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lunedì 25 settembre 2017

''GLI ITALIANI SONO IN MAGGIORANZA CONTRARI. SONO RAZZISTI, IGNORANTI, O FORSE È LA LEGGE FATTA MALE?

LA SÒLA DELLO IUS SOLI - GALLI DELLA LOGGIA: ''GLI ITALIANI SONO IN MAGGIORANZA CONTRARI. SONO RAZZISTI, IGNORANTI, O FORSE È LA LEGGE FATTA MALE? LA TERZA: È LEGITTIMO DIFENDERE I PROPRI STILI DI VITA. DARE AUTOMATICAMENTE LA CITTADINANZA A CHI VIENE DA PAESI ISLAMICI PUÒ CREARE SERI PROBLEMI. CHI SI TRASFERISCE DAL PERÙ NON È UGUALE A CHI LO FA DAL CONGO. È SCIOCCO CHIUDERE GLI OCCHI''
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Ernesto Galli della Loggia per il ''Corriere della Sera''
 
Perché la maggior parte degli italiani, come indicano tutti i sondaggi, sono contrari alla nuova legge sulla cittadinanza nota come ius soli ? A questa domanda - forse non del tutto irrilevante nel momento in cui da molte parti si auspica o si annuncia come prossimo il completamento in Senato dell' iter di approvazione della legge - ci sono tre risposte possibili:
 
a) supporre che i suddetti italiani siano male informati, e quindi ignorino quello che in realtà dice la legge; ovvero b), ritenere che per qualche misteriosa ragione sempre i suddetti italiani siano naturalmente predisposti a nutrire sentimenti xenofobi e/o razzisti; oppure, terza risposta, c), pensare che la legge presenti effettivamente aspetti discutibili capaci di destare a buon motivo perplessità se non allarme.
 
Secondo me legislatori saggi e pur favorevoli in generale alla legge dovrebbero fare propria quest' ultima risposta: e dunque provare a vedere che cosa c' è nella legge che lascia dubbiosi. Provo a dirlo io secondo il mio giudizio: è il fatto che per la sua parte centrale la legge sullo ius soli è pensata e scritta secondo una prospettiva diciamo così astrattamente individualista, indipendente da ogni realtà culturale. È centrata esclusivamente sul candidato alla cittadinanza in quanto singolo.
 
Come si sa, infatti, la cittadinanza italiana sarebbe d' ora in poi dovuta di diritto a chiunque, compiuto il diciottesimo anno di età, sia nato in Italia da genitori stranieri o vi sia arrivato prima dei dodici anni, e inoltre che in Italia abbia compiuto con successo un ciclo scolastico di almeno 5 anni o un corso d' istruzione o formazione professionale triennale o quadriennale.
 
La legge insomma prescinde del tutto dal contesto culturale familiare o di gruppo in cui il futuro cittadino è cresciuto, e tanto più da qualunque accertamento circa l' influenza che tale contesto può avere avuto su di lui, sui suoi valori personali, sociali e politici. Si richiede solo che uno dei genitori abbia un regolare permesso di soggiorno, un' abitazione degna di questo nome, un reddito minimo e sappia parlare italiano.
 
Così come essa prescinde dagli eventuali vincoli di fedeltà che il candidato di cui sopra abbia contratto con altre istituzioni o Stati. Non è un caso che per il futuro cittadino italiano non sia previsto, mi sembra, l' obbligo della rinuncia a ogni altra nazionalità di cui sia eventualmente già in possesso (come è quasi certo).
 
Ora, se si vuol stare coi piedi per terra è giocoforza ammettere che a proposito della nuova legge le preoccupazioni dell' opinione pubblica nascono in specie in relazione ad una categoria particolare di immigrati: gli immigrati di cultura islamica. Sono preoccupazioni realistiche.
 
È in tale ambito, infatti, che si registra la presenza di un fortissimo vincolo familiare e di gruppo, cementato e per così dire sublimato da un altrettanto forte comandamento religioso: entrambi in grado di condizionare in misura decisiva mentalità e comportamenti del singolo. Di tenerlo legato ad un' appartenenza che, come è stato più e più volte dimostrato, è pronta, a certe condizioni, a non tenere in alcun conto regole, principi, fedeltà che non emanino da fonti diverse da quelle suddette.
 
Non è possibile ignorare che è proprio un tale nodo di vincoli e di appartenenze a sfondo cultural-religioso- familiare che quasi sempre si delinea dietro gli ormai innumerevoli episodi di terrorismo islamista che da anni insanguinano l' Europa.
 
Ma non è solo di questo che si tratta. C' è un ulteriore insieme di problemi e un ulteriore ordine di esigenze non attinenti questa volta all' ordine pubblico ma piuttosto all' ordine culturale di una comunità. In questo caso della comunità italiana, la quale legittimamente desidera continuare a riconoscersi come tale e quindi a conservare i propri valori e stili di vita.
 
L' esigenza, per fare alcuni esempi, che le bambine non vengano rispedite a dodici anni nei propri Paesi d' origine per essere sposate contro la propria volontà, che nell' ambito familiare non sia impedito a nessuno di uscire di casa quando vuole e di apprendere l' italiano, che in generale vengano riconosciuti alle donne diritti e possibilità eguali a quelli riconosciuti agli uomini.
 
È davvero così disdicevole o addirittura reazionario voler essere sicuri che chi acquista la cittadinanza italiana, i nostri nuovi concittadini, siano fermamente convinti delle esigenze che ho appena detto, che essi condividano questi elementi di base della cultura della comunità italiana, senza che ci sia bisogno che intervengano a ricordarglielo ogni due per tre carabinieri o magistrati? A me sembra di no.
 
Il fatto è che se l' obiettivo pienamente condivisibile della legge sullo ius soli è l' integrazione nella società italiana, allora appare del tutto irragionevole supporre che una tale integrazione presenti gli stessi problemi per chi proviene, faccio un esempio, dal Perù o dal Congo.
 
Appare del tutto sensato, invece, supporre che nel secondo caso l' integrazione sia assai più lunga e difficile, presenti aspetti assai più complessi. E poiché evidentemente la legge non può fare discriminazioni, appare allora altrettanto sensato pensare ad un testo di legge diverso da quello attuale, e cioè «tarato» sulla fattispecie più difficile, vale a dire sull' immigrazione proveniente dalle culture più distanti da quella italiana.
 
