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martedì 28 febbraio 2017

Giulio Tremonti: "Ci siamo sottomessi da soli all'Europa. Ecco la mia riforma della Costituzione per riprenderci la dignità"

«Nel 1948 l’Italia era una nazione sconfitta e tuttavia, pur sconfitta, teneva alta la testa nel consesso delle nazioni, chiedendo di entrarci a condizioni di parità. Alla sinistra c’è voluto mezzo secolo ma alla fine ha trovato il modo di introdurre dentro ai nostri confini il cavallo di Troia della sottomissione all’Europa. Con una specifica: il cavallo non l’hanno fatto astutamente entrare da fuori gli europei ma l’ha costruito proprio la sinistra italiana, tra il 2000 e il 2001 introducendo, non richiesta, nell’articolo 117 della Costituzione la formula della nostra sottomissione quando si afferma che il potere legislativo dello Stato è subordinato “ai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, intendendo per ordinamento comunitari non solo i trattati ma anche i regolamenti e le direttive europee».

In una logica che oggi si direbbe sovranista, ma che in realtà semplicemente ci riporta ai principi di dignità e sovranità della nostra storia, il senatore Giulio Tremonti, componente della Commissione Affari Esteri, fa una proposta di riforma costituzionale che smonta il cavallo di Troia costruito con il nuovo articolo 117 della Costituzione e ritorna al vecchio e glorioso articolo 11 del 1948, quello che sancisce la parità dell’Italia nella sovranità con gli altri Stati. La proposta prevede l’aggiunga di un comma all’articolo 11 («Le norme dei Trattati e degli altri atti dell’Unione Europea sono applicabili a condizione di parità e solo in quanto compatibili con i principi di sovranità, democrazia, sussidiarietà e con gli altri principi della Costituzione Italiana») che allinea la nostra Carta, e non sembri un sacrilegio, esattamente a quanto dispone la Costituzione di Berlino, che prevede, prima di recepirle, un controllo vincolante di compatibilità delle norme comunitarie con quelle tedesche.

Professore, la sua proposta di modifica della Costituzione è un manifesto, una bandiera o qualcosa che può rivelarsi concreto?
«Facciamo un esempio sulle banche e sul risparmio, un fronte sul quale la sovranità italiana, anche attraverso la norma del bail-in, viene cancellata con la normativa europea manovrata nella migliore delle ipotesi da misteriosi algoritmi sui requisiti di capitale, nella peggiore, e più probabile, da interessi a comprarci e spiazzarci. Se in Costituzione ci fosse ora l’articolo 11 così come riformulato nel mio disegno di legge, i risparmiatori avrebbero potuto far valere un principio fondamentale presente nella nostra Carta, ossia l’articolo 47, che stabilisce che “la Repubblica tutela il risparmio”. Il trattamento che l’Europa sta facendo all’Italia sul tema banche non avrebbe potuto farlo alla Germania, che ha scelto di difendere i suoi prinicipi. Alla Corte di Karlsruhe il risparmiatore tedesco avrebbe potuto così far valere i suoi diritti contro la norma che chiama i correntisti a rispondere delle perdite degli istituti, anche se di fatto comunque non ne avrebbe avuto bisogno, visto che comunque il problema i tedeschi l’hanno risolto a priori escludendo, dal bail-in l’enorme e critica area delle loro banche regionali».

Per dettagliare il senso della propria iniziativa, il professor Tremonti è lieto di ragionare con Libero sulle ragioni profonde che hanno portato l’Italia a cedere unilateralmente quote della propria sovranità e poi anche a discutere sul futuro prossimo dell’Europa e del nostro Paese. Si comincia con una rievocazione dei passaggi chiave della nostra storia internazionale. «La gloriosa Costituzione del 1948» spiega Tremonti «disponeva che “L’Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie a un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni”».
Quindi in un certo qual modo un vincolo esterno alle nostre leggi era previsto fin dall’inizio?
«Il principio alla base era nella coppia di parole “sovranità” e “parità”. Non un vincolo asimmetrico, come quello che fu introdotto nel 2000-2001, ma un vincolo che aveva ragione d’essere nell’interesse nazionale. Una ragione di legittimazione esterna dell’Italia nello scenario internazionale, e una ragione interna di difesa contro il pericolo comunista. Al principio, il senso di quella norma era quello di accreditarci all’Onu. L’Italia, potenza non vincitrice, iniziava il suo nuovo percorso nel concerto delle nazioni ma nel modo giusto, marcando la propria sovranità e sancendo il criterio della parità e reciprocità con le altre nazioni».

È per quanto riguarda la difesa interna?
«Il secondo passaggio fu l’ingresso dell’Italia nella Nato, nel 1949. Ma è evidente che allora la cessione di sovranità fu fatta in funzione difensiva anti-comunista rispetto al Patto di Varsavia. Ma sempre mantenendo ferme parità e sovranità».

È con l’Unione Europea che la nostra sovranità inizia a incrinarsi dunque?
«Intendiamoci sulle parole. Per decenni c’è stata la Comunità Europea, non l’Unione. Le comunità europee sorgono in alternativa al Comecon, il sistema commerciale che univa, con l’appoggio fraterno dei carri armati - lo spread di allora - i Paesi comunisti dell’est Europa. La logica non era solo economica ma anche politica, tant’è che l’Italia entrò nella CECA, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, senza avere né carbone né acciaio».

Quando e perché sono cambiate le cose?
«Cominciano a cambiare con il Trattato di Maastricht, nel 1992, siglato nella prospettiva dell’Unione monetaria. È qui che inizia a emergere l’idea del vincolo esterno come importazione, più coatta che convinta, di valori, criteri e principi che la politica italiana da sola non avrebbe potuto rispettare. Evocando il nome dell’Europa invece, sì. Va notato che a quell’altezza di tempo l’Europa era, oggettivamente, popolarmente sentita come un bene in sé, un qualcosa di positivo a prescindere. Poi qualcosa ha cominciato a rompersi».

Quale fu l’evento spartiacque tra una fase e l’altra?
«Molto in sintesi, la storia europea come è arrivata a oggi si può dividere in due fasi. Una prima, e lunghissima, che va dal Dopoguerra all’unificazione della Germania: il glorioso periodo del mercato europeo comune, il mitico Mec, l’immagine positiva e progressiva di una unione che si sviluppa nel perimetro dell’economia. La rottura di continuità, ossia la seconda fase, prende inizio con la caduta del muro di Berlino e l’unificazione della Germania. Ineluttabile ma in un certo qual modo fatale. E più che dal lato della Germania, dal lato dell’Europa».

Insomma la dinamica positiva dell’Europa si inceppò con le due Germanie unite?
«Niente è stato più come prima. La riunificazione è stata quello che, nel linguaggio della diplomazia, si chiama “colpo di manovella”, quello che avvia la macchina, che partì su due campi, quello della moneta e quello delle regole».

Iniziamo dall’euro...
«La moneta unica, già fabbricata in vitro nei laboratori monetari, fu tirata fuori quando si consentì alla Germania di unirsi ma solo a condizione che rinunciasse al marco. L’ex presidente della Commissione Ue, il francese Jacques Delors, formulò una frase enigmatica a riguardo: “A volte la storia è assistita da passaggi misteriosi”. Si noti che l’idea dell’euro non era solo economica ma soprattutto politica. Gli illuminati pensavano: “Federate i loro portafogli, federerete i loro cuori”, la moneta come mezzo, la politica come fine».

