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giovedì 31 agosto 2017

Battista: «L’odio c’è sempre stato. Senza più partiti (e giornali) ora nessuno lo frena»


VERSO IL G7 DELL’AVVOCATURA

Giulia Merlo su "IL DUBBIO" (www.ildubbio.net)
30 Aug 2017 11:33 CEST


«In quest’odio di oggi non c’è nulla di nuovo». Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera e saggista, analizza le radici di un odio che definisce «ideologico» anche in un tempo in cui le ideologie sono scomparse, un odio «freddo e razionale» che ha trasformato i cittadini in haters senza punti di riferimento, soli davanti ai loro computer.

Negli ultimi anni, soprattutto grazie ai Social Network, l’odio sembra essere diventato la cifra linguistica della società.

Dissento profondamente: non c’è alcuna novità. Si continua a ripetere che questo è avvenuto negli ultimi anni, ma è falso: l’epoca delle contrapposizioni ideologiche è stato un periodo di odio feroce. Gli ultimi anni sono solo una fase, ma l’odio politico è una caratteristica tipica delle società di massa.

L’odio affonda le radici nell’ideologia, quindi?

È il cemento emotivo che tiene insieme le grandi comunità ideologiche. Si tratta di un odio che è riferito a un soggetto terzo, che non è un avversario ma un vero e proprio nemico da demo- lire e abbattere, in effige o anche fisicamente, nel caso di forme di potere totalitario. Un fenomeno, questo, che non nasce con la politica ma ancora prima, con la religione. Le ideologie, infatti, altro non sono che la sostituzione della credenza religiosa con la politica.

Anche nelle religioni c’è odio?

Per citare Carl Schmitt, «la politica è la secolarizzazione delle categorie teologiche». Durante le crociate si uccidevano gli infedeli in nome di Dio, nel Novecento si è sostituito al linguaggio religioso quello dell’ideologia politica. Negli anni Settanta si uccideva nel nome dell’odio politico e chi, come me, ha avuto la sfortuna anagrafica di aver vissuto quel periodo lo ricorda in modo indelebile. Allora si sparava, alimentati da un odio freddo: i terroristi non erano malati di una febbre d’odio improvviso ma si appostavano per giornome ni e giorni, si organizzavano, studiavano l’azione sin nei minimi dettagli. È difficile spiegare quale spinta mentale servisse per fare una cosa del genere.

Come definirebbe l’ideologia?

L’ideologia è una forma di giustificazione razionale dell’odio, che non è mai personale ma colpisce intere categorie di soggetti. Se in tempo di guerra il nemico non si odia, ma gli si spara perchè vale la legge del mors tua vita mea, in tempo di pace l’ideologia è il carburante ideale necessario ad accendere l’odio per colpire il nemico. Il meccanismo è: tu che ti opponi a me sei il nemico da distruggere, non un avversario che la pensa diversamente da me con cui vivo un rapporto di conflitto politico anche molto duro, ma che contiene uno scambio positivo. Nell’ideologia non esiste il riconoscimento di una ragione altrui.

Oggi però non si spara più in dell’ideologia e le parole non sono proiettili. Come fa a dire che non c’è alcuna novità rispetto al passato?

E’ finita l’era ideologica ma gli stampi mentali sono rimasti: nulla si azzera, prende solo nuove forme. Il punto è un altro: oggi è in atto una forma di imbarbarimento della società, che affonda in ciò che dicevo prima: le radici dell’odio si trovano nell’annientamento morale dell’individuo. Succede così sui Social, dove si sostituisce l’essere umano con un nemico contro cui sparare. E’ la traduzione in tempo di pace di un comportamento bellico: del resto anche le parole possono annientare, seppur non fisicamente.

E come, allora?

Penso, per esempio, alla morte giudiziaria. Distruggere un nemico politico attraverso gli strumenti della magistratura cos’altro è, se non una forma di annientamento? Esattamente questo è successo in Italia, e il passaggio dalla Prima alla Seconda repubblica è avvenuto attraverso una disintegrazione politico- simbolica del nemico politico nell’aula giudiziaria. E il popolo dov’era? Tirava le monetine e i cappi. Perchè le monetine tirate a Craxi erano la manifestazione dell’odio verso una persona che rappresenta qualcosa, in quel caso il nemico di classe.

E dunque Craxi è stato annientato, come diceva lei prima, dalle parole.

Craxi è stato il sacrificio umano su cui è nata la Seconda repubblica. A produrla è stata lo stesso odio che descrivevo prima: non un’esplosione barbarica ma un odio freddo e razionale, meticoloso nel raggiungere il suo scopo e implacabile contro un nemico permanente che deve essere cancellato.

Oggi, però, il tutto sembra ancora più amplificato, e l’odio online e sui Social Network è un fenomeno che esaspera ogni tipo di contrapposizione.

Anche in questo non vedo novità. Nel 1992 non c’era Facebook, ma al suo posto c’era il cosiddetto popolo dei fax: invece che organizzare campagne social, la gente inondava i giornali di fax indignati, in cui dava del cialtrone o del buffone a quel giornalista o a quel politico. Come vede, cambiano le forme espressive, ma non la sostanza.

Parliamo allora del giornalismo. Anche nel linguaggio dei giornali l’odio è diventato cifra stilistica.

Nel giornalismo militante l’odio è la caricaturizzazione, la riduzione del nemico a male assoluto, la legittimazione al silenziamento del nemico, che non deve parlare e deve essere messo fuori legge, in un recinto di appestati. In questo modo di ragionare i giornali rincorrono i Social e viceversa, in una spirale infinita verso il basso. Certo, le novità tecnologiche hanno amplificato tutto, dando al fenomeno una dimensione più estesa e drammatica.

E che cosa può frenare quest’odio?

Prima parlavo dell’annientamento morale dell’individuo. Ecco, un tempo erano i partiti e i sindacati a svolgere la funzione di ammortizzatori morali: strutture in cui gli individui potevano sentirsi meno soli e vulnerabili. I corpi intermedi creavano comunità, sostenevano i singoli e in un certo senso ne capivano e governavano le pulsioni, depotenziando l’odio. Tutto ciò oggi è sparito e, senza questa intermediazione, le persone si trovano sole davanti al computer: così diventano haters.

Il giornalismo può avere un ruolo nel governare il fenomeno?

Il giornalismo di oggi non ha alcun seguito e non influenza più l’opinione pubblica. Realisticamente, i giornali hanno perso la funzione di orientare la società e lo dimostra il fatto che le nuove generazioni non li leggono più.

Eppure viviamo in un mondo che è sempre più inondato d’informazione.