Tra le quali dobbiamo riconoscere che la prima in assoluto è di fatto quella islamica. Per ragioni che dovrebbero essere ovvie: perché è quella con la quale l' Occidente ha da oltre un millennio un confronto-scontro anche assai aspro che ha lasciato eredità profonde da ambo le parti, perché è quella che in ambiti identitari cruciali - come la pratica religiosa e culturale, il rapporto tra i sessi, le regole alimentari - ha le più marcate diversità rispetto a noi, e infine, e soprattutto, per una drammatica ragione geopolitica di fronte alla quale sarebbe da sciocchi chiudere gli occhi.
 
Infatti, da un lato l' azione spesso violenta delle correnti islamiste antioccidentali, dall' altro il poderoso lavoro di penetrazione che grazie alle proprie immense risorse finanziarie molti Paesi arabi vanno compiendo in Europa, entrambe queste strategie si fanno forti in vario modo per i loro disegni della presenza nel nostro continente di vaste comunità musulmane.
 
Stando così le cose è ovvio l' importante aiuto che la concessione della cittadinanza può oggettivamente offrire a questi progetti. E stando così le cose, è più che lecito chiedersi se sia davvero immaginabile che il semplice fatto, come immagina la legge, di avere frequentato le nostre scuole elementari (un ciclo d' istruzione di cinque anni appunto) possa realmente legare all' Italia, alla sua cultura e ai suoi valori un giovane che, mettiamo, per il resto della sua esistenza sia vissuto però entro un contesto familiare, religioso e di gruppo fortemente islamizzato.
 
Se sia sufficiente una siffatta garanzia o non sia piuttosto il caso di prenderne in considerazioni anche delle altre. Per decidere quali non mancano certo in Parlamento e nel Governo le conoscenze e le competenze necessarie.
 
L' importante è tenere a mente che in questo genere di faccende riguardanti il più vitale interesse nazionale non dovrebbe esserci posto né per il «buonismo» né per il «cattivismo», non dovrebbe esserci posto per il partito preso, per la superficialità o per la demagogia (né per quella di destra né per quella di sinistra). Qui dovrebbe parlare solo la voce del senso comune e del realismo: e bisogna sforzarsi di credere che nella vita politica del Paese non manchino le voci capaci di parlare questo linguaggio.

sabato 23 settembre 2017

Di Maio, un leader costruito in laboratorio per vincere a destra

 IL DUBBIO


Aldo Varano
E’ stupefacente lo stupore di analisti e cronisti della politica di fronte alla determinazione con cui Grillo e Casaleggio hanno costruito, fin dall’inizio, per Luigi De Maio, un percorso privilegiato. Perché in tutta la vicenda che si sta snodando sotto gli occhi degli italiani, c’è un solo punto assolutamente privo di mistero: per Di Maio i due Padri- Padroni del M5s hanno mandato all’aria tutte le regole pur di garantirgli il ruolo di candidato- premier, anzi per nominarlo e blindarlo in quel ruolo che è inesistente, come ha correttamente spiegato ai lettori del Corsera Paolo Mieli ( inesistente, ovvio, non solo per Di Maio ma anche per Renzi, Berlusconi, Salvini e gli altri). Perfino il giustizialismo ruspante del movimento, dato costitutivo del suo successo e brand populista, è stato disinvoltamente accantonato pur di non mollare Giggino. Sotto processo per diffamazione Di Maio, secondo le demagogiche, più che stravaganti, regole del Movimento, sarebbe incandidabile ma data la situazione, la sciagurata regola è stata accantonata.
Siamo di fronte a una impuntatura o a una fissazione del Duo Stellato oppure Grillo e Casaleggio hanno le idee più chiare di analisti e commentatori e stanno facendo la migliore scelta possibile tra quelle che hanno in mano rivelando ancora una volta un intuito che molti osservatori sembrano aver smarrito?
Per rispondere correttamente bisogna fare un passo indietro ripartendo dagli abbagli che hanno fin qui aiutato il M5s che, a partire dal giorno dopo delle elezioni del febbraio 2013, è stato scambiato, fondamentalmente, come una costola della complessa storia del variegato mondo della sinistra italiana. All’equivoco hanno contribuito non poco l’allora segretario e candidato premier sconfitto del Pd, Pier Luigi Bersani, e il mito di Beppe Grillo costruito su una lunga carriera di comico dell’opposizione e della sinistra d’opposizione, nonché fustigatore di cattivi e corrotti costumi a partire da quelli di Bettino Craxi, delle banche e di Berlusconi. Una nomea irrobustita dal rifiuto del Pd di iscriverlo tra le sue fila quando il comico genovese lo chiese. Invece, a contar bene i voti usciti dalle urne nel febbraio di quattro anni fa era evidente che il M5s aveva prima di tutto svuotato il centro destra guidato da Berlusconi. Il M5s esordiente arrivava a oltre 8 mln e mezzo di voti mentre la coalizione del Cavaliere ne perdeva oltre sette mln. E’ vero che nonostante la libera uscita a valanga di milioni di persone dall’egemonia del centro destra la coalizione guidata da Bersani non solo non acciuffava nulla ma perdeva di suo altri 3 mln e rotti di voti registrando la più grave sconfitta della storia del Pd dalla sua nascita e passando dal 33,17 di Veltroni al 25,42. Ma era del tutto evidente, anche dal punto di vista matematico, che il grosso del voto grillino era originato dal fallimento del centro destra. Non è un caso che Piepoli abbia avvertito nei mesi scorsi che se il centro destra fosse ridiventato vincente avrebbe svuotato in modo consistente i grillini. Un quadro, quello previsto dal sondaggista, che sembra delinearsi con nettezza nonostante le traversie attuali del centro destra e dello scontro di Berlusconi con Salvini.
Di Maio, quindi, non è la cervellotica impuntatura di Grillo e Casaleggio ma il candidato, tra quelli cresciuti nel parco- giocatori del M5s, che meglio di tutti gli altri, può frenare la fuoriuscita dei consensi di centro destra del M5s. Del resto, la performance Grillina del 2013 non è stata mai sottoposta a un controllo reale se non nell’unico caso delle comunali di Roma dove sia il centro sinistra che il centro destra avevano dato uno spettacolo che non poteva che tener lontani gli elettori dai rispettivi schieramenti. In tutti gli altri casi le vittorie del M5s sono state drogate dal meccanismo elettorale. In tutte le elezioni amministrative il M5s vince perché il suo essere minoranza viene ribaltato nel ballottaggio quando un centro destra non credibile arrivato ovunque al terzo posto vota massicciamente Grillo in odio al centro sinistra arrivato primo al primo turno.
Di Maio è cresciuto in una famiglia di destra con un padre del Msi di Almirante e poi di Alleanza nazionale. E’ considerato perbenista e moderato, non lontano da fastidi e pruriti per gl’immigrati. Laureato mancato, nonostante abbia provato prima con ingegneria e poi con giurisprudenza, ha un passato di steward al San Paolo di Napoli e di aspirante consigliere comunale di Pomigliano d’Arco trombato con poche decine di voti ( meno di 60), ed anche di riparatore di computer. Insomma è sufficientemente modesto per incontrare adesioni e successo tra ceti medi che la crisi ha impaurito fino al rancore. E’ quindi una scelta lucida e consapevole per chi, come Grillo e Casaleggio, intanto non vogliono perdere neanche un voto, consapevoli come sono che l’arretramento di un solo voto rispetto al 2013 farebbe esplodere l’intero movimento. Accadde già a Giannini, anche lui un uomo di teatro come Grillo, e fu la fine dell’Uomo Qualunque

