisfatto, è dando per assodato che possiamo tassare i beneficiari, compensare i perdenti, allora il libero commercio ha la potenzialità per aumentare il benessere di ciascuno». Se il professore fosse particolarmente di buon umore potrebbe anche aggiungere che gli effetti di lungo termine del libero commercio su un’economia non sono affatto chiaro e che dipendono da un lunga lista di requisiti del tutto differente.
In altre parole, l’economista neoliberale secondo cui in ogni caso si produce benessere riducendo le regole, tagliando la spesa pubblica e aprendosi al commercio internazionale esiste quasi esclusivamente nella mente dei politici e dei personaggi televisivi della sinistra radicale. Il problema non è il neoliberismo in quanto tale, ma la sua versione dogmatica e intransigente che più che dalle penne degli economisti emerge dai discorsi dei politici o dai libri degli intellettuali che per vendere copie hanno bisogno di presentare un mondo chiaramente diviso tra bianco e nero. E questo fa sì che anche le critiche al neoliberismo assumano gli stessi toni intransigenti. Non c’è niente di male nella concorrenza, nel mercato o nel commercio internazionale – se questi strumenti vengono utilizzati nelle giuste condizioni e nei modi corretti.
Dove il neoliberismo sbaglia, continua Rodrik, «è nel credere che esista un’unica e universale ricetta per migliorare le performance economica». Bisogna stare attenti a non buttare via le buone idee dell’agenda neoliberista insieme alla sua versione più radicale. Allo stesso tempo non bisogna credere che abbiamo davanti una sola strada da percorrere. Anche se il neoliberismo fosse la via migliore verso la crescita economica, esistono anche altri valori che una società dovrebbe cercare di perseguire: l’inclusione e la giustizia sociale, la stabilità, la democraticità.
A volte questi valori possono essere in contrasto con il perseguimento della crescita economica e questo pone una scelta che, conclude Rodrik, «non può essere fatta sulla base di tecnocratiche ricette economiche: la politica deve giocare un ruolo centrale». E il campo dove gioca questo ruolo è quello dove vige ancora l’antica divisione tra sinistra e destra. È già accaduto in passato che decidessimo che fosse possibile giocare soltanto in una di queste metà campo. Il dibattito di questi anni ci insegna che le cose non stanno davvero così.

venerdì 17 novembre 2017

I troppi leader politici di cui l’Italia non ha davvero bisogno

Viva il pluralismo democratico, ma forse si sta esagerando. Mentre sempre meno italiani vanno a votare, ogni giorno spuntano nuovi leader. La sinistra è un puzzle impazzito di nomi e sigle, le realtà centriste sono almeno una decina. Dopo la discesa in campo di Boldrini e Grasso, torna pure Ingroia.

di Marco Sarti
17 Novembre 2017 - 10:20


L’ultimo arrivato è Antonio Ingroia, ex pm che alle elezioni del 2013 ha guidato Rivoluzione Civile. Stavolta si presenta agli italiani insieme al giornalista Giulietto Chiesa, con cui ha appena fondato “La mossa del cavallo”. Ennesima proposta politica in un Paese che, forse, non ne sentiva poi tanto il bisogno. Non è un problema di idee, ci mancherebbe. Semmai di affollamento. Il fenomeno è curioso e può essere facilmente sintetizzato: in Italia ci sono troppi leader. Basta chiedere a Piero Fassino, il pontiere incaricato dai vertici del Pd di riallacciare il dialogo con la sinistra. In questi giorni il prescelto gira come una trottola. L’agenda fitta di appuntamenti con decine di esponenti politici, ognuno in rappresentanza del proprio movimento. Più che un’alleanza il centrosinistra è diventato un caleidoscopio di nomi e sigle. C’è Pippo Civati alla guida di Possibile, Nicola Fratoianni per Sinistra Italiana. I demoprogressisti di Bersani e D’Alema hanno il volto del coordinatore Roberto Speranza, mentre l’ex sindaco milanese Giuliano Pisapia parla per conto del Campo Progressista. Alcuni leader sembrano già vicini a un accordo con i renziani. Spiccano, tra gli altri, i Radicali Italiani di Riccardo Magi, ma anche i Verdi di Bonelli, i socialisti di Nencini e l’Italia dei Valori di Ignazio Messina. Senza scordare gli europeisti guidati da Benedetto Della Vedova. Una galassia in espansione, che riporta la mente ai quattordici partiti che diedero vita all’Unione di Prodi.