Certo, ma l’informazione non è più sinonimo di giornalismo, quell’epoca è finita da un pezzo. I giovani di oggi si informano con altri mezzi e uno di questi sono i Social. Mia figlia qualche giorno fa mi ha parlato di un libro di Grossman e io, stupito, le ho chiesto dove ne avesse sentito parlare. Lei mi ha risposto che ha letto un post su Facebook che ne parlava. Ecco, le nuove generazioni acquistano libri, vedono film, assistono a concerti e formano i propri gusti attraverso strumenti che non sono più le recensioni sul Corriere e Repubblica. Nello stesso modo, ormai, si veicola anche la politica, ammesso che interessi ancora a qualcuno.

E i giornali come possono reagire a questa concorrenza?

Guardi, la crisi mortale del giornalismo sta sullo stesso piano concettuale della crisi dei partiti e dei sindacati: sono stati gli strumenti che hanno dato orientamento al mondo in cui è cresciuta la mia generazione, ma non quella di oggi. Ora i giornali annaspano, inseguono, cercano disperatamente di stare nell’onda ma vengono sempre più espulsi da un presente che va in un’altra direzione. Il giornalismo ha perso una partita storica e non solo in Italia, ma a livello globale.

La politica, invece, sta trovando nuove forme di espressione?

Il crollo di interesse per il giornalismo è anche il crollo di interesse per la politica. Pensi ai talk show politici: solo qualche anno fa occupavano i palinsesti e facevano il 12% di share, oggi nella migliore delle ipotesi arrivano al 5%. Solo ai giornalisti interessano giornali e talk show, i giovani la sera guardano i serial americani e a mala pena sanno cosa sia la Rai.

Ma senza politica, partiti e giornalismo, che cosa si può fare per arginare l’odio che lei ha descritto prima?

La mia generazione ha creduto alla grande illusione che, caduto il Muro di Berlino, si potesse voltare pagina. In realtà questo non è successo e io oggi non vedo elementi di stabilizzazione, né nelle teste dei singoli né nei governi. Quel che si può fare è smetterla con questa retorica nuovista, come se quelli di oggi fossero fenomeni mai esistiti prima: hanno solo altre forme. Non esistono ricette miracolose per uscire da questo vortice, ma solo un’etica della responsabilità.

Tutto ricade sulle spalle dei singoli?

Credo che ognuno di noi debba cercare di agire al meglio delle sue capacità, io stesso credo profondamente in ciò che ho detto e cerco di fare il mio lavoro nel modo migliore. Avrà un’influenza? Questo è impossibile dirlo, ma bisogna agire come se l’avesse. Mi rendo conto che può suonare come una soluzione minimalista, ma non esistono formule magiche. Del resto, tutto ciò che conosciamo oggi era imprevisto solo 15 anni fa: chi avrebbe mai immaginato la portata di fenomeni come Twitter e Facebook e la crisi completa della politica e dei corpi intermedi?

Sembra quasi che le manchino, questi partiti.

Per me i partiti sono sempre stati degli elefanti burocratici, centri orrendi di corruzione che era meglio morissero. Ora che sono finiti, invece, mi rendo conto che svolgevano una funzione sociale importante, perchè sono stati anche centri di educazione democratica, che davano un senso alle città e ai quartieri. Dove prima c’erano le sedi del Pci e della Dc oggi non c’è più nulla e, con la loro scomparsa, la gente è rimasta sola, senza più luoghi di confronto e soggetti con cui confrontarsi. Ed è nella solitudine che l’odio assume dimensioni apocalittiche.

mercoledì 30 agosto 2017

La grandiosità e il limite di Beccaria: l’illuminismo

29 Aug 2017 12:15 CEST

Il commento ai capitoli 42, 43, 44, 45, 46 e 47

Siamo così giunti, dopo questa veloce cavalcata, alla conclusione della fatica di Beccaria e questi ne profitta per ribadire alcuni concetti già espressi, ma che egli ritiene particolarmente rilevanti e significativi del suo pensiero.  Insiste così sulla necessità della diffusione del sapere e, sulle tracce di Rousseau, della educazione dei cittadini, certo che quando entrambi saranno consolidati, i delitti saranno quasi depennati dai comportamenti sociali. Ora, che il sapere e la educazione civica debbano essere diffusi e a tutti garantiti è cosa di cui nessuno dubita, ma, come già in precedenza accennato, possiamo esser certi che ciò non basterà affatto a debellare la commissione di delitti.
Ribadisco qui che dunque Beccaria, oltre i suoi enormi meriti, incappa nel limite proprio della formazione illuministica del suo tempo, consistente in una sorta di endemico socratismo giuridicosociale, tanto più fragile quanto più autentico. Come è noto, per Socrate, la conoscenza della virtù è la strada maestra per seguirla, tutto risolvendosi appunto nella necessità di vincere l’ignoranza che affligge l’animo umano.  Non è così, come l’esperienza insegna.  In moltissimi casi, non basta conoscere la virtù – morale o sociale – per seguirne le tracce senza esitazioni.
Occorre invece, dopo averla conosciuta, volerla seguire in modo deliberato e consapevole. Il razionalismo socratico – che poi è quello medesimo di Beccaria – incorre infatti proprio in questo limite insuperabile: mettere in primo piano la ragione, ma senza far i conti, come invece sembra necessario, con la volontà degli uomini.
Se fosse come sostiene Beccaria, basterebbe un’opera massiccia di scolarizzazione sociale per debellare i delitti. Ebbene, in Italia, nel dopoguerra, la percentuale di analfabeti, si è pressochè azzerata, ma non sembra che i delitti siano diminuiti in modo considerevole; anzi, negli ultimi decenni, essi sono lievitati di numero e di gravità in modo esponenziale.  In altri termini, non basta conoscere la virtù per fare il bene ed evitare il male: bisogna esercitarsi con la volontà, usando rettamente di questa nei casi specifici e concreti.
Va da se che in un modello sociale come quello auspicato da Beccaria – dove al massimo sapere corrisponde la quasi scomparsa dei delitti – il potere che normalmente viene riconosciuto quale prerogativa della sovranità, quello di concedere la grazia, va debitamente escluso.  Infatti, egli definisce “felice” la nazione ove la clemenza e il perdono del sovrano divenissero non solo meno necessari, ma addirittura funesti.  Ora, in un modello ideale ciò può anche essere, a patto però che si abbia consapevolezza che appunto si tratti di un modello ideale e non reale.  Molto meno convincente è tale conclusione, se ci si pone davanti alla cruda realtà dei rapporti sociali e dei comportamenti umani.
Allora, si vedrà che del potere di concedere la grazia da parte del sovrano nessun ordinamento reale potrà mai fare a meno, per il semplice motivo che mai è possibile rinunciare alla correzione del diritto e della sentenza, mai alla possibilità di rovesciare un verdetto, mai a quella di rimediare ad un errore, mai insomma a quello che Radbruch definiva come “un raggio di luce che penetra nel freddo ed oscuro mondo del diritto”.
Preziosa è infine la sintesi finale con cui, prendendo congedo dai lettori, Beccaria ripropone le caratteristiche che la pena deve possedere per non essere tirannica. La pena deve dunque essere pubblica, perché tutti le possano conoscere e valutare; pronta, perchè l’eccessivo trascorrere del tempo dopo la commissione del delitto non ne vanifichi il significato e la portata; necessaria, perché essa non sembri frutto di arbitrio e di dispotismo; minima, perché tutti vedano che di essa non si abusa, ma si usa con la necessaria moderazione; proporzionata, perché, se non lo fosse, la pena medesima commetterebbe grave ingiustizia; dettata dalle leggi, perché non sembri stabilita dai singoli magistrati o dal potere sovrano, ma prevista per tutti in modo imparziale e indifferente.  Tutte dimensioni della pena che per noi oggi suonano come normali ed ovvie, al punto che se ne mancasse soltanto una, grideremmo al misfatto e alla tirannia del potere.  Non così, al tempo di Beccaria; e di questo, nell’accostarsi a queste pagine, dobbiamo sempre mantenere adeguata consapevolezza.
Per questa ragione, tutti i popoli europei conserviamo verso queste pagine un enorme debito di riconoscenza, nel duplice senso del ringraziamento e della continua meditazione.  Se Beccaria non avesse illuminato la storia con queste sue coraggiose riflessioni, probabilmente oggi non potremmo esercitare la nostra libertà di cittadini come siamo soliti fare.  Tuttavia, molto del suo insegnamento va sempre riproposto, in quanto ancora non sufficientemente assimilato dal nostro sistema giuridico, come abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo commento.  Molto, ancora e nonostante tutto, va ancora imparato e messo in pratica.  Dopo quasi tre secoli, non credo che Beccaria ne sarebbe contento.