domenica 17 settembre 2017

Ferrajoli: «La politica obbedisce all’economia e non conosce più il diritto»

da "ildubbio.news " del 17/09/2017

Odio e conflitti. Intervista al professor Luigi Ferrajoli, filosofo del diritto
Eclissi della politica, aggressione allo stato sociale, aumento delle disuguaglianze. Qui l’odio s’insinua, prende forma di parola e si fa linguaggio condiviso. Nascondendosi – troppo spesso – dietro un opaco quanto inattaccabile anonimato. Ne parliamo con Luigi Ferrajoli, giurista e professore emerito di filosofia del diritto. In corso di pubblicazione per Laterza, il suo ultimo libro: “ Manifesto per l’Uguaglianza”.
Odio dunque parlo, professor Ferrajoli?
Il linguaggio dell’odio sta sviluppandosi e generalizzandosi perché è legato non solo alle nuove forme della comunicazione – spesso anonime – ma anche al crollo delle forme e dei sentimenti tradizionali della solidarietà, al venir meno dei legami sociali.
Un ennesimo effetto della crescita della diseguaglianza?
La diseguaglianza, la povertà estrema, la disoccupazione, la precarietà e il senso di insicurezza hanno avuto come prevedibile esito la fine della fiducia nella sfera pubblica e del senso di appartenenza a una comunità di uguali. Di qui l’odio per i diversi, i migranti in primis, concepiti come nemici.
Abbiamo smesso di odiare il “padrone” e cominciato a odiare il “servo”?
E’ stata questa la strategia politica messa in atto dai governi e sperimentata con successo da Trump: mettere gli ultimi contro i penultimi, i poveri contro i poverissimi.
Una strategia che ribalta la direzione della lotta di classe: non più dal basso verso l’alto ma dal basso verso chi sta ancora più in basso.
Strategia politica a parte, questo linguaggio dell’odio sembra riflettere un odio vero.
Assolutamente sì. Come pure sentimenti di rancore e disperazione ma soprattutto sfiducia: sfiducia nelle istituzioni, nella politica, negli altri, nei concittadini. Tutto questo è il risultato di un processo di disgregazione sociale prodotto dalla disoccupazione, dalla svalutazione del lavoro, dal misconoscimento delle competenze, dai bassi salari e dalla creazione di fittizie disuguaglianze tra lavoratori.
Da qui il senso di lesione dell’amor proprio e l’aggressività generalizzata.
Dov’è finita la politica?
La politica ha abdicato al suo ruolo di tutela degli interessi generali e di garanzia dei diritti dei più deboli: un’abdicazione che si è espressa nell’aggressione allo stato sociale. A cominciare dai ticket sui farmaci e sulle prestazioni sanitarie, a mio parere incostituzionali perché la salute è un diritto fondamentale, base dell’uguaglianza e perciò universale e gratuito.
Parliamo della politica italiana?
La politica italiana è uguale a quella di tutto il mondo occidentale. E’ l’economia a governarla. I rapporti si sono ribaltati: non è più la politica a governare la politica, ma viceversa. Il tutto è legittimato dalla tesi, ripetuta da tutti i governanti e da quanti li sostengono che “non ci sono alternative” alle politiche attuali, cioè alla subalternità ai mercati. E la mancanza di alternative equivale alla fine della politica che è prima di tutto trasformazione, alternativa all’esistente.
Da noi non si salva nessuno?
Il punto è che non c’è più rappresentanza. Il paradosso è che l’unico terreno su cui c’è rappresentanza è proprio quello dell’odio. Maggioranza e opposizione fanno a gara ad assecondare, interpretare, rappresentare l’odio, l’intolleranza e la paura nei confronti dei diversi. Proprio per questo considero ridicola la critica al sistema proporzionale – perché incapace di dar vita a una maggioranza – quando di fatto tutti fanno le stesse politiche economiche e sociali.
Cos’è che manca davvero?
Un programma, un progetto. In realtà ci sarebbe un enorme spazio per una forza di sinistra che semplicemente si impegnasse nell’attuazione del progetto costituzionale, cioè nella difesa dei diritti sociali e delle garanzie del lavoro. Accade invece che il Partito democratico e la destra, sostanzialmente, non si differenziano nelle loro politiche economiche. E’ questo che produce la percezione di una politica parassitaria, ridotta a tecnocrazia, cioè all’attuazione tecnica dei dettami dei mercati. Come diceva Norberto Bobbio, la tecnocrazia è la negazione della politica e insieme della democrazia.
Rispetto all’immigrazione, come le pare il modello tedesco?
Lì, nonostante le critiche che possiamo rivolgere alla Germania, la politica è a un livello più alto. Una politica che non ha dimenticato il compito – anche giuridico – di attuare i precetti costituzionali, di difendere i diritti umani e la dignità delle persone. Qui da noi la vittoria del no al referendum era apparsa come una vittoria dei principi costituzionali, ma tutto questo è già scomparso dall’orizzonte della politica.
Insomma, insieme alla politica si è eclissato anche il diritto?
Semplicemente non parlano più lo stesso linguaggio, come è stato sino a qualche anno fa.
Il linguaggio della politica, oggi, è il linguaggio dell’economia che ignora termini come uguaglianza, dignità della persona, diritti umani e diritti sociali. E il linguaggio dell’economia è fatto solo di Pil, efficienza, crescita, riduzione delle tasse.
Parliamo allora delle differenze, quelle che maggiormente sembrano scatenare sentimenti di odio.
Le differenze hanno a che fare con l’identità della persona.