Al giorno d’oggi sembra che l’esperimento non sia riuscito?
«In effetti, sempre più tra i popoli si ha l’impressione che crescano le divisioni, tanto nei portafogli quanto nei cuori».

E poi ci fu la via delle regole?
«Questo è un percorso ancora più affascinante dal punto di vista politico. Un dato di partenza che ci aiuta a capire: da sempre le “regole” sono lo strumento con cui l’autorità esercita il potere. Ne sono il marker più sicuro. Il marker di oggi dice: Gazzetta Ufficiale Europea 2015, lunghezza 151 chilometri lineari, altezza 30092 pagine di regole».

Da cosa deriva questa follia?
«Alla ricerca di quella che lei, non a torto, chiama follia, dobbiamo addentrarci nel più profondo del mysterium del potere politico europeo. Non solo i soliti burocrati e le solite lobby, ma qualcosa di più, di diverso e di superiore, ovverosia il prendersi forma tra le élite più o meno illuminate dell’idea di essere a un passaggio della storia: l’unificazione germanica, l’unificazione monetaria e anche la crezione in questo mondo nuovo dell’homo novus europeus. Si ebbe l’idea che il 1989 fosse l’anno zero, un esperimento che doveva e poteva essere modello e guida per il mondo. Finalmente il sogno settecentesco dell’Europa come “Grande République” avrebbe potuto realizzarsi.

Un piano assolutistico?
«Se l’obiettivo è così alto e le menti sono a loro volta così alte, cosa vuole che contino la storia, la tradizione e i costumi. Val bene di superarli anche a costo di entrare nella vita degli altri. Ma lei non deve credere che le élite siano cattive. Sono buone, ed è anche per questo che vogliono il bene degli altri. Sono semmai gli altri che cominciano a vedere in questo processo un delirio di onnipotenza, la maledizione della ubris. Ed è anche per questo che cominciano a votare contro».

Allora lei la pensa come il futuro ambasciatore di Trump presso la Ue, Ted Malloch, il quale ha paragonato l’Unione Europea all'Unione Sovietica?
«L’architettura istituzionale ha avuto al principio un disegno hegeliano. Ma poi è venuto il resto, anche dal lato della sinistra post-comunista, che ha spostato i suoi “penati” dai templi di Mosca a Bruxelles, il nido dove ha posato il suo uovo e dove si è ambientata benissimo. Naturalmente poi la stessa sinistra post-comunista è passata anche alla venerazione della finanza ma questo è un altro capitolo».

La Ue rischia il fallimento per le stesse ragioni per cui è fallita l’Unione Sovietica?
«È evidente che l’esperimento studiato in vitro e poi vissuto in un delirio di potere è andato a scontrarsi, e non poteva essere altrimenti, con i popoli. Le faccio un esempio molto europeo sul latte e sul formaggio. Lei pensa che l’obbligo di organizzare la lavorazione del latte o la produzione del formaggio nella forma europea di un laboratorio regolato come una sala operatoria ci porti verso il futuro e il benessere o invece che, con vincoli imposti e costi così proibitivi, azzeri quello che dovrebbe regolare? È diventato tutto insufficiente e nel modo più paradossale, insufficiente per eccesso».

Gli Stati però hanno subìto l’Europa sovietica: la colpa non è prima di tutto loro?
«In questi anni c’è stata dappertutto in Europa una progressiva, passiva, fatalistica ma non necessariamente convinta accettazione. È evidente che è un processo di standardizzazione che ha pesato di più su ciò che era piccolo e debole e meno su ciò che era più grosso e più forte».

In Italia questo processo è stato non solo subito ma addirittura costituzionalizzato…
«Nel bienno 2000-2001 il centro della discussione politica era sul federalismo e sul Titolo V della Costituzione. Il centrosintra all’improvviso pensò di entrare nel mercato elettorale in senso federalista, per aumentare i propri voti a discapito del centrodestra che cavalcava la devolution. Fu allora che nella sua riforma costituzionale modificò l’articolo 117, di stampo federalista, ma introdusse un passeggero clandestino, il vincolo di sottomissione unilaterale dell’Italia all’Europa, che semmai avrebbe dovuto essere contentuto nell’articolo 11, ossia nella parte sui principi fondamentali, e invece fu astutamente delocalizzato nella seconda parte della Carta. La mia proposta di modifica costituzionale invece tratta l’argomento dei rapporti dell’Italia con l’Unione Europea nell’articolo 11, riprendendo i principi basici di sovranità e parità e riallineando la nostra Costituzione a quella della Germania».

Mi sta dicendo che la Germania, leggi alla mano, è meno europeista di noi?
«Dal Dopoguerra fino all’unificazione, per arrivare a Maastricht, la Costituzione della Repubblica Federale Tedesca fu scritta riflettendo la più recente e tragica storia di quel Paese. Con l’unificazione e con Maastricht è stata rimodulata introducendo i principi e i criteri che ora sono contenuti nel paragrafo 23 che sancisce il criterio di compatibilità dell’ordinamento europeo con i principi di democrazia e sovranità contenuti nel corpo della Costituzione tedesca. Berlino non importa in automatico i materiali giuridici europei ma li filtra attraverso il criterio di compatibilità con i propri principi interni. Tra l’altro, prevedendo procedure di controllo analoghe e parallele a quelle previste per le modifiche della Costituzione. L’Italia invece ha fatto l’opposto. Non solo ha preso atto della nuova realtà e della nuova dinamica europea - l’Europa stava uscendo dalla iniziale dimensione economica per assumere una nuova dimensione politica - ma ha assunto rispetto a tutto questo una posizione passiva, ha rimosso il vecchio criterio della condizione di sovranità e di parità e ha introdotto un criterio, per così dire, di senso unico da fuori».

Da qui il suo disegno di legge costituzionale per parificare la condizione italiana a quella tedesca?
«Se la Costituzione della Germania prevede un controllo di compatibilità delle leggi dell’Unione con quelle tedesche, perché per l’Italia ci dovrebbe essere l’importazione automatica dei materiali giuridici europei? Se è compatibile con i trattati europei la Costituzione tedesca, perché non dovrebbe esserlo anche quella italiana se allineata sul modello tedesco? L’Europa non può essere come la fattoria della animali, nella quale tutti gli animali sono uguali ma alcuni sono più uguali degli altri».

Allora ha ragione chi le dà del sovranista?
«A marzo si celebrano i 60 anni del Trattato di Roma, un grande trattato tra Stati sovrani che usando una parola antica, la parola “sussidiarietà”, devolvevano verso l’alto solo le competenze necessarie nella logica della Comunità Europea che allora si andava a costituire ma riservavano alla propria sovranità nazionale legislativa e politica nazionale tutto il resto, quello che si pensava potesse e dovesse essere fatto al meglio nei singoli Stati sovrani. La parola scelta per definire il processo fu una parola politica, la parola “unione”, ma indicata con la formula “verso una unione”. Un percorso più che il nome di un corpo che allora ancora non c’era».

Ma l’Europa può avere futuro se ritornano gli Stati nazione?
«Il Trattato di Roma, un trattato tra Stati sovrani e che restavano sovrani, si basava di fatto sulla formula della “confederazione”. E questo, ora come allora, è il futuro dell’Europa. L’idea di allineare la Costituzione italiana a quella tedesca è la base necessaria per entrare in questa logica».

Altrimenti?
«Le ipotesi in alternativa sono tante. Fra queste anche la dissoluzione dell’Unione Europea, il “viene giù tutto”, come si dice. Del resto, la parola unione non è tra le più fortunate nella storia visto com’è andata a finire altrove».