La pena deve essere pubblica, pronta, necessaria, minima, proporzionata e dettata dalle leggi

29 Aug 2017 12:14 CEST

Capitoli 42, 43, 44, 45, 46 e 47

CAPITOLO XLII DELLE SCIENZE

Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto piú facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perché non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano divenire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa.
Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità, e quando lo furono era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell’uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti piú rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perché la loro indolenza e poca sagacità gli preservava dall’errore. Ma i bisogni si moltiplicavano sempre piú col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque necessarie impressioni piú forti e piú durevoli che gli distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d’insociabilità, che si rendeva sempre piú funesto. Fecero dunque un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità ( dico gran bene politico) e che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quegli che osarono sorprendergli e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati, perché non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono da’ popoli selvaggi, questa fu l’epoca della formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario e forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piú straordinari e le grazie piú segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come è proprietà dell’errore di sottodividersi all’infinito, cosí le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l’antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio le opinioni, sono dannose.
La seconda è nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla verità, dall’oscurità non conosciuta alla luce. L’urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le verità utili ai molti deboli, l’avvicinamento ed il fermento delle passioni, che si destano in quell’occasione, fanno infiniti mali alla misera umanità. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto all’epoche principali, vi troverà piú volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando, calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che l’opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni de’ monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti?
Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero, l’uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtú della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione, ma felicità momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino la probabilità sempre grande di una cattiva elezione.
CAPITOLO XLIII MAGISTRATI
Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d’interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse che alla corruzione. Quanto maggiore è il numero che lo compone tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo dell’intrapresa. Se il sovrano coll’apparecchio e colla pompa, coll’austerità degli editti, col non permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere piú i magistrati che le leggi, essi profitteranno piú di questo timore di quello che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza.
CAPITOLO XLIV RICOMPENSE
Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtú. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dal- le accademie ai discuopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché non i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno altresí le azioni virtuose? La moneta dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore.
CAPITOLO XLV EDUCAZIONE
Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre fino ai piú remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sí morali che fisici che il caso o l’industria presenta ai novelli animi dei giovani, nello spingere alla virtú per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità e dell’inconveniente, e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza.
CAPITOLO XLVI DELLE GRAZIE
Amisura che le pene divengono piú dolci, la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtú che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutt’i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi e dell’atrocità delle condanne. Quest’è la piú bella prerogativa del trono, questo è il piú desiderabile attributo della sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed imponente corredo d’infiniti commentatori, il grave apparato dell’eterne formalità e l’adesione dei piú insinuanti e meno temuti semidot- ti. Ma si consideri che la clemenza è la virtú del legislatore e non dell’esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè la pubblica sicurezza ad un particolare, e che con un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d’impunità. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene de’ particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace quella piccola porzione di felicità che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da quello che è, fa loro godere in quest’angolo dell’universo.
CAPITOLO XLVII CONCLUSIONE
Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione. Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.

Bugie su sbarchi e accoglienza: ecco le 10 fake news di Saviano

I 35 euro giornalieri, i soggiorni in hotel a 4 stelle, i legami coop-mafia. Ecco la realtà negata dallo scrittore buonista



«I MIGRANTI NON RICEVONO 35 EURO AL GIORNO DALLO STATO»

Ogni migrante viene mantenuto dallo Stato che garantisce alloggio e vitto (colazione, pranzo e cena, con menù che devono osservare tassativamente le «regole alimentari dettate dalle diverse scelte religiose») in una delle strutture predisposte, più il cosiddetto pocket money.
Il costo giornaliero del mantenimento sono appunto i famosi 35 euro, una cifra non fissata per legge ma stabilita dai singoli bandi. Ai 35 euro si aggiungono 2,5 euro giornalieri che invece vanno direttamente ad ogni clandestino, più una scheda telefonica di 15 euro all'arrivo. Vitto, alloggio, un aiuto per le spese, ricarica del cellulare. Un trattamento che a molti italiani non dispiacerebbe.

«LE COOP NON HANNO LEGAMI CON LA MAFIA»

È lo stesso Saviano a riconoscere che è vero: «Le mafie si infiltrano anche nella gestione degli immigrati». Un business miliardario che il crimine non poteva lasciarsi sfuggire, visto poi che i barconi approdano in zone da loro controllate. Solo le più recenti operazioni: ndrangheta e business dei migranti, 68 arresti a Isola Capo Rizzuto; a Rimini la Questura scopre che 8 hotel su 15 che si erano proposte al Comune per ospitare i migranti erano legate a mafia, camorra e Sacra Corona Unita. Secondo una ricerca dell'Istituto Demoskopika gli sbarchi dal 2011 ad oggi hanno fruttato alla criminalità organizzata un giro di affari di 4 miliardi di euro.