Parlo delle differenze di sesso, di religione, di opinioni politiche, di etnia, elencate dal primo comma dell’art. 3 della Costituzione. Sono le differenze di identità, che il principio di uguaglianza impone di tutelare stabilendo la “pari dignità” di tutte le differenze di identità che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e di ciascun individuo una persona uguale alle altre.
E’ singolare il fatto che alla crescente intolleranza nei confronti delle differenze si accompagni una disponibilità quasi inaudita ad accettare come naturale e inevitabile l’aumentare impetuoso delle diseguaglianze…
Le diseguaglianze non hanno nulla a che fare con le differenze di identità delle persone, ma solo con le loro condizioni di vita materiali, economiche e sociali, che il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione impone di rimuovere e di ridurre.
Aggiungo che sia le differenze che le diseguaglianze sono circostanze di fatto, mentre il principio di uguaglianza è una norma, diretta a tutelare le prime mediante i diritti di libertà, e a rimuovere le seconde per il tramite dei diritti sociali ( alla salute, all’istruzione, a un reddito di cittadinanza) Può il diritto facilitare l’integrazione rendendo i migranti più consapevoli dei propri diritti?
Sì ma questo vale per tutti, non solo per i migranti.
Naturalmente le diverse culture vanno rispettate, ma solo fino a che non ledono diritti fondamentali, in quanto tali indisponibili: una cosa è il velo, un’altra è l’infibulazione. Certo fa parte dell’integrazione la conoscenza e il rispetto dei nostri principi costituzionali, ma nell’una né l’altra possono essere imposti dal diritto, pena la loro illiberale negazione.
Mi sembra un po’ drastico.
Un principio generale di carattere liberale è che si regolano i comportamenti e non le idee. Le idee vanno promosse attraverso la cultura, ma non attraverso il diritto.
Non si possono discriminare tesi, pensieri, posizioni politiche, anche se sono in contrasto con i valori costituzionali. I fascisti non ci piace che esistano, ma non possiamo reprimere le loro idee, ma solo combatterle argomentando e praticando le idee dell’antifascismo.
Dal linguaggio dell’odio alla guerra santa.
Siamo in presenza di culture terroriste e assassine alle quali – a cominciare dalla vendita delle armi – continuiamo a fare regali, come il panico generato dall’eccessivo spazio dato dai media ai loro crimini.
C’è poi un altro regalo che facciamo ai terroristi: parlare di “stato” islamico e utilizzare contro di essi il linguaggio della guerra anziché quello del diritto penale. Giacché agli atti di guerra si risponde con la guerra, come è stato fatto l’ 11 settembre contro la strage delle Due Torri gettando così benzina sul fuoco e facendo divampare il terrorismo; mentre ai crimini si risponde, cosa certo più difficile, con le indagini dirette a identificare e catturare i criminali. Chiamare atto di guerra un crimine significa abbassare lo Stato al livello dei criminali o alzare i criminali al livello dello Stato. E’ così che la logica della guerra ha fatto il gioco del terrorismo che appunto come “guerra santa” vuol essere riconosciuto.
Eppure l’informazione ha le sue esigenze.
Certo occorre informare, ma se lo scopo del terrorismo è produrre terrore è precisamente la sua spettacolarizzazione che realizza tale scopo.
Che ne pensa dello ius soli?
E’ un provvedimento assolutamente scontato e la discussione intorno allo ius solista rivelando il carattere puramente razzista dell’opposizione. Qui non abbiamo a che fare con immigrati, ma con persone che sono nate in Italia, hanno fatto in Italia i loro percorsi scolastici e sono quindi connazionali a tutti gli effetti.
L’opposizione a questa elementare misura di civiltà si spiega soltanto con l’intolleranza per l’identità etnica di queste persone, in breve con il razzismo. Non solo. Negando la loro italianità, che essi rivendicano con orgoglio, trasformiamo il loro senso di appartenenza al nostro paese in rancore antiitaliano. Il rifiuto della cittadinanza rischia così di trasformarli in nemici. Abbiamo qui il banco di prova del sottofondo razzista – più o meno consapevole – delle politiche di esclusione. Dobbiamo inoltre dare atto al governo della difesa, almeno finora, di questa elementare scelta di civiltà.
Quanto siamo vicini alla realizzazione di una cittadinanza globale?
Siamo lontanissimi di fatto, anche se l’uguaglianza, sul piano giuridico, è solennemente proclamata dalla Dichiarazione universale del ‘ 48 e dalle tante convenzioni, patti e trattati sui diritti umani. In breve: non siamo mai stati tanto uguali in diritto e tanto disuguali di fatto. Basti pensare che le otto persone più ricche del mondo hanno la stessa ricchezza della metà più povera della popolazione, cioè di 3 miliardi e seicento milioni. Non c’è mai stata diseguaglianza di questo genere.
E’ possibile difendersi dal linguaggio d’odio senza restare impigliati nella rete della censura?
La libertà di espressione non consente né l’ingiuria né la diffamazione. Il vero problema è che l’anonimato della rete non consente di identificare, e dunque di querelare chi si rende colpevole di tali violazioni. E’ una materia che richiede ancora di essere studiata, soprattutto sul piano delle tecnologie informatiche idonee a impedire l’anonimato.

LA VERITA' SULLE COOP ROSSE


1. DALLA UNIPOL ALLE BANCHE, ECCO TUTTI I VALORI GONFIATI DELLE PARTECIPAZIONI FINANZIARIE DELLE COOP ROSSE (CHE RENDONO DIFFICILE GARANTIRE I SOLDI DEGLI ASSOCIATI)
2. BALLANO 9 MILIARDI DI PRESTITO SOCIALE E LA COLPA NON E’ DELLA CRISI DEI CONSUMI O DELLA CONCORRENZA MA DEL LEGAME PERVERSO TRA COOP E FINANZA CHE TRA IMPEGNI “DI SISTEMA” E AVVENTURE AZZARDATE IN MPS E CARIGE, RISCHIA DI DIVENTARE INSOPPORTABILE..