E mentre si cerca l’unità dell’area, continuano a spuntare nuove leadership. Ormai è difficile persino stare dietro a tutti. Anna Falcone e Tomaso Montanari hanno dato vita all’Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza. È il movimento civico del Brancaccio, che al momento potrebbe aver già interrotto la sua corsa. E poi ci sono gli ultimi arrivati. Pietro Grasso e Laura Boldrini, leader in fieri. I presidenti di Camera e Senato sono scesi in campo negli ultimi giorni, entrambi in cerca di un ruolo politico nell’ampio e variegato scenario della sinistra. Una decisione legittima, come spiegava l’atro giorno su Repubblica l’ex presidente di Montecitorio Luciano Violante, che pure ha fatto inalberare non poco qualche renziano.


La situazione generale rasenta il paradosso. In un Paese dove sempre meno persone vanno a votare, cresce senza sosta il numero dei partiti. La domanda resta tiepida, ma l’offerta politica è in pieno boom. Intanto, a destra e sinistra, ogni giorno spuntano nuovi leader
La situazione generale rasenta il paradosso. In un Paese dove sempre meno persone vanno a votare, cresce senza sosta il numero dei partiti. La domanda resta tiepida, ma l’offerta politica è in pieno boom. Per farsi un’idea basta osservare quello che accade nel mondo centrista, altra realtà in ebollizione. Anche qui le leadership spuntano come funghi. Si orientano verso il centrosinistra gli esponenti di Alternativa Popolare, guidati da Angelino Alfano. E con loro i Centristi per l’Europa di Pier Ferdinando Casini. Nello stesso schieramento ci sono anche Lorenzo Dellai e Andrea Olivero, responsabili di Democrazia solidale (ennesimo soggetto nato dall’implosione della Scelta civica montiana). Se il puzzle di centrosinistra si fa sempre più complicato, dall’altra parte del fronte la situazione non è migliore. I protagonisti del centrodestra sono noti: Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni e Matteo Salvini. All’ombra dei tre grandi partiti che rappresentano, ecco spuntare una fitta rete di sigle e leadership. L’ex ministro Gaetano Quagliariello è il responsabile del movimento Idea, l’altro ex ministro Gianfranco Rotondi guida Rivoluzione cristiana. Raccontano che un altro ex membro di governo, Raffaele Fitto, potrebbe entrare nella coalizione alla guida del suo partito Direzione Italia. E poi c’è l’Udc di Lorenzo Cesa, altra realtà dallo scudo crociato. E chissà se farà parte del gruppo anche Rinascimento, la realtà politica da poco lanciata da Giulio Tremonti e Vittorio Sgarbi. Altri due leader di tutto rispetto. Sicuramente non ci sarà Flavio Tosi, responsabile di Fare!, su cui i leghisti hanno posto un veto. Mentre restano i dubbi su Energie per l’Italia e il suo fondatore Stefano Parisi, che continua a girare il Paese per radicare il suo movimento.