Cos’è più minaccioso per la sopravvivenza della Ue, la crisi economica o quella politica?
«Quello che è certo oggi è che si è attivata una cascata di fenomeni tra di loro diversi. La dissoluzione può essere causata da singoli Stati nella dialettica con la Ue, e quindi seguendo una dinamica dalla periferia verso il centro. Ma può anche essere che all’opposto sia il centro che taglia la fune alla quale sono aggrappate alcune scialuppe».

L’origine del collasso sarà economica o politica?
«Nel catalogo dei fenomeni possono aversene di politici, elettorali, o economici. Possono esserci scelte attive unilaterali di uno Stato o derive passive, come può essere nel caso dell’incapacità dei governi di guidare i processi economici, oppure, e questo può riguardare più da vicino l’Italia, la semplice incapacità di governare la realtà. L’uscita di un Paese può essere voluta ma anche fatta accadere o semplicemente accettata attivamente da fuori. Se non come tragedia (speriamo) la storia può ripetersi, spostandosi dalla Germania anni Trenta all’Italia di oggi: uno scenario tipo Weimar può diventare la prospettiva del nostro Paese».

Cosa la preoccupa di più attualmente per il nostro Paese?
«Se manca, o se mancherà, la capacità di governo del Paese, il tracollo sarà inevitabile. Mi preoccupa, ed è sintomatico, lo scambio che sembra in atto tra la data in cui si faranno le elezioni e la data in cui si farà il bilancio pubblico. C’è chi, dopo aver governato come una cicala per tre lunghissimi anni con tutti gli astri in positivo (dai tassi, al prezzo del petrolio), oggi pianifica elezioni anticipate per non pagare il conto, girando l’onere di bilancio a chi viene dopo. Ma rimandare porterà a un grado maggiore d’ingovernabilità e le tensioni finanziarie saranno ancora più decisive. E quello della tensione finanziaria è l’habitat naturale per la crescita del populismo, che non sarà causato dai “sovranisti” ma sarà responsabilità di chi fa ruotare le regole in modo irresponsabile. E dico questo a futura memoria. Anche a prescindere dall’Europa abbiamo da finanziare e rifinanziare il terzo debito pubblico del mondo senza avere la terza economia del mondo».

Ma andare a votare subito non ci darebbe almeno un governo forte?
«No, se la scelta politica è quella di anticipare le elezioni rispetto alla legge di bilancio per non alienarsi il consenso degli elettori. Anche perché le elezioni si terrebbero con una legge elettorale che non fa vincere nessuno e quindi dopo il voto nessuno sarebbe in grado di fare la legge di bilancio. Chi provocherà questo, pur nell’ossequio formale delle leggi, si caricherà verso gli italiani di una gravissima responsabilità storica. Perché è a quel punto che l’Europa potrebbe decidere di mollarci».

di Pietro Senaldi
@PSenaldi





mercoledì 15 febbraio 2017

QUELLA VALIGETTA DI GARDINI PORTATA A BOTTEGHE OSCURE – CHI INTASCO’ IL MILIARDO DI LIRE DI TANGENTI ENIMONT DESTINATE AL PCI? FORSE LO RACCONTA NELLA NUOVA SERIE TV “1993” SU SKY – ALLA BASE DELLA MAXI MAZZETTA GLI SCONTI FISCALI PROPOSTI ANCHE DAL PCI A FAVORE DELLA FUSIONE DELL’ENI CON LA MONTEDISON – CHI POTEVA SAPERLO SI E’ SUICIDATO (O L’HANNO SUICIDATO?)

15 Febbraio 2017
Maurizio Tortorella per La Verità

VIA DELLE BOTTEGHE OSCURE
Volete conoscere l’ultima novità sulle tangenti rosse? Aspettate la prossima primavera. Dicono che la nuova serie televisiva 1993, che allora andrà in onda su Sky, finalmente svelerà uno dei più grandi misteri del capitolo sinistrorso di Mani pulite. E cioè l’identità di chi, nel dicembre 1989, intascò il famoso miliardo di lire in contanti che Raul Gardini, imprenditore ravennate, portò in una valigetta a Botteghe oscure, mitica sede romana del Pci-Pds. Volete sapere come finirà?

1988 walter veltroni achille occhetto
1988 WALTER VELTRONI ACHILLE OCCHETTO
Se fosse vero il nome che si sussurra, Massimo D’Alema potrà agevolmente chiedere danni per 1 miliardo di euro, visto che nell’aprile 1994 una sentenza (di primo grado, ma poi il reato è andato prescritto e il processo è finito) ha stabilito che effettivamente Gardini aveva finanziato illecitamente quel che restava del disciolto Pci, per ringraziarlo di avere agevolato in Parlamento un regalo fiscale da 800 miliardi all’Enimont, la società nata dalla fusione tra la sua Montedison e la chimica dell’Eni.

GABRIELE CAGLIARI RAUL GARDINI
Quella sentenza, però, disse anche che il destinatario era impossibile da individuare. Perché a quel punto, purtroppo, Gardini non poteva più parlare, visto che era morto suicida nel luglio 1993. E c’erano testimonianze processuali molto precise sul miliardo, ma troppo vaghe sul destinatario finale: fu detto che i soldi erano stati portati in una valigetta «al secondo o al quarto piano» di Botteghe Oscure; e che Gardini «aveva contatti diretti con il segretario del partito, Achille Occhetto, e con D’Alema». Stop.

Così la sentenza, alla fine, decise che «il destinatario non era semplicemente una persona, bensì quella forza di opposizione che aveva la possibilità di risolvere il grosso problema (fiscale, ndr) di Gardini». Un garantismo inusitato, visto che Bettino Craxi, con gli stessi elementi per i soldi destinati al Psi, fu condannato. Craxi «non poteva non sapere». I comunisti, invece, sì.

MASSIMO D\'ALEMA
Sono davvero tanti, e grandi, i misteri rimasti appesi al capitolo delle tangenti rosse, emerse 25 anni fa con il crollo della prima Repubblica: servirebbe un’enciclopedia, per elencarli. Una cosa è sicuramente vera, e cioè che le tangenti del Pci-Pds furono più difficili da colpire, per magistrati e inquirenti. Il sistema di finanziamento occulto del Pci era identico a quello degli altri partiti, ma avveniva in modo più furbo. Perché una cosa è ricevere una mazzetta, e con quella pagare i funzionari di partito; ma cosa ben diversa è incassare ricche e lecite sponsorizzazioni per le feste dell’Unità , oppure ottenere «in prestito» il lavoro di migliaia di dipendenti e funzionari, i cui stipendi vengono pagati dalle cooperative rosse.

PRIMO GREGANTI FOTOGRAMMA
C’è un’altra verità: anche i magistrati (e non erano tanti) che avevano voglia d’indagare a fondo sulle tangenti del Pci-Pds si trovavano di fronte indagati che non collaboravano. Non parlavano, nemmeno se arrestati. Mai. Tipico rappresentante di tanta durezza fu il torinese Primo Greganti , il granitico «Signor G»: il funzionario del Pci e poi del Pds, che fu arrestato a Milano nel marzo 1993, un anno dopo lo scoppio di Tangentopoli, e condannato definitivamente a tre anni di reclusione per corruzione nel marzo 2003.

MARCELLO STEFANINI
Negli anni Ottanta e Novanta Greganti aveva lasciato le impronte su molti affari, pubblici e privati, sempre agendo in nome e per conto del partito. Aveva intascato, per esempio, tangenti per 1,2 miliardi di lire destinate al Pci-Pds dal gruppo Ferruzzi in cambio degli appalti Enel. Ma il Signor G contrastò quell’accusa: restò in cella a San Vittore per cinque o sei mesi, e difese il Partito sostenendo di avere millantato in suo nome. I soldi, Greganti, li aveva presi per sé.