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17 SET 2017 10:10
1. DALLA UNIPOL ALLE BANCHE, ECCO TUTTI I VALORI GONFIATI DELLE PARTECIPAZIONI FINANZIARIE DELLE COOP ROSSE (CHE RENDONO DIFFICILE GARANTIRE I SOLDI DEGLI ASSOCIATI)
2. BALLANO 9 MILIARDI DI PRESTITO SOCIALE E LA COLPA NON E’ DELLA CRISI DEI CONSUMI O DELLA CONCORRENZA MA DEL LEGAME PERVERSO TRA COOP E FINANZA CHE TRA IMPEGNI “DI SISTEMA” E AVVENTURE AZZARDATE IN MPS E CARIGE, RISCHIA DI DIVENTARE INSOPPORTABILE...

1 - IL RISCHIO BOLLA DELLA FINANZA ROSSA INCOGNITE SU 9 MILIARDI DI PRESTITI DEI SOCI
Gianluca Paolucci per “la Stampa”

Sono almeno 9 miliardi di risparmi degli italiani e si appoggiano su gambe che mostrano qualche incrinatura. Si tratta del prestito sociale delle Coop e la colpa non è solo della crisi dei consumi e di una concorrenza sempre più aggressiva, ma anche di un legame tra Coop e finanza che tra impegni «di sistema» e avventure azzardate nell' azionariato di grandi banche (Mps e Carige principalmente) rischia di diventare insopportabile.
RISPARMI O FINANZIAMENTI
Tutto il problema finanziario sarebbe solo un affare interno alle Coop, se non fosse appunto per il prestito sociale. I soci prestano soldi alle Coop che pagano un interesse. A fissare le regole sono la legge e una serie di circolari Bankitalia, che però non ha poteri di vigilanza sulle coop. In passato ci sono stati almeno due casi (Coop Carnica e Trieste) che hanno lasciato un buco di alcune decine di milioni nelle tasche dei risparmiatori.

«Il problema è che i tassi sono inferiori ai rischi che si corrono - dice Alessandro Pedone di Aduc, una delle associazioni di consumatori che si è occupata dell' argomento -. Se queste coop emettessero obbligazioni sul mercato dovrebbero pagare tassi due o tre volte più alti».
Di parere opposto Stefano Bassi, presidente dell' Associazione nazionale delle Coop di consumo. «Il prestito non è raccolta pubblica di risparmio, come ha chiarito Bankitalia. È un istituto legittimo, remunerativo per i soci che soggiace ad una regolamentazione rigorosa», spiega. Le coop, aggiunge, «non si sottraggono a eventuali nuovi confronti normativi. È intenzione delle coop procedere ulteriormente con altri strumenti sul fronte della vigilanza, controlli e garanzie».

VALORI E PREZZI
Tra i vincoli posti da Bankitalia c'è quello che l' ammontare del prestito sociale non può superare tre volte il patrimonio netto. Ed è qui che tutto s' ingarbuglia. L' esempio più eclatante è quello della catena di controllo di Unipol. Risalendo lungo la catena di controllo del gruppo assicurativo i valori in bilancio lievitano fino a quasi cinque volte il valore in Borsa del titolo Unipol Gruppo Finanziario (Ugf), la capogruppo delle attività assicurative e bancarie. Nello stesso bilancio si trovano almeno tre prezzi diversi. È il caso di Holmo holding delle coop e azionista di Finsoe, che a sua volta controlla Ugf con il 31,4%.

COOP
A farlo presente, durante l'assemblea che ha approvato i conti di Holmo nel giugno scorso, è Giorgio Pellacini, commercialista emiliano nonché liquidatore di Coopsette, coop edile finita in dissesto. Fatti due conti, la partecipazione in Unipol ha almeno quattro valori diversi. Nel bilancio di Finsoe vale 9,95 euro per azione, nel bilancio di Holmo a 12,61 euro. Poi però Holmo vende il 2,28% di Finsoe ad un prezzo che è pari alla quotazione di Unipol ma quello che resta in bilancio vale sempre uguale.
Quindi di fatto rivaluta Finsoe e conseguentemente Unipol, che adesso viene valorizzata 13,22 euro per azione. Il tutto mentre il titolo Unipol viaggia in Borsa intorno a 3,8 euro, con una oscillazione tra 2,26 e 4,3 euro nell' ultimo anno. Com'è possibile, chiede Pellacini? Semplice: quei valori sono giustificati da una serie di perizie, risponde Holmo.
PERDITE LATENTI

Questi valori si riverberano sulla galassia delle coop che controllano Unipol, che si portano dietro pesanti perdite latenti. Alleanza 3.0 è la più grande coop di consumo italiana. Un vero colosso, gestisce i supermercati Coop tra Emilia, Lombardia e Veneto. È anche il primo socio di Finsoe e, se portasse il valore della partecipazione al prezzo di mercato, dovrebbe registrare in bilancio una perdita di 643 milioni di euro. Sommando a questa altre partite latenti (Spring 2, un veicolo liquidato nei mesi scorsi, la società immobiliare Igd e altri) si troverebbe il patrimonio netto abbattuto di circa 1 miliardo, da 2,4 a 1,5 miliardi.

A bilanciare in parte l'ammanco ci sono circa 93 milioni di plusvalenze latenti dalla partecipazione diretta in Unipol (9,6%). «Non esistono minusvalenze latenti - dice Adriano Turrini, presidente di Alleanza 3.0 -. Le azioni che abbiamo in carico dirette sono a 2,5 euro, ampiamente al di sotto al valore di Borsa. Per la restante parte abbiamo azioni Finsoe, che ha un valore di carico che deriva dalla storia e dei risultati del gruppo. Ci sono le perizie di soggetti terzi, che tengono conto dei rendimenti attesi e di un premio di maggioranza».