«I MIGRANTI NON FANNO LA BELLA VITA NEGLI HOTEL DI LUSSO»

Lusso magari no, ma ex hotel anche a 3 o 4 stelle riconvertiti a strutture per accoglierli, quello sì. Per molti gestori in difficoltà l'immigrazione è diventata una soluzione per riempire l'hotel e farsi pagare dallo Stato. Quando non è l'hotel a rendersi disponibile, la Prefettura può anche disporre un'ordinanza di requisizione. Sono previsti degli indennizzi per i proprietari, tanto paga sempre lo Stato. Col sussidio pubblico il menù per gli ospiti non può essere quello di Cracco, ma dovrebbe andare più che bene a chi scappa dall'Africa. Invece capita spesso che i migranti si lamentino per la qualità del cibo o perché il wifi prende male.

«I MIGRANTI NON SONO UN COSTO TROPPO ALTO PER IL SISTEMA ITALIANO»

Vanno distinti gli immigrati regolari, che risiedono e lavorano in Italia, dai clandestini. L'emergenza migranti è un costo enorme per l'Italia. Nel 2016 il prezzo per l'Italia è stato di 3,3 miliardi di euro al netto dei contributi della Ue (appena 120 milioni), costi - ha scritto il ministro Padoan in una lettera a Bruxelles - dovuti principalmente «ai salvataggi in mare, all'identificazione, al ricovero, ai vestiti, al cibo, ai costi di personale, operativi e di ammortamento di navi e aerei». E l'ultimo Def nota con allarme: «Se l'afflusso di persone dovesse continuare a crescere la spesa potrebbe salire nel 2017 fino a 4,6 miliardi».

«I MIGRANTI NON PORTANO MALATTIE»

Sarà brutto dirlo, ma non è proprio così. L'Unhcr riscontra che «nel 2015 i casi di scabbia rilevati dai medici di confine negli sbarchi degli immigrati sono stati circa il 10%», ma definisce eccessivo l'allarme dato dai media anche perchè «la scabbia è una malattia piuttosto banale, tipica delle fasce sociali più svantaggiate, favorita da scarsa igiene e sovraffollamento, condizioni che facilmente si associano ai viaggi sui barconi». Oltre alla scabbia, si sono verificati spesso casi di tubercolosi nei centri di accoglienza (38, nel 206, solo in quelli di Milano). È la stessa Oms a spiegare che la condizione di immigrato agevola il rischio di contrarre la Tbc.

«NON SONO TROPPI NON È UN'INVASIONE»

Saviano anche qui parla degli immigrati regolari, che in Italia sono l'8,3% (ultimo censimento Istat), ma concentrati per metà in tre regioni: Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Lazio. Anzi, concentrati soprattutto nelle grandi città, a Milano ad esempio gli immigrati sono il 18,9%. Ma la percezione di una invasione è data soprattutto dall'arrivo dei clandestini, non dagli stranieri regolari. Sono stati 95.215 gli immigrati sbarcati solo nel 2017, 176mila l'anno prima. Le strutture di accoglienza sono sature, tanto che il Viminale si è trovato più volte in difficoltà e ha dovuto allertare le prefetture per trovare velocemente dei posti dove metterli. Arduo sostenere che non siano troppi.

«GLI IMMIGRATI NON TOLGONO IL LAVORO AGLI ITALIANI»

Il Cer (Centro Europa Ricerche) nel suo studio «European Migration and the Job Market» scrive che «la migrazione ha un effetto negativo sull'occupazione dei nativi dei Paesi periferici», cioè dei paesi del Sud Europa, tra cui appunto l'Italia. È vero, gli immigrati fanno in maggioranza lavori di livello basso, ma sono proprio i lavori per cui hanno competenze la maggior parte dei lavoratori dei paesi del Sud Europa, meno qualificati rispetto a tedeschi, francesi, norvegesi etc. Insomma, «mentre nei Paesi ad alta scolarità gli immigrati di basso livello culturale occupano posti di lavoro che i cittadini non vogliono più fare, nel Sud entrano direttamente in competizione con i locali». Gli immigrati, poi, accettano compensi più bassi e sono quindi più vantaggiosi rispetto agli italiani con le stesse competenze. Che si ritrovano più facilmente fuori dal mercato del lavoro.

«GLI IMMIGRATI CI PAGANO LE PENSIONI»

Se gli stranieri che lavorano regolarmente e pagano gli oneri previdenziali contribuiscono ovviamente all'Inps, è anche vero che una larga parte degli immigrati lavora in nero e quindi non contribuisce affatto, pur beneficiando del welfare pubblico. Nel 2014 i lavoratori stranieri hanno «pagato» la pensione a 640mila italiani. Però, ogni anno l'Italia versa le pensioni mensili a 100mila immigrati (75mila extracomunitari e 25mila comunitari dell'Est). Non solo, oltre ai benefici previdenziali vanno calcolati anche gli oneri per il welfare. Nel 2016 la Fondazione Leone Moressa ha certificato in circa 16 miliardi il costo in spesa pubblici per i 5 milioni di immigrati in Italia (non contiamo i clandestini). Dunque il saldo è negativo.

«LA MAGGIOR PARTE DEGLI IMMIGRATI NON COMMETTE CRIMINI»

Un'elaborazione della Fondazione David Hume di Luca Ricolfi ha messo in fila i tassi di criminalità relativi tra stranieri e nativi nei Paesi Ue: «In media gli stranieri delinquono 4 volte di più, con punte di 12 in Grecia, 7 in Polonia, 6 in Italia, 5 nelle civilissime Svezia, Austria, Olanda. Per quanto riguarda l'Italia l'indice si attesta intorno al 6 che è sopra la media europea». In Italia pur essendo l'8,3% dei residenti, gli stranieri sono il 32% della popolazione carceraria.

«CON LO IUS SOLI NON AUMENTERANNO GLI SBARCHI»

La connessione è difficilmente stimabile, visto che ancora lo ius soli non è legge, ma la concessione della cittadinanza a chiunque nasca nel nostro Paese indipendentemente dalla cittadinanza dei genitori può costituire un ulteriore incentivo ad imbarcarsi per l'Italia. La penisola come grande sala parto per diventare cittadini Ue.

martedì 29 agosto 2017

Novità per assicurazioni auto, energia, telecomunicazioni

ECONOMIA

In vigore da oggi la legge sulla Concorrenza: Sconti RC Auto ai più virtuosi, maxi-bollette pagabili a rate e norma anti-booking