Fu un punto cruciale dell’inchiesta, che a quel punto rischiava di abbattersi come un treno sul tesoriere del Pci-Pds, Marcello Stefanini, presunto destinatario della somma. La storia sarebbe cambiata. Ne era più che consapevole il segretario Achille Occhetto, il quale dichiarò enfaticamente che se gli fosse arrivato un avviso di garanzia sarebbe stato «un colpo di Stato», e che «i compagni sarebbero scesi nelle piazze».

ANTONIO DI PIETRO MAGISTRATO
Su Greganti indagava il sostituto procuratore milanese Tiziana Parenti, poi divenuta parlamentare di Forza Italia. Ma il capo del pool Mani pulite, il procuratore aggiunto Gerardo D’Ambrosio (che nel 2006 sarebbe stato eletto deputato per i Democratici di sinistra, eredi del Pci-Pds), scovò la prova che scagionò dall’accusa di finanziamento illecito il Signor G e soprattutto Stefanini. D’Ambrosio condusse un’indagine parallela e «con un colpo di fortuna» trovò un preliminare d’acquisto per un immobile in via Tirso, a Roma.
craxi mani pulite
CRAXI MANI PULITE

In quella scrittura privata, siglata nel giugno 1991, Greganti s’impegnava a versare al venditore più di un miliardo di lire. Il documento, insomma, «assolveva» Stefanini perché forniva una plausibile spiegazione sulla destinazione dei soldi: non erano finiti nelle casse del Pci-Pds, ma nella casa di Greganti. Inutilmente Tiziana Parenti cercò di contrastare con la logica la verità salvifica di D’Ambrosio: perché mai il Signor G, prima che in cella gli fosse stata mostrata la copia di quel contratto, non aveva mai accennato alla carta che invece lo avrebbe così facilmente scagionato dall’accusa di finanziamento illecito e gli avrebbe evitato mesi e mesi di carcere? Non servì a nulla.
parenti tiziana
PARENTI TIZIANA

Greganti e Stefanini uscirono di scena e il Pci-Pds si salvò. Eppure c’era un terzo elemento, se possibile ancora più strano e anomalo. Quasi tutti, in questo strano Paese, lo hanno sempre ignorato. Nel 1993 Greganti si era difeso accusandosi di avere allegramente fregato un miliardo e 200 milioni, soldi di una corruzione che aveva incassato per sé, mentre chi li versava era sicuro fossero destinati al Pci - Pds. Ma allora come mai, almeno per altri otto anni, è rimasto ufficialmente in affari con il Partito e con i suoi eredi politici? È stato così fino al giugno 2001, quando è andata in fallimento la Eipu, una società che raccoglieva pubblicità per le feste dell’Unità . Greganti ne era azionista, e la Eipu era controllata dalla Sevar, la società editoriale dei Democratici di sinistra, che ne controllava direttamente l’80 per cento.
ANTONIO DI PIETRO SAVERIO BORRELLI GERARDO DAMBROSIO
L’ultima stranezza è che Stefanini venne interrogato nel settembre 1993 dai magistrati del pool Mani pulite, a Milano, e dichiarò loro di aver «interrotto i rapporti con la Eipu di Greganti» già alla fine del 1989. E fu incredibilmente creduto. Greganti, va detto, fu poi celebrato come un eroe in vari congressi e manifestazioni pubbliche dei Ds. Alla fine, serenamente, aveva ottenuto anche la tessera del Partito democratico. Ormai settantenne, il Signor G è infine riemerso giudiziariamente il 7 maggio 2014, quando è stato riarrestato per le corruttele su certi lavori di Expo 2015, a Milano.

GERARDO DAMBROSIO CI PENSA
Secondo gli inquirenti, il suo ruolo era «coprire a sinistra » la distribuzione degli appalti, coinvolgendo le grandi cooperative rosse. Greganti è stato in cella fino all’8 agosto, ovviamente tacendo. Poi, il 26 novembre 2014, ha patteggiato 3 anni di reclusione ed è nuovamente uscito di scena, dignitoso e granitico come sempre. Proprio come nel 1993, tutti i suoi vecchi compagni, e cioè gli esponenti del disciolto Pci che nel frattempo sono trasmigrati nel Pd, hanno fatto finta di non sapere chi fosse o di non vederlo da decenni.

D’Alema lo ha velenosamente ricordato come il vecchio millantatore di Tangentopoli: «Già 20 anni fa usava tangenti chieste in nome del Pci-Pds per comprarsi la casa». Povero Greganti… Cinque giorni dopo il suo arresto, la sezione del Pd di San Donato Torinese gli aveva perfino sospeso la tessera, e il segretario della «cellula» si era detto certo che avesse fatto «tutto per sé e non per il partito». Chissà se gliel’hanno mai restituita.

PUBBLICO PER ARCHIVIO, NON PER CONDIVISIONE: Giuliano Pisapia presenta il manifesto di "Campo progressista"

Apre ufficialmente la nuova casa della Sinistra. “Campo progressista” il movimento fondato dall’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, rompe i sigilli e lancia la sua proposta. Martedì nella sua città il battesimo ufficiale mentre per l’11 marzo è stata convocata a Roma la convention nazionale. Un movimento che nasce dal basso, aperto, con l’ambizioso obiettivo di unire le forze progressiste del Paese. In esclusiva su Huffington Post il manifesto politico, il programma per l’Italia.

Abbiamo bisogno di Buona Politica. 
Siamo convinti sia arrivato il tempo di un cambiamento per il nostro Paese. Un cambiamento che sfidi le disuguaglianze, la povertà, la precarietà. Che risponda alla domanda di futuro che emerge dal cuore dell’Italia. Un cambiamento che si prenda cura dell’ambiente, dell’accoglienza, della giustizia sociale. Che valorizzi l’ascolto e l’empatia, che favorisca il confronto e la partecipazione.
C’è bisogno di una nuova speranza. 
I muri tornano a innalzarsi, le differenze dividono ed escludono, la disperazione è un sentimento sempre più diffuso. Troppe forze progressiste europee oggi sembrano concentrate solo sulla compatibilità dei conti economici, dimenticando vite e passioni. Anche per questo avanzano i populismi e le destre: per fermarli non basterà costruire un fronte politico “di sistema” che faccia argine. Serve aprire una nuova stagione. Un nuovo centrosinistra che si assuma la responsabilità del governo, per includere e per ridistribuire ricchezza e opportunità. Questa forza – non solo politica, ma sociale e civica – può nascere solo in netta discontinuità con le scelte di questi anni.
C’è bisogno di una nuova agenda politica.
In Italia e in Europa non saranno gli slogan a restituire futuro e opportunità, ma politiche sociali e fiscali che tutelino i più deboli. Per affrontare la disoccupazione e la precarietà, le disuguaglianze che producono povertà ed esclusioni sociali soprattutto nel Mezzogiorno, la gestione dei flussi migratori, la questione ambientale e l’uso sostenibile delle risorse, serve un programma di cambiamento condiviso e realizzabile, costruito dal basso e capace di coinvolgere competenze e intelligenze di questo Paese, da Nord a Sud. Serve ricostruire coesione sociale a tutti i livelli. Serve restituire ai corpi intermedi la loro preziosa funzione. Serve innovare le relazioni democratiche.
C’è bisogno di un nuovo modo di fare politica.
Il cambiamento non si impone dall’alto. Serve una politica gentile, capace di aprirsi e favorire la partecipazione di donne e uomini. Che sposti il proprio epicentro dalla televisione al territorio. Che prediliga il dialogo, la forza delle parole e delle idee agli insulti e agli slogan. Servono forze e protagonismi nuovi, a partire delle tantissime esperienze locali e associative che si rendono utili alla collettività disinteressandosi del clamore effimero e delle ambizioni personali. Non è più tempo di leader mediatici, aggressivi e solitari.
C’è bisogno di un campo nuovo, ampio, contemporaneo, utile. Campo Progressista.
Vogliamo costruire una rete su tutto il territorio Italiano. Esperienze politiche, associative, culturali. Progressiste, democratiche, ecologiste, civiche. Unite nell’esigenza di dare vita a una storia radicalmente inedita. Non un partito o un cartello elettorale, ma una leva che valorizzi le risorse positive esistenti e ne liberi di nuove. Avvertiamo l’inadeguatezza e il logoramento degli schieramenti politici attuali che non intercettano quello che pure esiste: un’Italia che ogni giorno si impegna per un Paese diverso, che crea e innova in nome dell’inclusione e della sostenibilità, che combatte i pregiudizi e il rancore sociale. Che è sobria, concreta, salda nei valori ma pragmatica e non settaria. Insieme a quest’Italia lanciamo un processo costituente partecipato e aperto a tutti coloro che sono alla ricerca di una nuova “casa”.
Insieme vogliamo fare la nostra parte per ridare speranza a questo Paese. Una storia nuova che inizia e alla quale vi invitiamo a aderire. Per costruire insieme il nostro programma per l’Italia.
Vi aspetto sabato 11 marzo 2017 a Roma con Campo Progressista.
Giuliano Pisapia
Pubblicato: Aggiornato: 