E veniamo alle perizie. Ne abbiamo visionata una, quella per giustificare il valore di carico di Unipol in Finsoe nel bilancio 2015. L' autore è Deloitte, che dopo una serie di avvertenze (il rapporto «non potrà essere distribuito a terzi» senza il consenso scritto di Deloitte, che «non risponderà di eventuali danni che i soggetti che avranno accesso al presente documento o altri soggetti potranno subire in caso di uso improprio» del rapporto stesso), esclude esplicitamente il valore di Borsa come base di calcolo, utilizza il valore degli utili attesi e si lancia in una serie di assunti. Ad esempio, considera gli utili al 2018 il risultato previsto al 2015 nel vecchio piano industriale di Unipol, considerando «la graduale ripresa prevista» nel 2016 e 2017.
Ma non basta. Allora applica un premio di controllo, calcolato sulla base delle transazioni di pacchetti quotati avvenute nel mercato bancario e assicurativo tra il 2001 e il 2006. Ovvero, quando il mercato tirava e le valutazioni del settore hanno raggiunto il loro picco storico. Sulla base di tutto questo si aggiunge un altro 25%/35% e si arriva a valori ancora più elevati. Tra 14,21 e 15,35 euro per azione 

FUGA DAL PRESTITO
Il caso più delicato è quello di Unicoop Tirreno, attiva nella Costa toscana e nel Lazio. Lo scorso anno è stata salvata da un intervento «di sistema» dalle altre grandi coop che hanno sottoscritto degli «strumenti finanziari partecipativi» per 175 milioni di euro, erogati però alla coop solo in parte. Unicoop Tirreno è nel mezzo di una complicata ristrutturazione, ha ridotto le rete di vendita, chiuso negozi e imposto sacrifici al personale.
Ma nonostante questo la sola valorizzazione a prezzi di mercato della partecipazione Finsoe porterebbe una nuova perdita di 113 milioni, facendo saltare il parametro Bankitalia per i 750 milioni di prestito sociale. Prima dell' allarme, il prestito sociale era arrivato a 1,4 miliardi. Una vera e propria corsa allo sportello, in qualche modo lanciata dalla stessa coop per ridurre i rischi.

2 - COSÌ L' AVVENTURA IN MONTEPASCHI HA SCHIACCIATO I SUPERMERCATI
Gianluca Paolucci per “la Stampa”
Unicoop Firenze si è chiamata fuori per tempo. Nel decennio passato era arrivata a essere uno dei soci principali di Monte dei Paschi con poco meno del 4%. Alla fine del 2013, dopo lo scoppio dello scandalo, ha venduto tutto con una perdita di circa 400 milioni. L'avventura bancaria è costata un sacco di soldi e anche il posto e l' oblio a Turiddo Campaini, che Unicoop Firenze l'ha guidata per quasi quarant'anni ed era arrivato anche, negli anni di Giuseppe Mussari, alla vicepresidenza della banca senese. Ma almeno la coop fiorentina, a differenza di altre «sorelle», ha evitato altre perdite.

Il fatto è che la catena di controllo di Unipol non è l'unico guaio finanziario delle coop, che pagano anche avventure bancarie rivelatesi dissennate. Coop Liguria, oltre ad una perdita latente di 122,7 milioni sulla quota Finsoe/Unipol, si porta dietro una quota dell' 1,4% in Carige. In bilancio, è iscritta come quota del patrimonio netto. In pratica, valorizza Carige oltre 1,4 miliardi mentre in Borsa capitalizza oggi meno di 200 milioni.
Negli esercizi precedenti ha già effettuato massicce svalutazioni, ma restano altri 33 milioni di perdita che nei bilanci della Coop - che comunque ha un patrimonio capiente per sostenere il prestito sociale - figurano solo nelle note. «Abbiamo sia ridotto il prestito sia introdotto i prestiti vincolati - dice Francesco Berardini, presidente di Coop Liguria. Il rapporto tra patrimonio e prestito adesso è 0,95. Se portassimo a zero la partecipazione in Carige il rapporto sarebbe di 1 a 1, quindi di ampia sicurezza».

Adesso c'è un nuovo aumento di Carige in arrivo. «Valuteremo se partecipare - dice Berardini - dopo l' assemblea della banca e una volta che avremo tutte le informazioni sul nuovo piano industriale».
Va peggio a Coop Centro Italia (Umbria, bassa Toscana e Abruzzo). Ha un consistente pacchetto di azioni Mps, superiore all'1%. Ha partecipato agli aumenti di capitale dell' era Viola-Profumo che nonostante le svalutazioni già effettuate negli anni precedenti - oltre 200 milioni in totale: 75 solo nell'esercizio 2015, altri 140 tra il 2012 e il 2014 - nei bilanci di fine 2016 è ancora iscritta per un controvalore di 86 milioni di euro.
Ma a fine dicembre era già fallito l'aumento di capitale "privato" e partito il salvataggio di Stato. Il titolo era sospeso a tempo indeterminato e quelle azioni valevano di fatto già zero, in virtù del burden sharing imposto dalla Ue. Con un patrimonio netto di 173 milioni e un prestito sociale di 504 milioni, è la Coop con la situazione sulla carta più pesante. Nel suo ultimo bilancio c' è anche una quota di Holmo (che però non figura nei documenti di Holmo) che incorpora altri 14,3 milioni di perdita. Ed socia storica della Popolare di Spoleto, altra avventura finita male per i conti della Coop.

L'inevitabile svalutazione della quota Mps si porterà l'abbattimento del patrimonio. Il prestito sociale è già in discesa, e alla fine dello scorso anno era pari a 504 milioni di euro. Giorgio Raggi, presidente di Cci, spiega che «siamo parte civile nel processo penale su Monte dei Paschi di Siena, anche per la parte che riguarda la gestione di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola.
Inoltre abbiamo avviato la causa civile e richiesto un risarcimento di 260 milioni per gli aumenti di capitale ai quali abbiamo partecipato e a ottobre è prevista un' udienza a Firenze». Resta il problema del patrimonio. «Provvederemo ad una svalutazione e ad un rafforzamento patrimoniale conseguente- ribatte Raggi -, con gli strumenti che la legge ci consente per restare nel parametro del rapporto di 1 a 3 tra patrimonio e prestito sociale fissato da Bankitalia». Non esclusa una nuova operazione di sistema, a carico delle altre coop più solide. Di fatto, un salvataggio.

giovedì 7 settembre 2017

Perché i missili nucleari di Kim Jong-un non ci devono fare paura (per ora)


Che cosa dicono davvero i test degli ultimi giorni: il regime ha fatto passi da gigante in poco tempo, ma molte cose restano avvolte nel mistero
di Giovanni Zagni su "L'INKIESTA"

7 Settembre 2017 - 11:00

La minaccia nucleare della Corea del Nord è tornata di nuovo nei titoli di testa dei telegiornali, con il test missilistico del 29 agosto e quello nucleare del 3 settembre. Ma, come spesso accade quando si parla del Regno Eremita, molte cose restano circondate nel mistero.