 29/08/2017 08:22 CEST | Aggiornato 3 ore fa

Entrano in vigore dopo un iter parlamentare travagliatissimo (circa 3 anni per approvarle) le nuove norme raccolte nel ddl 'annuale' sulla concorrenza varato, con fiducia, all'inizio di agosto. Non tutte però saranno immediatamente 'operative' in attesa che il governo o i singoli ministeri varino i relativi decreti attuativi (in tutto 20). E alcuni di questo sono di 'vitale' importanza, come, ad esempio, le norme sul trasporto (Uber o noleggio con conducente). Mentre per quanto riguarda le comunicazioni le nuove norme arriveranno entro 4 mesi a partire da domani. Molte le novità del testo che riguardano energia, assicurazioni, professioni, comunicazioni, ambiente, trasporti, turismo, poste, banche e farmacie.
Tra le novità inserite durante il cammino parlamentare sulle assicurazioni si chiarisce che le polizze sui rischi accessori non si rinnovano tacitamente, ma si risolvono automaticamente alla loro scadenza; sull'energia si prevede la fine dell'obbligo di passare al mercato di salvaguardia per quei consumatori che al primo luglio 2019 non avranno ancora scelto il proprio fornitore; la modifica sul telemarketing sopprime un comma con cui venivano stabilite alcune caratteristiche necessarie per le telefonate non sollecitate dagli stessi clienti, mentre l'esercizio dell'attività di odontoiatra da parte delle società di professionisti viene consentito solo a quelle dotate di un direttore sanitario iscritto all'albo. La quinta e ultima modifica riguarda invece la bonifica dei terreni dismessi dai distributori di carburanti che sarà obbligatoria in tutti i casi in cui vengano accertate evidenti tracce di contaminazione.
Ecco le altre misure previste dal provvedimento:
Sconti per automobilisti virtuosi. Previsti sconti Rc Auto per i clienti che installano la scatola nera, accettano di sottoporre il veicolo a ispezione o di collocare un dispositivo che impedisce di accendere il motore se si è bevuto troppo. Tariffe più basse anche per gli automobilisti virtuosi che risiedono nelle aree con maggior frequenza di incidenti e con prezzi medi maggiori. Nel caso di mancato sconto sono previste sanzioni amministrative per le assicurazioni da 5mila a 40mila euro.
Poste, stop a esclusiva su multe. A partire dal 10 settembre 2017, Poste italiane non avrà più il monopolio sulle notifiche di atti giudiziari e multe
Banche, tetti sui costi per chiamate assistenza. Gli istituti bancari e le società di carte di credito dovranno assicurare che l'accesso ai propri servizi di assistenza ai clienti, anche attraverso chiamata da telefono mobile, avvenga a costi telefonici non superiori rispetto alla tariffa ordinaria urbana.
Novità su energia. Fine del mercato di maggior tutela per l'energia elettrica e il gas. Arriva, inoltre, la possibilità di rateizzare le maxi-bollette causate da ritardi o disguidi dovuti al fornitore del servizio.
Cambio operatore telefono senza stangate. I clienti dovranno essere informati in partenza di quali spese dovranno affrontare in caso di cambio operatore per il telefono o l'abbonamento tv. Cambiare operatore e annullare un contratto, attraverso il recesso, sono operazioni che il consumatore potrà fare anche per via telematica. Il contratto non potrà essere superiore a 24 mesi. Semplificate le procedure di migrazione tra operatori di telefonia mobile.
Forniture elettriche, stop alle aste. Viene eliminata la possibilità di mettere all'asta la fornitura di energia elettrica per quegli utenti che non avranno optato per un operatore alla scadenza del regime di mercato tutelato.
Professionisti col preventivo. Scatta l'obbligo di informare il cliente, prima dell'inizio della prestazione, in forma scritta o in forma digitale. Vanno inseriti anche i termini di pagamento della parcella e altre condizioni che il cliente deve conoscere subito per decidere se confermare l'incarico.
Farmacie, limiti alle Spa. Le società di capitali potranno essere titolari di farmacie ma dovranno rispettare un tetto del 20% su base regionale. I titolari potranno prestare servizio in orari o periodi aggiuntivi rispetto a quelli obbligatori ma prima dovranno darne comunicazione all'autorità sanitaria competente e alla clientela.
Hotel, stop al parity rate. Gli alberghi saranno liberi di proporre alla clientela offerte migliori rispetto a quelle dei siti internet di prenotazione online come Booking.
Srl dal notaio. Il numero dei notai sale a uno ogni 5mila abitanti (oggi sono uno ogni 7mila abitanti). Il registro delle successioni sarà tenuto dal Consiglio nazionale del notariato. Per la costituzione delle srl semplificate continuerà a essere necessario l'intervento del notaio.
Odontoiatri certificati. Ogni società deve avere un direttore sanitario iscritto all'albo degli odontoiatri e possono operare solo i soggetti in possesso di titoli abilitanti.
Pagamenti digitalizzati. I pagamenti per l'ingresso ai musei o a eventi culturali potranno essere effettuati anche tramite telefonino.
Uber, riforma nel 2019. Entro un anno dall'entrata in vigore del ddl il governo è delegato ad adottare un decreto legislativo per la revisione della disciplina in materia di autoservizi pubblici non di linea, come Uber e Ncc.
Grande assente - più volte annunciata e poi scomparsa - è la norma anti-scorrerie volta alla tutela delle società quotate italiane. "E' pronta, deve trovare il veicolo giusto" aveva garantito lo scorso maggio il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, ma ancora non se ne hanno notizie. Anche la norma 'Salva-Flixbus' (contro lo stop alla società tedesca di trasporti su autobus low cost) che doveva passare prima per il ddl Concorrenza e poi per la manovrina è alla fine confluita nel Dl Sud.

domenica 27 agosto 2017

Staino: «L’imperativo è votare Pd. Il male della sinistra? D’Alema»

23 Aug 2017 12:07 CEST -  IL DUBBIO«Massimo è stato il personaggio più deleterio per la sinistra italiana, ha vissuto tutta la storia del partito in chiave personale. Ha distrutto Occhetto, Prodi e Veltroni, ora vuole Renzi…»