martedì 14 febbraio 2017

Un inedito di Bettino Craxi: «Ecco cosa fu Tangentopoli»

A partire da martedì prossimo, fino a sabato, il Dubbio pubblicherà il memoriale di Craxi

Nel febbraio di venticinque anni fa ( esattamente il 17 febbraio) nasceva Tangentopoli. Cioè iniziava quell’inchiesta giudiziaria, chiamata “Mani pulite”, condotta da un pool di magistrati i cui nomi sono ancora oggi molto noti ( Di Pietro, Davigo, Colombo, D’Ambrosio, Ielo, coordinati dal Procuratore Borrelli) che in pochi mesi avrebbe raso al suolo la Prima Repubblica, cancellato partiti democratici radicatissimi, come la Dc e il Psi ( oltre a vari partiti più piccoli), eliminato leader di grande statura, riformato profondamente e ridimensionato tutta la politica italiana.
I numeri di quella inchiesta sono impressionanti. Più di 20 mila avvisi di reato, più di quattromila arresti, una decina di suicidi. Tutti tra esponenti alti e medio- alti del mondo politico e imprenditoriale. Alla fine ci furono un migliaio di condanne. Che indubbiamente sono tante, ma sono anche poche se si considera la quantità di persone travolte dall’inchiesta e poi risultate innocenti. Più o meno 19 mila.
Tra i condannati, molti hanno continuato a reclamare la propria innocenza. E tra questi il più famoso di tutti, e anche il più combattivo, è stato Bettino Craxi.
Sapete che Craxi nel 1994 si rifugiò in esilio in Tunisia. E lì trascorse gli ultimi sei anni della sua vita. Pochi mesi pima di morire, nella speranza che il parlamento si decidesse a varare una commissione di inchiesta su Tangentopoli, Craxi scrisse un memoriale di 24 pagine che poi non fu consegnato a nessuno, perché la commissione di inchiesta non fu mai formata, forse per pigrizia, più probabilmente per non sfidare la magistratura, che non gradiva.
Così il memoriale di Craxi, che doveva essere una relazione da consegnare alla commissione parlamentare, è rimasto in questi anni alla fondazione Craxi. La quale gentilmente, in occasione di questo anniversario, ci ha concesso di pubblicarlo. Lo faremo, sul Dubbio, a partire da martedì prossimo, suddividendolo in cinque puntate: una puntata al giorno, fino a sabato.
Si tratta di un documento inedito, molto interessante, e di valore storico assoluto. Perché ricostruisce la vera struttura di Tangentopoli. E cioè racconta di come la Repubblica italiana, dall’inizio della sua vita, nel 1945, ha visto la propria struttura politica principale – costituita dai partiti – finanziata permanentemente in modo illegale o irregolare. E di come questa metodologia fosse da tutti ben conosciuta e da tutti accettata. Nel mondo politico, nel mondo dell’economia, nella magistratura. Perché allora il problema fu sempre ignorato? Perché nessuno aveva mai voluto mettere le mani sulla questione, molto complicata, del finanziamento dei partiti. Per superare il finanziamento illegale c’erano solo due strade: realizzare un robusto e adeguato finanziamento pubblico, che rendesse inutile il finanziamento illegale, oppure abolire i partiti. Fu scelta la seconda via.
Craxi descrive in modo dettagliato i costi della politica democratica, e poi racconta la natura dei finanziamenti ( che erano e non potevano essere che ingenti) dagli anni 40 in poi: potenze straniere, enti pubblici, impresa privata. E ragiona anche su come, almeno in parte, questi finanziamenti condizionassero le scelte dei partiti, sia sul terreno delle politiche economiche sia della politica estera.
La lettura del memoriale- Craxi pone, quasi 20 anni dopo la sua morte, alcune domande molto serie e anche difficili. Provo a riassumerle in modo schematico 1) Se è vero – e non mi pare che nessuno mai abbia nemmeno provato a smentire questo dato – che tutta la politica, per quasi cinquant’anni, è stata finanziata illegalmente, perché solo nel 1992 la magistratura ha deciso di intervenire?
2) Se è vero che tutta la politica era finanziata illegalmente, perché furono colpiti solo i partiti di governo, e in particolare il Psi?
3) Se è vero, come oggi dice il dottor Davigo, che i finanziamenti illegali sono continuati per anni, e ancora continuano, come mai nel 1994, e cioè dopo che Bettino Craxi era stato abbattuto, “Mani pulite” si fermò? Craxi era un obiettivo speciale per il pool milanese? La sua sconfitta fu considerata un risultato sufficiente per il successo dell’inchiesta?
4) La scelta di affrontare il finanziamento illecito dei partiti coi “bulldozer”, che provocò di fatto la fine del partito politico – di massa, democratico e popolare – che avevamo conosciuto fino ad allora, fu sostenuta in qualche modo da forze estranee alla magistratura ( forse economiche, editoria, giornali) che erano interessate a nuove forme, leaderistiche e personalistiche, di politica, che riducessero al minimo il tasso democratico, e semplificassero il processo decisionale e il rapporto tra politica e altri poteri?
Per ora ci fermiamo a queste domande. Nei prossimi giorni, pubblicando il memoriale di Bettino Craxi, cercheremo di aprire la discussione su questi argomenti. Forse il fatto che sia passato un quarto di secolo può consentire, oggi, una discussione vera, senza tabù, per capire davvero cos’è successo, perché è successo, se tutto quello che è successo è stata una grande opera di giustizia o di ingiustizia.
“La pioggia di rubli sul Pci non si è mai fermata”
Pubblichiamo in esclusiva la terza puntata del Memoriale scritto nel 1999 da Bettino Craxi su Tangentopoli.

 bettino-craxi
In materia di finanziamento estero il Pci, divenuto poi Pds, a differenza degli altri Partiti, aveva organizzato una vera e propria struttura permanente che nel corso dei decenni, si è venuta costantemente ampliando e perfezionando sì da garantire dei flussi di finanziamento costanti che rappresentavano una parte certamente rilevante delle sue entrate.