Ad esempio: sappiamo che negli ultimi mesi la Corea del Nord ha aumentato di parecchio, e molto in fretta, le sue abilità nel campo dei missili. Non è del tutto chiaro, però, come abbia fatto. Oppure: sappiamo che, pochi giorni fa, la Corea del Nord ha compiuto un altro test nucleare (il sesto della sua storia). Ma non siamo certi del tipo di bomba che sia stata detonata.

E quindi: quanto è reale la minaccia nucleare della Corea del Nord? Lasciamo da parte le considerazioni diplomatiche e geopolitiche, e il fatto che la strategia del Paese asiatico segua una certa logica e sia tutt’altro che il frutto delle azioni di un pazzo - come a volte viene raffigurata la dittatura di Kim Jong-un. Dal punto di vista strettamente militare, come stanno le cose? Che cosa è in grado e non è in grado di fare la Corea del Nord, dopo il grande dispiego di potenza bellica degli ultimi giorni?

La Corea del Nord ha aumentato di parecchio, e molto in fretta, le sue abilità nel campo dei missili. Non è del tutto chiaro, però, come abbia fatto
Il primo punto fermo è che, nell’arco degli ultimi mesi, la Corea del Nord ha aumentato in modo molto rapido la sua capacità in campo missilistico: ha lanciato 21 missili in quattordici test a partire da febbraio.

Dopo parecchi fallimenti, negli ultimi due anni l’arsenale di Pyongyang si è arricchito di due nuovi modelli, tra cui soprattutto il missile balistico intercontinentale, o ICBM, Hwasong-14 (Hwasong è il nome coreano del pianeta Marte, letteralmente “stella di fuoco”). Gli ICBM sono in grado di spingersi ad altissime quote, perfino a livello orbitale, e di percorrere distanze superiori ai 5.500 chilometri.

La Corea del Nord ha testato con successo un ICBM appena due mesi fa, il 4 luglio, annunciando - con l’usuale esagerazione - che può arrivare «ovunque nel mondo» e scegliendo con cura una data per avere il massimo impatto, il Giorno dell’Indipendenza americano. Sicuramente Kim Jong-un va pazzo per i missili: nei suoi sei anni di regime ne ha lanciati molti di più di suo padre e suo nonno messi insieme.

Con i recenti test degli ICBM, gli esperti dicono che nessun Paese ha mai fatto progressi così grandi in tempi così stretti, dato che fino a poco tempo fa la Corea del Nord non era in possesso di missili a lungo raggio. È molto difficile che il Paese sia riuscito a sviluppare da solo le tecnologie necessarie.

Come è stato possibile, allora? Secondo uno studio recente, molti indizi puntano all’Ucraina. Si sa che i motori che spingono i missili nordcoreani sono una versione modificata di alcuni potenti modelli sovietici, in particolare uno noto con la sigla RD-250.

Non molte fabbriche nell’ex URSS li producevano. Una di queste, la Yuzhmash di Dnipro, ha costruito per molto tempo alcuni dei missili più grandi e potenti dell’arsenale sovietico e ha continuato a farlo per la Russia. Ma negli ultimi tempi, dopo la fine della presidenza del filo-russo Viktor Yanukovich, ha cominciato a passarsela male: i russi hanno cancellato gli ordini e il complesso industriale rimane sottoutilizzato e colpito da problemi economici.

Non è chiaro come i nordcoreani abbiano avuto la tecnologia che cercavano, con quali intermediari e se con la collaborazione di qualcuno in Ucraina. Si sa però che già nel 2011 avevano già provato ad ottenere nel Paese ex sovietico progetti e informazioni tecniche. Due agenti nordcoreani vennero arrestati in Ucraina e condannati nel 2012 a otto anni di carcere. Nel caos ucraino degli ultimi anni, pare che siano riusciti ad avere maggior fortuna.

Perché è un problema?

Il fatto che la Corea del Nord sia riuscita ad entrare in possesso di ICBM non è molto rassicurante, dal punto di vista puramente militare. Gli ICBM possono essere lanciati in meno di un’ora con dei grossi veicoli mobili noti come TEL (Transporter Erector Launcher), che fino all’uso possono restare nascosti nelle basi scavate sotto le montagne.

Fermare un missile intercontinentale, infatti, è paragonato dagli esperti a colpire un proiettile con un altro proiettile
Quell’ora di tempo è anche il momento migliore per provare a fermare un eventuale lancio. Dopo, infatti, intercettare un missile intercontinentale è davvero molto difficile. Fermare un ICBM è paragonato spesso a colpire un proiettile con un altro proiettile.

Una volta sulla rampa di lancio, infatti, i motori accelerano il missile fino a 6/7 km al secondo; il missile sale in una traiettoria molto ripida fino a centinaia di chilometri di altezza ed entra in una traiettoria parabolica verso l’obiettivo. La testata, che contiene la bomba nucleare, si stacca quindi dal resto e comincia la sua discesa. Tutto avviene in poche decine di minuti: in questo stretto lasso di tempo bisogna accorgersi che il missile è stato lanciato, calcolare la sua traiettoria e rispondere in modo adeguato.

Esistono, naturalmente, diversi sistemi che provano a fare tutto questo. Il sistema THAAD, ad esempio, prodotto dagli Stati Uniti a partire dal 2008 e impiegato in Corea del Sud, punta a intercettare i missili nella loro fase di rientro, cioè mentre stanno scendendo sul bersaglio: ma è pensato per missili con gittata inferiore rispetto agli ICBM. Lo stesso vale per il sistema Aegis montato sulle navi giapponesi e statunitensi, che può in teoria colpire oggetti nella loro fase orbitale ed è stato in grado di abbattere un satellite malfunzionante nel 2008 - ma non è pensato in modo specifico per i missili intercontinentali.