L’Unità ha dovuto lasciarla, e s’è arrabbiato moltissimo. Su quelle pagine ha disegnato e scritto dal 1982 ed è diventato direttore del giornale nel 2016, in un tentativo ormai disperato di farlo uscire dalla crisi. Anche per questo, per l’abbandono de l’Unità da parte di Matteo Renzi «con un’alzata di spalle», non corre buon sangue tra lui e il segretario del Pd. Eppure, nonostante lo sgarbo personale che lo ha fatto molto soffrire, Sergio Staino non ha smesso un attimo di sentirsi «iscritto al partito». E non ha smesso di considerare Renzi il suo segretario, «perché i segretari cambiano, il partito resta». Da questo punto di vista è ancora un comunista vecchia maniera, con il baluardo dell’unità del partito in testa. Uno tra quelli che, anche se ha passato una vita tra le fila di ogni minoranza interna, è sempre restato.
Staino, quindi lei si sente ancora dentro al Pd?
Immagino intenda nonostante ciò che è successo all’Unità. Le rispondo che certo, assolutamente sì, mi sento iscritto e membro del Pd. Se poi vuole sapere se sono soddisfatto… beh, quello è un altro discorso. Ma che io ci sia dentro è fuor di dubbio, ci sono dentro fino al collo. Anzi, mi sento più iscritto io di tanti altri.
Affrontiamolo subito, il capitolo Unità. Una vicenda dolorosa per lei, che ha lavorato una vita in quel giornale e che proprio da Renzi ricevette la proposta di diventare direttore. Le suscita molta amarezza ripensarci?
Amarezza, sì. Ci sono rimasto male perché Renzi mi aveva chiamato a fare il giornale con dichiarazioni molto affascinanti. Diceva di non volere un giornale sdraiato sul governo e sul partito ma pagine di dibattito e anche scontro: una visione in piena sintonia con ciò che anche io pensavo fosse utile. A ferirmi di più è stato il fatto di sentirmi abbandonato senza una spiegazione e per di più in una forma piuttosto offensiva: con un’intervista a Repubblica che sconfessava il progetto politico concordato.
Un’intervista alla quale ha risposto per le rime. Nemmeno allora ha pensato di andarsene?
Renzi è arrivato a dire che l’Unità era un fatto capitalistico privato e che lui non c’entrava nulla. Anche in quel caso, la mia risposta è stata: «Io non me ne vado dal partito perché dici questo, ma sei tu stesso che, dicendolo, ti metti fuori dal Pd, caro segretario». Ma cosa vuole che dica: Renzi è un segretario e i segretari passano. Il partito è un’altra cosa.
Parliamo del partito, allora. Il Pd, lo ammetterà, è un po’ scalcinato: tra scissioni e sconfitte elettorali.
C’è in me molta tristezza su come siamo arrivati a questa situazione. Eppure io sono convinto che, se a questo Pd noi riusciamo a dare un’anima e soprattutto a formare nuove generazioni, non tutto è perduto. Del resto per me il partito, in quanto aggregazione ideale di una grande moltitudine di persone, rimane lo strumento più importante, fuori non trovo niente. Per questo ripeto ai compagni «state dentro, non andate via, non viveteci come nemici». Forse sono sin troppo ottimista, ma resto convinto che ci sia la possibilità di costruire qualcosa insieme.
Parla con grande convinzione, eppure questo Pd, almeno all’inizio, lei non lo voleva e anche ora si riconosce nella minoranza. Come si vive sempre all’opposizione?
Io nel partito non ho mai avuto incarichi dirigenti e tanto meno posizioni personali da difendere. La mia è una storia condivisa da tanti che come me sono stati nel partito per passione, per dare una mano a trasformare la società in un senso più giusto e che hanno sempre visto con sospetto le distorsioni burocratiche che crescevano a dismisura. Essere all’opposizione non è una scelta programmata ma deriva dalla necessità di criticare e di verificare nella discussione la giustezza delle scelte fatte al vertice. Del resto, credo che quando si ama molto una cosa sia naturale: è un po’ come il rapporto con la mamma, le si vuole bene ma si litiga in continuazione. Era così anche quando ero nel Pci, sa?
Ricostruiamola, questa vita all’opposizione. Era contrario alla svolta della Bolognina di Occhetto?
Prima ancora di Occhetto sono stato contrario all’addio che Berlinguer fece all’Unione sovietica; poi contrario all’ombrello della Nato. Infine, al momento di decidere di abbandonare il nome di partito comunista per trasformarlo in qualche altra cosa che poi fu il Pds, io stavo con Bassolino. Capivo, certo, l’esigenza di una revisione storico- politica dopo la caduta del muro di Berlino, ma nutrivo molta diffidenza riguardo all’idea del cambiamento del nome. Eppure nemmeno allora sono uscito. Anzi, sono stato nel Pds e poi nei Ds, anche se sempre in posizione critica. Poi siamo arrivati al Pd e anche al Pd io mi sono opposto, perché non mi piaceva questa fusione a freddo con gli ex democristiani. Però ho sempre rispettato le decisioni della maggioranza. Le scelte d’altronde avvenivano sempre dopo una lunga discussione, in tutto il partito e a tutti i livelli.
Possibile che nemmeno una volta sia stato d’accordo con la maggioranza?
Ma la dialettica è l’elemento fondamentale, se cominciamo ad aderire tutti passivamente sarebbe finita la politica! Io ho sempre continuato a interrogarmi se gli altri avessero ragione: stare all’opposizione significa mettersi sempre in discussione, nei confronti del partito e nei confronti di noi stessi.
Del Pd, oggi, si dice che abbia perso il contatto con la base. Secondo lei è vero?
Dentro il Pd ci sono tantissimi compagni che sono smarriti, è vero, ma hanno un cuore enorme e moltissima voglia di fare. Nelle superstiti Feste dell’Unità sapesse quanti militanti continuano a lavorare, sperando che qualcosa nasca. E sapesse anche quanti, tra quelli che sono usciti, continuano a guardarci e a sperare che il partito si rivolga a loro.
Alziamo lo sguardo dalla base, allora. Il vero guaio del Pd sta nel suo gruppo dirigente?
Bè, se qualcosa va male nel partito, è ovvio che il primo responsabile è sempre il gruppo dirigente. Il problema però è che quest’oggi ci sono moltissime tensioni all’interno del vertice ma pochissime proposte concrete di alternative. Anche figure ricche di esperienza e alle quali mi sento molto vicino, da Fassino a Martina a Cuperlo e a Orlando, per fare alcuni nomi, sono abbastanza in affanno, nel tentativo di porre in atto una vera direzione collegiale. Capisco che è difficile farla con un Renzi così accentratore ma forzare un po’ il confronto farebbe bene a tutti. Non parliamo poi della sinistra al di fuori del Pd: persone che hanno incredibilmente perso ogni cognizione di cosa significhi fare politica.
Sente la mancanza di una scuola di formazione politica?
Io penso che l’elemento pedagogico sia il pilastro indispensabile per fondare il nostro futuro. Del resto, ho accettato di dirigere l’Unità perché speravo che quel foglio potesse essere uno strumento di aiuto in questo senso, soprattutto per i giovani.
E che cos’è, per lei, fare politica?
Significa partire da un progetto, sapere chi lo può appoggiare, con chi allearsi e a chi invece sparare addosso. La politica è l’arte di rag- giungere certi obiettivi attraverso il compromesso. Oggi, invece, il compromesso si chiama inciucio: oggigiorno anche la svolta di Salerno di Togliatti sarebbe bollata con questo termine spaventosamente offensivo che, se usato allora, non ci avrebbe permesso di scrivere la Costituzione più bella del mondo. Il punto è questo: oggi manca la visione di capire che non esistono avversari totalizzanti ma situazioni mobili con cui interloquire senza perdere di vista gli obiettivi che ci siamo posti.
Questa mancanza che lei dice ha favorito la scalata di Renzi al partito?
L’operazione di Renzi è stata fortemente facilitata da un atteggiamento ottuso dell’allora gruppo dirigente dei Ds, in particolare il gruppo di Firenze, perché Renzi è nato lì. Lui, che veniva dalla Margherita, offrì ai Ds tutti i comuni della provincia di Firenze, in cambio della sua elezione a Presidente della Provincia. Una proposta che venne considerata dai compagni dirigenti come una forma di imbecillità di questo giovane: in realtà era l’inizio di un disegno molto più ampio, che mirava a cavalcare intelligentemente il desiderio di innovazione che attraversava tutto il nostro partito. Renzi fu letto come il rinnovamento di fronte ad un gruppo dirigente della sinistra ufficiale ormai stantio e autoreferenziale. Il suo successo gettò gli ex Ds in una situazione di smarrimento. Per questo, poi, D’Alema e i suoi fecero passare l’idea dell’usurpazione, del marziano che prende il partito.
E infine il marziano è diventato segretario. Per questo i dirigenti di cui lei parla se ne sono andati ad uno ad uno?
Non se ne sono andati subito. Prima, con opportunismo, si è cercato un accordo, che doveva essere siglato con la nomina di D’Alema come Alto commissario europeo. Invece, quando Renzi nominò la Mogherini con grande schiaffo a D’Alema, si gettarono le basi per l’Mdp. Io sono sicurissimo che, se D’Alema fosse stato nominato Alto commissario, non ci sarebbe stata la scissione.
E’, come sempre, “tutta colpa di D’Alema”?
D’Alema è curioso: nel passato è stato fin troppo dogmatico nell’aver fiducia nel partito e nel considerare i militanti come pedine che avrebbero ciecamente obbedito alle scelte della direzione. Ora invece, proprio lui che ha dato il via all’operazione Pd, mi viene a parlare della necessità di costruire un nuovo partito, invece che stare in quello che ha voluto lui.
Si aspettava la scissione, quindi?
Ho sperato fino all’ultimo che non avvenisse, poi alla fine ho sperato che ci fosse perché ormai si era capito che nel cervello di Massimo c’era solo un obiettivo distruttivo. Ormai si può affermare tranquillamente che D’Alema è stato il personaggio più deleterio per la sinistra italiana, ha vissuto tutta la storia del partito in chiave personale: dopo Natta era incarognito della nomina di Occhetto a segretario e non ha avuto pace finché non lo ha distrutto. Poi ha voluto distruggere Prodi con tutto quel che c’era di innovativo nel primo governo della sinistra, poi ha distrutto Veltroni per prendersi lui il PD. Ora l’obiettivo principale è quello di distruggere Matteo Renzi. Le sembra una persona che può dare un minimo di fiducia per il futuro dei nostri nipoti? E’ per questo che a un certo punto ho sperato che se ne andasse e mi spiace solo che lo abbia seguito Bersani, perché Bersani era di un’altra stoffa, molto più generoso e legato alla ditta.
Non condivide nulla di questo progetto?
No, non posso condividere proprio nulla: Mdp è mosso dal rancore, perché parte dal presupposto che Renzi abbia usurpato qualcosa e che loro, poverini, siano innocenti. Le cose che nascono con rancore non hanno possibilità di crescita e soprattutto non hanno possibilità di fare qualcosa di buono. Per questo spero che Pisapia ci pensi bene prima di andare ad abbracciare D’Alema. Ho l’impressione comunque che saranno assai pochi i compagni che li seguiranno.
Lo stesso vale per Civati e Fassina, allora.
No, in loro non c’è rancore. Dietro a Civati e Fassina c’è una irrazionalità utopistica ma c’è anche molta onestà. Sono due dirigenti generosi, che darebbero la vita per una rivoluzione sociale, ma politicamente sono degli analfabeti. Come si può davvero pensare di autocertificarsi partito? Non si può confondere un partito con delle bocciofile.
Lei ha citato molti nomi: la sinistra continua ad avere il vecchio problema della leadership?
Considero la leadership l’elemento oggettivo che ha determinato la crisi della sinistra. Per una ragione particolare, però: da quando la prassi politica è diventata il controllo di posti dirigenziali, si è perso l’aspetto soggettivo che fa vincere: la passione, la voglia di cambiamento, di aggregazione e inclusione. Attenzione, lo abbiamo perso prima dell’arrivo di Renzi, lui ha solo sfruttato la situazione.
A proposito di vittorie, Luigi Berlinguer in un’intervista a questo giornale ha sostenuto che «l’imperativo morale del Pd è vincere», lo ritiene possibile?
In Sicilia, onestamente, non credo. Anche per le future elezioni la situazione mi sembra complessa. Io però rovescerei la dichiarazione di Berlinguer sui singoli militanti: l’imperativo è votare Pd, questo sì. Vinca o non vinca, l’imperativo è questo. È un’illusione tragica e un errore terribile quello di pensare di dare una lezione al Pd non andando a votare o votando contro. Io in passato ho fatto questo sbaglio e ne ho sofferto molto: qualunque voto perso dal Pd è un voto conquistato dalle destre di Berlusconi o di Grillo. Da questo deriva – anche se si è d’accordo solo parzialmente con ciò che questo partito ha fatto – l’imperativo di votarlo e io lo voterò.
Anche se si trattasse di votare per Renzi?
Anche se si trattasse di votare per Renzi, per Gentiloni, per Delrio, Minniti, Zingaretti o, perché no, per Cuperlo.