Il potere sovietico, anche nei momenti di incomprensione e di difficoltà nei suoi rapporti con il Pci e le sue elaborazioni politiche, sia pure diffidandone, ha sempre continuato a considerare il Partito Comunista italiano come il suo principale alleato occidentale. In nessun altro Paese dell’Occidente un partito comunista era mai del resto riuscito a realizzare un così forte radicamento popolare e ad esercitare una così grande influenza come il Pci in Italia.

La sua posizione era considerata di essenziale importanza anche perché si trattava di un Paese di frontiera dell’Alleanza Atlantica. Tra l’Urss e il Pci si mantenne vivo un legame storico profondo che tale rimase anche quando si erano allargate le maglie dell’autonomia del movimento comunista italiano e si era venuto modificando il rapporto di stretta obbedienza ideologica e politica rispetto al potere sovietico, e la stessa Urss aveva preso a finanziare frazioni interne del Pci.

Restava comunque la sistematica continuità e l’ampiezza degli aiuti finanziari che non sono mai venuti a mancare. Questi contributi provenivano direttamente dal Pcus e, a partire dal ’ 74, da una apposita organizzazione alimentata con fondi dell’Urss e dagli altri Paesi del Patto di Varsavia. Provenivano da interventi specifici del Kgb e da Servizi Segreti collegati.

Provenivano da altre entità ed istituzioni sovietiche compresa la “Croce Rossa”. Si trattava di aiuti finanziari e di altre forme di solidarietà attraverso la erogazione gratuita di servizi sanitari, di ospitalità politica e turistica, di servizi culturali, di formazione accademica e professionale ed anche di specializzazione in vari campi, ivi compresi attività di natura spionistica e clandestina. Ma la parte di gran lunga più rilevante proveniva dalle attività di import- export, dirette, indirette, partecipate e dalle commissioni sui grandi lavori effettuati da imprese italiane in Urss e nei Paesi del Comecon.

Era anche in ragione di questo sostegno straordinario che proveniva, con un flusso costante, dal blocco politico- militare avverso al blocco politico- militare di cui faceva parte il nostro Paese, che il maggior Partito di opposizione poteva contare su strutture burocratiche partitiche permanenti che non avevano l’eguale in nessun altro Paese del mondo non comunista, e poteva parimenti contare su risorse certamente all’altezza se non superiori a quelle di qualsiasi altro Partito Italiano di governo e non.

Nello scontro politico non mancava un fattore anomalo.

Risulterà infatti anche storicamente accertato il comportamento di totale cinismo di gruppi economici ed industriali di primo piano del nostro Paese che, perseguendo il loro particolare interesse e, in taluni casi, anche in violazione delle norme concordate in sede di Alleanza Atlantica, alimentarono la possibilità di finanziamento dei comunisti italiani, contribuendo ad accrescere in tal modo la distorsione dei rapporti nella vita democratica nazionale. Non c’è dubbio, del resto che il finanziamento estero assicurato ai comunisti italiani era di natura tale da provocare, in questo campo, il moltiplicarsi delle reazioni, in un certo senso convenzionali, delle formazioni politiche di Governo.

Le leggi sul finanziamento pubblico dei partiti che si proponevano di riportare ordine nella materia, di regolarla, di assicurare un sostegno pubblico sostitutivo dei sistemi di finanziamento irregolare che si erano venuti sempre più diffondendo, in realtà non riuscirono affatto a modificare di molto la situazione.

Mentre da un lato infatti i Partiti potevano contare su di un contributo annuale certo anche se delimitato, dall’altro si trovavano sempre di fronte ad un aumento crescente dei fabbisogni e delle spese.

I contributi dello Stato erogati sulla base della legge erano d’altra parte già in partenza del tutto inadeguati e per di più non indicizzati. Con il passare del tempo l’incidenza ed il valore del contributo pubblico si venne così progressivamente ridimensionando.

In rapporto ai contributi erogati dallo Stato ai Partiti politici in altre democrazie europee, per esempio la Repubblica Federale tedesca, il contributo italiano appariva di gran lunga inferiore e largamente in-suffi-ciente. Dal canto loro invece le spese continuavano ad aumentare.

Era il portato stesso dello sviluppo della società burocratica, dall’estendersi delle reti di informazione e dei servizi mentre si moltiplicavano le varie articolazioni e strutture necessarie per l’efficacia della propaganda e mentre contemporaneamente crescevano anche gli stimoli verso la spettacolarizzazione della politica, e la connessa competitività per la conquista del consenso.

La ricerca di mezzi finanziari per sostenere ed alimentare le attività politiche in tutte le loro diverse espressioni, invece di ridursi, era sollecitata ad allargarsi, sia ripercorrendo le vie consuete che individuandone di nuove. In questo modo finivano con l’ampliarsi anche aree contigue ed oscure entro le quali questa ricerca di mezzi finanziari, fatta in nome e per contro dei partiti, spesso si trovava ad agire in modo incontrollato e difficilmente controllabile. E, all’interno di aree oscure, diventava molto difficile impedire il diffondersi, in livelli diversi, di degenerazioni e di corruttele di molteplice natura.

Bisogna considerare inoltre che all’aumento continuo delle spese corrispondeva da un altro lato una progressiva riduzione delle entrate tradizionali ordinarie e cioè quelle derivanti dalle quote associative e dalle sottoscrizioni volontarie. Talune spese erano peraltro di natura tale da non poter essere fatte oggetto di riduzioni. Per esempio le spese per il personale. Queste non potevano essere quasi mai ridotte. Di fronte a misure di riduzione, intervenivano pretori sempre pronti ad imporre le riassunzioni del personale. I sindacati per parte loro avevano ottenuto la introduzione nei partiti del contratto del commercio, e data la sua improprietà, in aggiunta anche di un contratto integrativo aziendale. A ciò si aggiunga che, almeno per quanto riguarda il Psi, l’Amministrazione centrale venne chiamata a rispondere, subendo ripetute condanne, anche del personale liberamente assunto da organizzazioni periferiche e da loro retribuito.

La riduzione delle entrate d’altro canto si poneva in parallelo con una società del benessere che, facendosi strada con gli stili propri di un consumismo sempre più diffuso, con le sue più ampie libertà, e con gli spazi vitali occupati dal video e dallo spettacolo, riducevano il valore e la portata associativa dell’entità tradizionale e tipica del Partito.

Un tempo la vita associativa del Partito, per i suoi aderenti, se non era tutto rappresentava certo moltissimo. Il Partito non era solo uno strumento di lotta politica e di lotta elettorale ma rispondeva a bisogni associativi, sociali, culturali, umani.

Entrando in una nuova fase l’associazionismo partitico, seguendo la sorte che deriva da una più generale evoluzione, perde di peso, si riduce, si isterilisce. Dalla nuova società che avanza vengono offerte altre opportunità ed altre possibilità di incontri, di attività, di iniziativa personale e di gruppo.

La struttura Partito, soprattutto nelle grandi città, tende generalmente a trasformarsi. Succede così che il suo ruolo cambia, mentre la vita interna si rianima e rinasce solo e soprattutto in funzione delle fasi elettorali e pre- elettorali. Nell’area partitica prende contemporaneamente corpo un nuovo fenomeno negativo.