Chissà, forse è solo l’ambizione dei protagonisti. Magari è la naturale conseguenza di una legge elettorale con una componente proporzionale. Il risultato, intanto, è sotto gli occhi di tutti. Una bulimia di leadership di cui l’Italia, onestamente, non sembra davvero aver bisogno
Ogni progetto, un partito. Ogni partito, un leader. Pluralismo democratico o distorsione della realtà? A elencarli tutti c’è da farsi venire il mal di testa. Ormai le sigle sono così numerose che senza una semplificazione del quadro, seppure minima, diventa difficile anche decidere per chi votare. In alcuni casi è praticamente impossibile persino trovare le differenze tra una proposta e l’altra. Alzi la mano chi conosce le caratteristiche che distinguono Sinistra Italiana e Possibile. Oppure chi sa spiegare in cosa differiscono i centristi di Casini e gli ex montiani del Centro democratico. Ovunque si guardi, ecco spuntare nuovi leader di partito. E per carità di Patria si parla solo di leadership ufficiali, perché se si dovessero considerare anche le correnti interne ad ogni movimento - bastano quelle del Partito democratico - probabilmente non se ne verrebbe più fuori. Chissà, forse è solo l’ambizione dei protagonisti. Magari è la naturale conseguenza di una legge elettorale con una componente proporzionale. Il risultato, intanto, è sotto gli occhi di tutti. Una bulimia di leadership di cui l’Italia, onestamente, non sembra davvero aver bisogno.

Ecco il Codice Etico di Repubblica

PREMESSA



Da sempre attento al rispetto delle persone e delle leggi, il quotidiano Repubblica si dota con questo documento di un codice etico, in cui riafferma i suoi principi, i suoi obiettivi morali e sociali, la sua fiducia nelle Istituzioni del nostro paese. Questo documento sottolinea l’impegno dei giornalisti, dei dirigenti e degli impiegati a svolgere correttamente e in piena trasparenza la propria professione. Siamo coscienti che ogni nostro comportamento sarà giudicato nel nome della legge e del nostro pubblico.


LA MISSIONE
La missione di Repubblica è di creare un pubblico informato, attivo, sollecitato alla partecipazione alla vita pubblica grazie a una migliore e più approfondita comprensione degli eventi, delle idee, della cultura in Italia e nel mondo. A questo scopo, Repubblica raccoglie, verifica, riporta, produce e distribuisce informazione e altri contenuti che servano il pubblico interesse e aiutino a mantenere un sano ambiente di vita collettiva.


GLI OBIETTIVI
Repubblica è un giornale laico che guarda con attenzione al rispetto dei diritti civili sotto ogni latitudine e sotto ogni governo. Lavora per l’inclusione, la valorizzazione delle differenze, contro ogni deriva oscurantista e antiscientifica. Repubblica è un punto di riferimento per chi chiede conto alle autorità del loro operato, per chi pretende trasparenza, per tutti coloro che vengono lasciati ai margini della società. E nello stesso tempo riflette e anticipa i mutamenti negli stili di vita, le curiosità culturali, le tendenze di una società in continua e rapida evoluzione.


LA STORIA
40 anni con i lettori-cittadini, nel segno dell’Europa. Fondata nel 1976 da Eugenio Scalfari, la Repubblica è un quotidiano italiano che guarda all’Europa come luogo di sviluppo e progresso. Il suo obiettivo: non solo informare, ma anche aiutare i lettori a capire la realtà complessa dei nostri anni, affinché possano davvero esercitare il loro diritto di cittadinanza. Repubblica si pone dunque come strumento dell’identità libera e collettiva dei suoi lettori. Repubblica è nata in una fase difficile e oscura della vita pubblica italiana. La sua voce libera e laica ha contribuito a riconnettere un tessuto lacerato e a illuminare angoli bui della nostra storia, accompagnando le diverse fasi della vita democratica del Paese. Una linea di responsabilità storica e pubblica che è rintracciabile nelle dichiarazioni di intenti dei tre direttori (Eugenio ScalfariEzio MauroMario Calabresi) che hanno guidato questa testata dal 1976.


LA COMUNITÀ
Repubblica è cresciuta, dalla nascita nel 1976, insieme alla comunità dei suoi lettori. Ogni anno dal 2012 si tiene la Repubblica delle Idee, la grande festa itinerante in cui il pubblico di Repubblica incontra i giornalisti, personaggi della vita pubblica italiana e internazionale e apre un dialogo che prosegue per tutto l’anno.