sabato 26 agosto 2017

Lettera di protesta per i troppi errori al TGCOM24 e al TG5

Alla c.a. dei Direttori di TG5 e TGCOM24
Egregi Sigg.
dopo l'ennesimo strafalcione pronunciato da un Vostro corrispondente da Palermo in cui parlava di un "pluripregiudicato" ucciso..., desidero segnalarVi che anche molti giornalisti delle Vs redazioni commettono errori pacchiani quali: Buon pomeriggio (nella nostra lingua questo saluto NON ESISTE, potete verificarlo nel vocabolario TRECCANI), Vienimi a trovare invece di Vieni a trovarmi, Scordarsi invece di dimenticarsi, Pluripregiudicato invece di PREGIUDICATO:persona condannata per uno o PIù reati.
So benissimo che la lingua subisce continuamente evoluzioni più o meno effimere, ma GLI ERRORI ANCHE DI GRAMMATICA SONO SEMPLICEMENTE ERRORI!
E, per favore, non mi si dica che i Vs TG SONO GRATUITI perché sapete benissimo che il Vs editore incassa dalla pubblicità in virtù del numero dei telespettatori. Mi auguri vogliate correre ai ripari perché altrimenti sarò costretto a segnalare gli strafalcioni a Striscia la notizia e a non VEDERE PIù I Vs TG
Un cordiale saluto.
Ennio Di Benedetto
P.S.: ai soli fini di archivio pubblicherò questa mia su uno dei miei Blog "enniodibenedetto.blogspot.it"

Vedi: http://www.treccani.it/enciclopedia/la-neologia_%28XXI-Secolo%29/

lunedì 21 agosto 2017

Albania, il nuovo paradiso per le vacanze: mare da urlo e con 7 euro ti ingozzi di squisito pesce fresco