Paradossalmente infatti mentre da un lato si riduce e si isterilisce il ruolo associativo dei partiti, e quindi l’attività dei suoi membri, dall’altro tende ad aumentare il numero degli iscritti. E’ il segno inequivocabile di una degenerazione che penetra nella vita dei Partiti, o almeno in una parte importante del sistema partitico e in particolare di quello di governo.

(continua)

venerdì 10 febbraio 2017

Caffè: i dieci comandamenti per gustarlo come gli italiani (secondo gli inglesi)

Il vademecum del quotidiano The Telegraph per chi arriva in Italia e, inevitabilmente, commette degli errori davanti alla tazzina fumante.

di IRENE MARIA SCALISE

Un tempo si diceva che gli italiani si riconoscevano all'estero perché indossavano le scarpe Superga. Uno straniero che arriva in Italia, invece, è immediatamente smascherato per come ordina e, soprattutto, beve il caffè. E così il giornale inglese The Telegraph ha tracciato i dieci comandamenti su come gustare un caffè in Italia senza scandalizzare baristi e commensali.

Il latte solo al mattino.
Per chi vive in Italia tutto ciò che è cappuccino, latte macchiato, bevanda a base di latte con aggiunta del caffè va bevuto entro le 10 del mattino. Non è concepito, infatti, bere latte e affini dopo pranzo o dopo cena. E, se proprio non potete farne a meno almeno scusatevi con il barman.
 
Fare ordinazioni semplici.
Non esagerare con le stravaganze al momento dell’ordinazione. Dimenticate frappuccini, caffè alla menta o simili amenità. Le due sole eccezioni sono il caffè alla nocciola e il marocchino (caffè macchiato con latte e una spruzzata di cacao).
 
Non dire mai espresso.
Non abusare della parola espresso. In Italia è scontato che il caffè che si sta per ordinare sarà espresso. Una sorta d’impostazione predefinita che non richiede ulteriori precisazioni.
 
Il caffè doppio.
Chiunque può ordinare un caffè doppio se pensa di averne bisogno ma deve sapere che non è un’abitudine made in Italy. Gli italiani, infatti, preferiscono prendere più caffè nel corso della giornata che una dose massiccia una sola volta al giorno.
 
Pagare alla cassa dopo aver bevuto.
Nei bar italiani regna la fiducia verso il cliente. Il che vuol dire che senza declamarlo ad alta voce si può ordinare il caffè al bar e poi, dopo averlo consumato, pagarlo alla cassa.
 
Eccezioni nei pagamenti. 
Se ci si trova in un luogo di transito come aeroporto e stazioni il rito del pagamento e della consumazione va invertito. Prima si paga la consumazione e poi, sventolando il fogliettino tra la folla, allora si può chiedere la tazzina fumante al barista.
 
Posti in piedi.
Per quanto piacevole il caffè si consuma velocemente, quasi fosse un buon farmaco. E come tale va bevuto velocemente e in piedi davanti al bancone.
 
Caldo ma non troppo.
Il caffè, sempre in virtù del fatto che va bevuto in tempi rapidi, viene servito a una temperatura tra il tiepido e il caldo. Troppo rovente infatti impegnerebbe un tempo eccessivo per berlo. Se però lo si vuole molto caldo basta chiederlo.
 
Le eccezioni consentite.
Cappuccino e caffè latte, caffè macchiato o latte macchiato, espresso con un goccio di latte o un latte caldo con un goccio di caffè (ricordate, la mattina solo); caffè corretto, caffè freddo o cappuccino freddo, caffè Lungo o un caffè ristretto, eventuale aggiunta di acqua (calda) nel tuo caffè espresso

mercoledì 8 febbraio 2017

La guerra delle Generali nasce nell’Italia dei Medici


Alla fine del ’400 nascevano lo stato e la finanza moderni e i banchieri italiani finanziavano il pericoloso Risiko europeo

Pubblicato il 08/02/2017
ALBERTO MINGARDI
In Italia le grandi partite economico-finanziarie diventano spesso vicende di potere, calibrate pensando a complessi equilibri dentro e fuori la penisola. Così, il tentativo di Intesa San Paolo di assicurarsi il controllo delle Generali, roba da far tremare i polsi agli azionisti, sembra proiettarsi sullo sfondo di una più ampia guerra di posizione fra Axa e Allianz, giganti dell’assicurazione che capitalizzano una il doppio l’altra più del triplo della compagnia triestina.


Il passaporto non dovrebbe influenzare le scelte di mercato, dove contano progetti e piani industriali, e alla fin fine chi, più credendo nei propri, più è disposto a pagare. Ma che il destino finanziario della penisola si compia al di fuori da esso non è una novità.

Era già così quando l’Italia era politicamente frammentata, instabile, eppure una terra di coraggio imprenditoriale e innovazione finanziaria senza pari. Guicciardini riconobbe che «non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità» quanto alla fine del 1400, alla vigilia delle guerre d’Italia. Il reddito pro capite era fra i più alti in Europa, e lo sarebbe rimasto fino agli inizi del 1600. Mentre si agglutinano i primi Stati nazionali territoriali (la Francia di Luigi XI, la Spagna dei re cattolici, l’Inghilterra di Enrico VII), nella penisola c’è una sorta di seconda età dell’oro della città-stato. Secondo Jean Baechler (Le origini del capitalismo), «il fatto che la civiltà europea sia passata attraverso la fase della città stato è la spiegazione principale del divario tra la storia d’Europa e quella dell’Asia». Forse è anche in ragione di questa particolare cornice istituzionale che l’Italia dell’epoca ospita mercanti e prestatori di denaro che controllano fiere e traffici in tutto il continente. Quanto pervasiva fosse la presenza degli italiani ce lo ricorda il ritratto che il pittore fiammingo Jan van Eyck fece dei coniugi lucchesi Arnolfini. Le vicende dei banchi italiani non potevano che intrecciarsi con quelle della statualità nascente: ansiosi i re di procacciarsi denaro, e i banchieri di prestarlo loro.

I legami personali, le relazioni fra uomini della corte e dirigenti delle grandi banche influenzavano le allocazioni di credito, segnavano due percorsi diversi ma paralleli: la nascita della finanza moderna, l’emergere della moderna sovranità.

La filiale di Londra del Banco dei Medici esagerò coi prestiti a Edoardo IV, per ottenere in cambio il permesso di esportare lana con esenzione da dazi doganali. Le condizioni della filiale londinese del Banco andarono peggiorando al punto da causare una «disastrosa liquidazione», come la definì, nel suo magistrale Il banco Medici dalle origini al declino, Raymond De Roover.

