Pagine

martedì 28 marzo 2017

L’insensata uscita dalla moneta unica

Scenari populisti

Oggi non è più il tempo discussioni accademiche sui pro e contro dell’euro. Un dibattito europeo su come riorganizzarne, anche radicalmente, la gestione andrà avviato, e presto


shadow
Il Movimento 5 Stelle ha più volte annunciato un referendum consultivo per l’uscita dall’euro, un passo che inevitabilmente comporterebbe l’uscita dall’Unione europea. Infatti, a meno di rinegoziare all’unanimità i trattati, non è possibile abbandonare la moneta unica rimanendo nella Ue. E fuori da essa un’eventuale svalutazione decisa per guadagnare competitività sarebbe neutralizzata dai dazi che gli altri Paesi imporrebbero sulle nostre esportazioni. Con dazi e svalutazioni gli italiani dovrebbero ridurre, e di molto, i loro consumi di beni importati. Certo, i dazi non durerebbero per sempre, forse sarebbero solo una minaccia. Ma neppure gli effetti dalla svalutazione durerebbero per sempre. Per un po’ di tempo, forse un anno o due, il minor valore della moneta potrebbe aiutare le nostre esportazioni. Ma un Paese in cui la produttività non cresce da un decennio, che soffre per il nanismo delle sue imprese, poca ricerca e sviluppo, di poca concorrenza, regole asfissianti su molte attività economiche, un’imposizione fiscale soffocante a causa di una spesa pubblica troppo elevata, non può illudersi che basti una svalutazione per risolvere questi problemi e riprendere a crescere. Come accadeva prima dell’euro, la mossa avrebbe l’effetto dell’aspirina: cura i sintomi, e intanto ritarda l’adozione di misure efficaci per combattere la malattia. Silvio Berlusconi propone invece di mantenere l’euro, ma affiancandogli una «nuova lira»: sarebbe emessa dallo Stato che la userebbe per pagare dipendenti e fornitori, i quali poi potrebbero usarla per saldare le loro tasse.
Alla fine degli anni Novanta lo fece l’Argentina: circolava il peso, legato uno a uno al dollaro, e i patacones, emessi dai governi provinciali per finanziarsi. Finì in un’esplosione del debito pubblico, una grande svalutazione del peso, l’assalto alle banche per ritirare i depositi e un default. Nonostante lo straordinario aumento di competitività delle merci argentine, il Paese entrò in depressione e la disoccupazione salì al 25 per cento.



Il Movimento 5 Stelle ha più volte annunciato un referendum consultivo per l’uscita dall’euro, un passo che inevitabilmente comporterebbe l’uscita dall’Unione europea. Infatti, a meno di rinegoziare all’unanimità i trattati, non è possibile abbandonare la moneta unica rimanendo nella Ue. E fuori da essa un’eventuale svalutazione decisa per guadagnare competitività sarebbe neutralizzata dai dazi che gli altri Paesi imporrebbero sulle nostre esportazioni. Con dazi e svalutazioni gli italiani dovrebbero ridurre, e di molto, i loro consumi di beni importati. Certo, i dazi non durerebbero per sempre, forse sarebbero solo una minaccia. Ma neppure gli effetti dalla svalutazione durerebbero per sempre. Per un po’ di tempo, forse un anno o due, il minor valore della moneta potrebbe aiutare le nostre esportazioni. Ma un Paese in cui la produttività non cresce da un decennio, che soffre per il nanismo delle sue imprese, poca ricerca e sviluppo, di poca concorrenza, regole asfissianti su molte attività economiche, un’imposizione fiscale soffocante a causa di una spesa pubblica troppo elevata, non può illudersi che basti una svalutazione per risolvere questi problemi e riprendere a crescere. Come accadeva prima dell’euro, la mossa avrebbe l’effetto dell’aspirina: cura i sintomi, e intanto ritarda l’adozione di misure efficaci per combattere la malattia. Silvio Berlusconi propone invece di mantenere l’euro, ma affiancandogli una «nuova lira»: sarebbe emessa dallo Stato che la userebbe per pagare dipendenti e fornitori, i quali poi potrebbero usarla per saldare le loro tasse.


Alla fine degli anni Novanta lo fece l’Argentina: circolava il peso, legato uno a uno al dollaro, e i patacones, emessi dai governi provinciali per finanziarsi. Finì in un’esplosione del debito pubblico, una grande svalutazione del peso, l’assalto alle banche per ritirare i depositi e un default. Nonostante lo straordinario aumento di competitività delle merci argentine, il Paese entrò in depressione e la disoccupazione salì al 25 per cento.

Nessun commento:

Posta un commento