CREDIBILITÀ E FIDUCIA
Cardine di questo lavoro è il rapporto di interscambio con i lettori, che richiede attenzione continua e reciproca collaborazione e si basa sulla credibilità del lavoro giornalistico e l’ambizione di conquistare la fiducia della comunità dei lettori, ogni giorno come fosse il primo giorno. La Repubblica aderisce al Trust Project, progetto internazionale per la fiducia nei giornali (www.thetrustproject.org), ritenendo che l’adozione di regole etiche possa tutelare e incrementare la reputazione del collettivo di Repubblica, dei suoi singoli componenti e del suo prodotto giornalistico, su carta e online. Per poter restituire al meglio questo impegno, i suoi giornalisti, i tecnici e tutti coloro che lavorano nell’impresa Repubblica aderiscono a questi principi di etica improntati alla massima trasparenza e responsabilità. I principi non sono fatti solo per rispondere a delle esigenze, ma anche e soprattutto per sollevarne di nuove. Il dialogo continuo su come applicare questi principi nel nostro lavoro quotidiano permetterà di produrre un giornalismo degno del nome di Repubblica e del pubblico che serve.


 
LA DEONTOLOGIA DEI GIORNALISTI

A integrazione del presente codice etico, i giornalisti e i collaboratori de La Repubblica sono inoltre tenuti al rispetto del codice di autodisciplina dei giornalisti italiani  
Il codice di autodisciplina è il testo unico dei doveri del giornalista stilato dall’Ordine nazionale dei giornalisti, che recepisce i contenuti dei seguenti documenti:
  • Carta dei doveri del giornalista;
  • Carta dei doveri del giornalista degli Uffici stampa;
  • Carta dei doveri dell’informazione economica; Carta di Firenze;
  • Carta di Milano;
  • Carta di Perugia;
  • Carta di Roma;
  • Carta di Treviso;
  • Carta informazione e pubblicità;
  • Carta informazione e sondaggi;
  • Codice di deontologia relativo alle attività giornalistiche;
  • Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive;
  • Decalogo del giornalismo sportivo.


Tutti i soggetti che lavorano per il giornale accettano le sue regole. Questo codice etico è sottoscritto dai vertici aziendali, dall’amministrazione, dai dipendenti, dai collaboratori e da tutti coloro che operano a vario titolo a nome e per conto de La Repubblica

I valori di Repubblica




1.ACCURATEZZA
Il nostro intento è la ricerca della verità. La verifica accurata è la priorità. Ciò che riportiamo deve essere corretto e contestualizzato. Non assumiamo per vero tutto ciò che ci viene detto e non ci facciamo influenzare dalle nostre convinzioni personali.


2. COMPLETEZZA
Nella misura del possibile raccontiamo le nostre storie con completezza e chiarezza di contesto. Se per motivi di spazio o tempo non riusciamo a inserire tutte le informazioni che abbiamo a disposizione, il lavoro editoriale deve essere accurato al fine di non omettere o sacrificare aspetti della storia che snaturino la verità così come l’abbiamo appurata.


3. ONESTÀ
Chi svolge il lavoro giornalistico con onestà dà prova di meritare la fiducia del pubblico. Nel nostro lavoro operiamo con genuinità e trasparenza. Citiamo e attribuiamo con chiarezza le fonti delle nostre informazioni. Evitiamo iperbole e ipotesi sensazionalistiche. Non utilizziamo ricostruzioni di fantasia. Solo in rare occasioni – in cui ci siano implicazioni di sicurezza per noi o per soggetti terzi – possiamo agire senza dichiarare la nostra identità. Una volta giunto il momento di riportare la storia, sveliamo perché non abbiamo dichiarato di essere giornalisti. L’utilizzo di fonti anonime deve essere limitato al minimo indispensabile e deve essere spiegato.