Albania, il nuovo paradiso per le vacanze: mare da urlo e con 7 euro ti ingozzi di squisito pesce fresco
Dieci giorni attraverso l’Albania per scoprire un angolo dimenticato dell’Italia. Sì, perchè chi decide di mettersi in viaggio verso il paese delle aquile non può ignorare la storia che ha legato e lega ancora i due Paesi. Un gemellaggio sottile ma forte che si comprende solo macinando chilometri da Tirana a Berat, puntando dritto verso la riviera meridionale con Himare, Ksamil, Girocastro, Korce fino a Vlora (Valona) dove tra mare cristallino, bunker socialisti e montanari dal cuor d’oro il turismo ha trovato una nuova frontiera low cost.
Del resto l’Albania è un paese ancora tutto da scoprire, ben lontano dal classico turismo di massa che affolla i villaggi delle mete più classiche del mare nostrum. Anche se la parte più dura da scardinare è il pregiudizio di chi ricorda il paese solo per i gommoni e non capisce che, di fatto, è l’altra meravigliosa sponda della riviera pugliese e greca. Certo, l’Albania ne dovrà fare ancora di strada per guadagnarsi un posto nell’olimpo delle mete estive europee, ma il primo passo è stato fatto.
Lo hanno capito a Bruxelles dove hanno finanziato con un milione e mezzo di euro la nuova passeggiata a mare di Valona (oltre due chilometri di porfido che si snoda tra centinaia di pini marittimi), con l’Italia capoprogetto. Peccato che l’autostrada finisca decine di chilometri prima della capitale del sud, con i cantieri congelati dal fallimento della società costruttrice che (manco a dirlo) è italiana.
IL VIAGGIO
La parte più dura è proprio il viaggio, con traghetti che ricordano “barconi ripuliti” e strade non sempre all’altezza. Con settecentoventicinque euro una famiglia di quattro persone come la mia, con moglie Carla, Ginevra e Beatrice a seguito, si paga l’attraversata da Brindisi a Valona con cabina esterna (consigliata). E proprio sul ponte il primo scorcio di Albania non è certo edificante quando si devono schivare sacchi a pelo e coperte stese a terra per affrontare l’attraversata notturna.
Un appunto negativo che scema una volta a terra. Il soggiorno a Valona nell’Hotel quattro stelle New York della storica famiglia Aliaj (85 camere a piombo sul mare e chef italiano in cucina) è da record del risparmio: dieci giorni per settecento euro in alta stagione con una suite familiare che altrove sarebbe costatata un occhio della testa.
Tutto bello, ma i prezzi? Per chi bada al portafogli l’Albania è un paradiso dove un piatto di linguine allo scoglio costa 500 lek (poco più di tre euro e mezzo al cambio ufficiale) e un lettino più ombrellone lo paghi da un minimo di 150 a un massimo di 250 lek.
Per non rimanere isolati dal mondo, visto che nessuna delle compagnie telefoniche europee prevede convenzioni con quelle albanesi, conviene acquistare una sim albanese e farsi attivare l’offerta mensile da 5GB internet più 60 minuti di chiamate con l’Italia(2100 lek, 15 euro).
Insomma: posti bellissimi, estrema vicinanza all’Italia, notevole economicità di costi e spese. La nuova frontiera del turismo (soprattutto familiare) passerà inevitabilmente dal sud dell’Albania. Il litorale si estende per 363 chilometri e quasi tutte le spiagge sono libere.
Nei dintorni di Vlora si incontrano spiagge molto suggestive come quella di Paradise Beach, perfetta per i bambini, o come quella di Orikum, dalle acque limpide e cristalline. Il vicino monte Llogara, che scollina a mille e ventisette metri, offre invece la possibilità di escursioni fino alla sua sommità, da cui si scorge un panorama stupendo. Le acque blu, punto d’incontro tra Adriatico e Jonio, e le isole greche settentrionali, le Diapondie, sono lo sfondo di questa incantevole cartolina naturale. Tutto il litorale meridionale si affaccia sullo Jonio e presenta spiagge per tutti i gusti. Quella di Dhermi è selvaggia ed incontaminata e consente di raggiungere, via mare, la suggestiva Grotta dei pirati. Drimadhes è invece un’ampia baia di sabbia bianca, circondata da una fitta vegetazione. Più raccolta è la spiaggia di Palase, da vivere in tranquillità e libertà.
Paradisi terresti ancora oggi vigilati da centinaia di bunker abbandonati con cui il dittatore Enver Hoxha pensava di proteggere il suo Paese da una invasione che alla fine non c’è mai stata. E oggi che l’invasione è quella pacifica di italiani, tedeschi e francesi, gli albanesi hanno scoperto che hanno tutto per poter vivere senza scappare dalla loro patria. Del resto l’epoca del comunismo agricolo è passata e il “giardino d’Italia” guarda con felice memoria ai tempi del ventennio quando di Roma era colonia.
Vicino a Dhermi i militari hanno lasciato libero uno dei luoghi simbolo della costa, la spiaggia incontaminata di Gipe che si apre ai piedi di un canjon naturale. Tutto gratis, naturalmente, con l’unico obolo da pagare è quello al parcheggio in cima alla scogliera di terra rossa (100 lek) assieme alla fatica di percorrere almeno 30 minuti di strada sterrata prima di approdare in spiaggia.
AL RISTORANTE
Giù, tra capanne costruite alla buona, Elvis (che la madre segretaria del regime di Valona ha chiamato come il cantante ignorando il diktat dell’isolamento imposto dai rossi) accoglie e dirige il ristorante sotto la felce. Con 11 mila lek (poco meno di 50 euro) si mangia in sette a base di orate appena pescate, pollo alla griglia, verdure e birra a fiumi. Non solo. Tutta la strada, la SH8, merita il viaggio. Da Dhërmi fino a Saranda al confine con Grecia è un susseguirsi di blu intenso e sapori pieni (la cipolla è la base di ogni piatto) che accompagnano in lontananza il profilo arcigno di Corfù.
Porto Palermo è irrinunciabile con la sua fortezza costruita da Alì Pasha e il piccolo porto in disuso che veniva usato dai sovietici per nascondere i sottomarini di stanza nell’Adriatico. Più a Sud, le montagne sono più irte e le spiagge strette tra spuntoni di roccia e ghiaia fono a Saranda, la Montecarlo di Albania con grandi ed eccessivi albergoni che si affacciano sul mare, spiagge zeppe di ombrelloni e locali modello Ibiza che nascondono gli scavi archeologici di Butrinto (un grande teatro romano e una basilica paleocristiana). Così, sfidando i pregiudizi, il paese delle aquile è pronto a spiccare il volo.
di Giuseppe Spatola
Valona, Albania