In concreto, a proteggere gli Stati Uniti dagli ICBM ci sono 30 missili anti-balistici del sistema GMD in due basi in Alaska e California, sostanzialmente missili pensati per andare a colpire altri missili. Il problema principale, però, è che il loro livello di successo nei test è stato abbastanza scarso.

Negli ultimi anni si è parlato molto anche di altri metodi più futuristici, come l’utilizzo del laser, ma l’impressione è che la migliore difesa venga dalla prevenzione e dall’eventuale rappresaglia. Vale la pena di chiedersi anche: la Corea del Nord ha qualcosa da metterci, su quei missili?

La Corea ha la bomba H?

Circa un minuto dopo mezzogiorno del 3 settembre 2017, ora di Pyongyang, una stazione sismica a Mudanjiang, nella Cina nordorientale, ha rilevato onde compatibili con un evento equivalente a un terremoto di magnitudo 6.3 (la magnitudo è stata rivista alcune volte dopo le prime stime iniziali).

Nell’arco di una ventina di minuti, le onde sismiche erano state rilevate dalle stazioni di mezzo mondo, compresa l’Italia. Non si trattava di movimenti tellurici, però, ma di un’esplosione avvenuta nei pressi del sito di Punggye-ri, in un’area montagnosa della Corea del Nord: il sito utilizzato per tutti i sei test nucleari nordcoreani - e attualmente l’unico sito di questo genere attivo nel mondo.

Di lì a poco, i media del regime hanno annunciato trionfalmente la detonazione di una bomba all’idrogeno dalla potenza «senza precedenti».


La Corea del Nord non è nuova a proclami del genere: la prima bomba H, stando al regime, sarebbe stata testata nel gennaio 2016. Questa volta, però, un indizio fa pensare che la bomba possa essere davvero di un nuovo tipo.

Le informazioni raccolte dai sismografi e con gli altri sistemi di rilevamento avevano finora limitato la potenza delle bombe nordcoreane a una ventina di kilotoni (un kilotone equivale al potere esplosivo di circa 100 tonnellate di TNT), pressappoco come quelle che furono sganciate nel 1945 su Hiroshima e Nagasaki.

Questa volta, invece, l’energia rilasciata sarebbe stata molto più grande: secondo alcune stime, circa dieci volte di più. L’ente norvegese Norsar, che si occupa anche del rilevamento dei test nucleari con gli strumenti sismologici, ha rilasciato un grafico molto chiaro che mette a confronto le onde causate dai sei test nordcoreani. L’ultimo è chiaramente molto più potente.

Onde Sismiche Norsar
Secondo gli esperti, una bomba così potrebbe avere la potenza di circa 100 kt. Dato che le bombe termonucleari (o all’idrogeno, o bombe H) rilasciano potenzialmente molta più energia delle bombe atomiche a fissione, la possibilità che si tratti davvero di una bomba H è molto più alta.

Ma non tutti sono d’accordo su questa interpretazione dei dati. Intervistato da Radio3 Scienza, il professor Wolfango Plastino dell’Università di Roma Tre, ed esperto nei sistemi di rilevamento delle esplosioni nucleari, ha detto che motivi tecnici fanno ritenere un’esplosione di 100 kt «poco probabile».

Le onde registrate dai sismografi non permettono di capire il tipo di bomba. Per arrivare a più certezza, bisognerà aspettare che le stazioni di rilevamento finiscano le analisi alla ricerca di radionuclidi dispersi nell’atmosfera. Alcune sostanze radioattive particolari, come lo xenon, sono la “firma” dell’esplosione di una bomba H, e se qualche stazione di rilevamento atmosferico dell’organismo di controllo internazionale CTBTO le rileverà ci saranno molti meno dubbi: dopo il test di gennaio 2016, ad esempio, non se ne trovò traccia. Nel frattempo, alcune analisi satellitari hanno mostrato parecchie frane nel terreno intorno al luogo dell’ultimo test.

L’energia rilasciata nell’ultimo test è stata circa dieci volte maggiore rispetto ai precedenti: il principale indizio che fa parlare di bomba H
Ad ogni modo, che la Corea del Nord sia in possesso di testate nucleari non è una novità: l’interesse dei Kim a dotarsi della bomba è molto antico - risale almeno agli anni Sessanta - e già durante la presidenza di George Bush padre diventò chiaro che il paese stava lavorando concretamente per ottenerne una.

Il mondo se ne accorse definitivamente il 9 ottobre del 2006, quando la Corea del Nord effettuò il suo primo test nucleare sotterraneo: ad oggi, è l’ultimo paese a essere entrato nel gruppo dei nove paesi in possesso di testate.

Qualche buona notizia, per modo di dire

La Corea del Nord ha quindi i missili e un arsenale nucleare. Non solo: ai primi di agosto è emerso un rapporto statunitense secondo il quale i nordcoreani sarebbero anche riusciti a miniaturizzare una testata abbastanza da poterla mettere su un missile balistico intercontinentale.

Ma non è ancora il caso di farsi prendere dal panico. Per prima cosa, nonostante i primi test, non è certo che la Corea del Nord sia davvero in grado di colpire gli Stati Uniti, perché dopotutto le prove di lancio servono a migliorare una tecnologia non ancora perfetta.

Non è poi detto che la Corea del Nord possieda abbastanza testate e abbastanza piccole per lanciare un attacco con qualche possibilità di successo, visto che bisogna attendersi un certo numero di lanci fallimentari e di testate che mancano il bersaglio. Le stime sull’entità dell’arsenale in possesso del regime variano molto, ma vanno di solito dalle 30 alle 60.

Gli esperti pensano comunque che il regime di Kim Jong-un non sia troppo lontano dai traguardi tecnici necessari a lanciare un attacco contro gli Stati Uniti con buone probabilità di riuscita. Quando se ne avrà la certezza - che per ora non è ancora definitiva - la comunità internazionale e le potenze regionali dovranno pensare a come gestire una situazione pericolosa che si è costruita con lentezza, test dopo test, annuncio dopo annuncio. La vicenda nordcoreana mette il mondo davanti alla più tragica conseguenza delle armi nucleari: la possibilità che la tecnologia più distruttiva pensata dall’uomo finisca in mano proprio al Paese più misterioso e isolato di tutti.