4. INDIPENDENZA
La Repubblica rifiuta i condizionamenti politici e la corruzione: nessuno può richiedere denaro o altri vantaggi per eseguire prestazioni indebite. Per garantirlo, ogni decisione presa deve essere adeguatamente verificata e comunque verificabile. I conflitti d’interesse vanno denunciati e sono sanzionati. Ogni potenziale conflitto di interesse va comunicato e valutato insieme agli organi dirigenti del giornale. Le decisioni editoriali sono totalmente indipendenti dalla proprietà dell’impresa Repubblica.


5. IMPARZIALITÀ
Chi lavora a Repubblica naturalmente ha opinioni, convinzioni, credo personali che rendono più ricco l’ambiente da cui nascono i nostri prodotti. Ma il pubblico merita una visione equa, imparziale, non influenzata da punti di vista personali. Gli spazi dei commenti sono chiaramente separati e individuabili all’interno dei prodotti editoriali di Repubblica.


6. TRASPARENZA
La credibilità del giornale passa anche per la chiarezza sui suoi processi decisionali e produttivi, nei limiti della normale dinamica di vita interna del luogo di lavoro. Ci sforziamo di comunicare all’esterno tutto quanto possa contribuire a spiegare come siamo arrivati al prodotto finale, soprattutto quando le nostre scelte sono state difficoltose. Rendiamo pubblico ogni rapporto con partner o finanziatori che possono apparire avere un’influenza sul nostro lavoro.


7. SOCIAL MEDIA
La Repubblica regola l’uso dei social media con un decalogo deontologico che i propri giornalisti sono tenuti a rispettare.



8. RESPONSABILITÀ
Ci assumiamo la piena responsabilità per il nostro lavoro e dobbiamo essere sempre pronti a risponderne. Così come diamo rilievo alle nostre fonti, altrettanta importanza attribuiamo ai contributi e alle critiche dei lettori e, nei limiti del possibile, cerchiamo di rispondere. Gli errori sono inevitabili. Quando avvengono, li correggiamo immediatamente.


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mercoledì 1 novembre 2017

Ma quale rivoluzionario, Lutero era un leader populista!

Pubblico questo articolo, apparso  su "ildibbio.news"  in ricordo dei miei genitori, Giuseppina e Michele, e di mia sorella Nicoletta. Loro erano ferventi protestanti di rito metodista e membri molto attivi della Chiesa Metodista e Valdese di Carrara.

a firma  

1 Nov 2017 14:32 CET

Cinquecento anni fa, con le 95 tesi, il frate tedesco dava vita alla riforma protestante

Il coraggio, quello di sicuro non gli mancava. Sospinto all’estremo da un’ispirazione fanatica e da un carattere indomito che prosciuga ogni dubbio, che affoga ogni esitazione e non lascia alcuno spazio alla gioia e al piacere.
Per Martin Lutero la religione era espiazione e penitenza, colpa e mortificazione ( dello spirito e della carne, specie quella altrui), ma anche una rude lotta contro il peccato e i peccatori. Le invettive all’arma bianca, la prosa senza compromessi, la rabbia fustigatrice verso i “nemici di Dio” non lo abbandoneranno mai nel corso della vita. In qualche modo il padre della Riforma è un precursore di quel linguaggio dell’odio che costituisce la fortuna dei moderni leader populisti. Basta leggere poche pagine del pamphlet antisemita Degli ebrei e delle loro bugie scritto nel 1543 tre anni prima della morte per toccare con mano l’intensità della violenza luterana, ma anche la sua inquietante modernità. Un fervore che si spinge ben oltre la tradizionale giudeofobia cattolica: «Di questi miserabili ladri e parassiti bisognerebbe confiscare i beni, bruciare le sinagoghe e le abitazioni, devono essere cacciati dalla Germania o altrimenti uccisi. Gli ebrei sono serpi velenose, dei maiali figli del demonio ricoperti dagli escrementi di Satana». Non è un caso che Degli ebrei e delle loro bugie sia stato uno dei libri più letti e citati dai gerarchi del Terzo Reich per giustificare i pogrom e le persecuzioni della comunità ebraica.
Sotto i riflettori del “tribunale” luterano non solo le alte gerarchie della Chiesa o le religioni «eretiche», ma anche l’umanista suo contemporaneo Erasmo da Rotterdam con cui entra in polemica in una disputa sul libero arbitrio, definito «un topo di fogna», o l’astronomo polacco Copernico padre dell’eliocentrismo, liquidato come «un furbastro imbecille che ha la pretesa di mettere con i piedi per aria tutta l’arte della astronomia».
Aveva un talento speciale, Martin Lutero, nel trafiggere con gli insulti i suoi avversari, questo fin dalla prima gioventù in un crescendo espasperato, possedeva anche un sarcasmo rozzo con cui fomentava i fedeli, in particolare contro la curia romana che nelle sue intemerate amava paragonare al «letame» o a un «verminaio» tra gli sghignazzi dei suoi partigiani. Ma mai avrebbe immaginato che quell’irrequieto spirito iconoclasta e quel livore malcelato lo avrebbero fatto diventare una delle figure più influenti della Storia.
Nella notte di Ognissanti di cinquecento anni fa, un oscuro frate agostiniano affigge le sue “95 Tesi” sulla porta della cattedrale di Wittemberg, piccolo villaggio nel nord della Germania. Si tratta di di un attacco senza precedenti alla Chiesa apostolica romana, al suo decadimento morale, agli sperperi, al bieco commercio delle indulgenze ( pagare il Vaticano per assicurarsi un posto in paradiso). Povere dal punto di vista teologico, le tesi luterane sono una bomba atomica che in pochi anni darà vita a una nuova confessione religiosa e scoperchierà l’intera geopolitica dell’Europa. A dire il vero Lutero voleva soltanto aprire una discussione tra le autorità religiose, ma come è accaduto a molti prima e dopo di lui, per una serie di circostanze non volute si ritrova ostaggio della Storia. La traduzione in tedesco del suo testo e la recente invenzione della stampa fanno rimbalzare le Tesi ai quattro angoli della Germania. È un effetto domino. Quando Papa Leone X intima al frate di abiurare 41 delle 95 tesi nella bolla pontificia Exsurge Domine, Lutero brucia pubblicamente la bolla; da quel momento lascerà per sempre la Chiesa cattolica.
Il viaggio a Roma di sei anni prima fu decisivo per la maturazione della sua rivolta interiore: Lutero è sconvolto dall’opulenza del clero, dagli abusi ecclestiastici, dalla mollezza spirituale, dalla sbadataggine con cui la capitale del cristianesimo vive la fede, sempre mediata dalla politica e dalle contraddittorie opportunità della vita mondana. Non sopporta il modo sbrigativo con cui viene ce- lebrata la messa e, quando tocca a lui officiare una cerimonia, si sforza di parlare lentamente in aperta polemica con quei prelati distratti e corrotti.
Ma è anche irritato dalla sfavillante bellezza romana, da una città cosmopolita che splende nella luce del Rinascimento così diversa dal natio borgo selvaggio di Elseben e dai suoi umori sommessi e umidi: Michelangelo, Raffaello, Bramante, i grandi geni dell’arte chiamati nella città eterna dal Papa mecenate Giulio II. Per il frate tedesco questo sfarzo è il simbolo della perdizione vaticana, la rappresentazione plastica della decadenza temporale.
In questo contrasto ancor più antropologico che spirituale, traspare tutta l’irriducibile diversità di Martin Lutero, la sua “provinciale” e complessata avversione nei confronti di un’autorità che vede irrimediabil-mente “lontana dal popolo”, espressione malvagia di un potere che ai suoi occhi non ha più alcuna autorità morale e le cui espressioni culturali sono altrettanti simboli di quel declino religioso e umano che ha fustigato nel corso della sua esistenza.
«Ogni credente è un sacerdote», afferma invitando i fedeli a liberarsi della mediazione dei ministri di culto per riscoprire il rapporto diretto con Dio. Insomma, anche di fronte al padreterno “uno vale uno”.