Tommaso Portinari, il rappresentante mediceo nelle Fiandre, legò a doppio filo il proprio destino a quello del duca di Borgogna, il re senza corona dei Paesi Bassi. A capo della famiglia Medici era Lorenzo, noto a ogni liceale per il Trionfo di Bacco e Arianna, ma che non aveva né la tempra né il genio finanziario del nonno Cosimo. Per quanto la banca raccomandasse di non aver rapporti con le corti ed evitare investimenti oltremodo incerti, Portinari strappò un via libera a prestar denaro a Carlo il Temerario, eccedendo tuttavia i limiti che gli erano stati indicati. Egli «aveva trasgredito gli ordini e sacrificato gli interessi del banco Medici per soddisfare la propria vanità». La situazione della filiale di Bruges degenerò al punto che Lorenzo il Magnificò preferì ritirarsi dall’azienda mentre Portinari, per aggrapparsi alla speranza di rientrare dei prestiti accordati sino ad allora, finì per concederne altri, all’arciduca d’Austria e reggente dei Paesi Bassi Massimiliano, «il peggior debitore tra tutti i principi d’Europa».
A Lione, città alla quale Luigi XI aveva riconosciuto notevoli privilegi per insidiare il primato delle fiere di Ginevra (i mercanti erano totalmente liberi di rimettere fondi all’estero e tutte le monete, nazionali e estere, potevano circolare al loro valore di mercato, così che erano i mercanti stessi a fissarne il corso, liberi da asfissianti ordinanze), i fiorentini avevano sia attività commerciali che creditizie. Questa forte presenza fece sì che essi, come i banchieri tedeschi, cominciassero a finanziare il debito francese. Ma le guerre per il primato europeo fra Asburgo e Valois erano costosissime, e nel 1555 Enrico II fu costretto a trovare un accordo con i creditori per consolidare i suoi debiti a breve termine, allungandone le scadenze e contrattando con un vero e proprio consorzio di banche, nelle quali, per numerosità, dopo le tedesche venivano fiorentine e lucchesi. L’idea era quella di sostenere il debito con più solide garanzie, ma all’ingordigia della monarchia non si riuscì a far fronte.

Ogni tanto i sovrani erano un buon affare. Dopo la prima bancarotta di Filippo II, i genovesi s’insediarono in Castiglia dedicandosi sempre di più agli «asientos», contratti coi quali i prestatori si impegnavano a rendere regolari i pagamenti esterni del governo spagnolo, di solito con promessa di rimborso in argento proveniente dalla Americhe. Attività che irritò i mercanti locali e che provocò qualche rovescio: per esempio con la bancarotta del 1575, «una manovra spagnola ordinata contro i genovesi» come scrisse Fernand Braudel, che a Genova coincise con la rivolta dei «nuovi ricchi» contro i «vecchi ricchi». Per quanto fossero impensieriti dai tumulti politici, i genovesi riuscirono a rinsaldare la propria presa sulle finanze del re cattolico per almeno mezzo secolo: i successivi default (quasi uno ogni quindici anni) non colsero più alla sprovvista la città di San Giorgio.

Le scelte dei banchieri in Italia, quelle dei sovrani in Europa, sono state a lungo legate. Ma se nel Rinascimento eravamo l’indispensabile culla della modernità capitalistica, oggi tutta l’Europa, inclusa l’Eba (l’Autorità bancaria europea) con la sua proposta di una bad bank continentale, cerca di evitare il crollo finanziario dell’Italia e delle sue banche. O almeno di salvare i pezzi pregiati dal naufragio.

SCIENZA - Perché alcune persone non sopportano il rumore di chi mastica? La misofonia porta chi ne soffre a malessere e scatti di rabbia quando sente particolari rumori: ora ne sappiamo qualcosa di più

Il rumore di chi mastica per alcune persone è insopportabile, a tal punto da spingerle ad allontanarsi da chi sta mangiando o sta semplicemente masticando un chewing gum. Chi ne soffre non vive semplicemente una sensazione di fastidio, ma soffre di un vero e proprio malessere che talvolta sfocia in rabbia e reazioni violente. Il disturbo da cui sono affette queste persone si chiama “misofonia”, letteralmente “odio per il suono”, una condizione che porta a non sopportare alcuni tipi di rumore, non necessariamente legati alla masticazione (anche se è il caso più ricorrente). Il termine misofonia è recente, risale appena al 2000: la condizione non è quindi molto conosciuta e ci sono ancora poche informazioni in letteratura scientifica per spiegarla e per diagnosticarla.
Fino al 2013 sulla misofonia erano stati pubblicati solamente un paio di studi. Negli anni seguenti, grazie al lavoro di alcuni ricercatori come Miren Edelstein e V. S. Ramachandran della University of California (San Diego), le ricerche hanno portato a nuovi importanti risultati. Si è per esempio scoperto che ci sono alcuni particolari suoni che innescano reazioni “combatti o fuggi” (“fight-or-flight”), nelle quali cioè l’organismo si prepara rapidamente a reagire producendo ormoni come l’adrenalina e il cortisolo, che hanno il compito di preparare all’azione fisica aumentando la frequenza cardiaca, quella respiratoria e il tono muscolare. Questa reazione istintiva è utile nel caso in cui si debba essere pronti a fuggire, per mettersi in salvo, o ad attaccare ciò che costituisce un pericolo immediato.
Una nuova ricerca da poco pubblicata su Current Biology dà qualche nuovo elemento per comprendere dal punto di vista neurologico la misofonia. Lo studio è stato svolto da Sukhbinder Kumar della Newcastle University, in collaborazione con altri ricercatori, e ha previsto una serie di test su 20 volontari con forme gravi di misofonia e 22 persone senza questa condizione, usate come gruppo di controllo. A entrambi i gruppi sono stati fatti ascoltare rumori neutri come quello della pioggia che cade, rumori più fastidiosi come il pianto di un bambino e infine rumori noti per attivare reazioni nei misofonici, come il rumore di chi mastica o di un respiro pesante.
Le reazioni ai suoni neutri e fastidiosi sono state più o meno uguali nei due gruppi, mentre come prevedibile i rumori di gente che mastica e simili hanno avuto un consistente effetto sui misofonici: è stato rilevato un aumento del loro battito cardiaco e della conduttanza cutanea (variazione della resistenza elettrica della pelle), chiari segni di una reazione “combatti o fuggi”.
I test sono stati eseguiti mentre il cervello dei volontari era sottoposto a una risonanza magnetica, un esame non invasivo per vedere attraverso i tessuti interni dell’organismo, così come le radiografie fanno con le ossa. La risonanza ha reso evidente nei misofonici una maggiore attività del lobo dell’insula, un’area del cervello coinvolta nei processi di selezione delle cose cui prestare attenzione. Quest’area è inoltre legata da un’intricata serie di connessioni con altre aree del cervello che regolano le nostre emozioni e la memoria. I ricercatori hanno inoltre rilevato una maggiore attività nella corteccia prefrontale ventrocentrale (vmPCF), coinvolta nell’elaborazione del rischio e della paura, con ulteriori ruoli nei processi che inibiscono le risposte emotive.
Il nuovo studio è importante perché mostra come si innescano nel cervello le reazioni dovute alla misofonia, anche se non è ancora possibile spiegarne con chiarezza le cause. La speranza dei ricercatori è che possa ispirare nuove ricerche nel campo, con l’obiettivo di offrire soluzioni più efficaci per diagnosticare la condizione e trattarla.
Per ora le persone con una diagnosi di misofonia non ricevono trattamenti molto efficaci: il consiglio è di evitare il più possibile le fonti dei rumori che portano alle reazioni e al malessere, oppure di coprire questi suoni ascoltando musica con le cuffie nei contesti in cui non si può tenere altrimenti sotto controllo il problema. Sono state sperimentate terapie che prevedono l’ascolto ripetuto e per gradi dei rumori che innescano una reazione, ma non è una soluzione condivisa da tutti i medici: secondo alcuni peggiora la situazione, perché sensibilizza i misofonici e li rende solo più abili nel riconoscere e distinguere i rumori che causano malessere e attacchi di rabbia.
Un report pubblicato nel 2015 e realizzato da George Bruxner, Caboolture Hospital (Queensland, Australia), dice che l’80 per cento dei rumori che suscitano una reazione nei misofonici sono legati alla bocca: masticazione, sbadiglio, rumore di saliva e deglutizione. Nel 60 per cento dei casi sono rumori ripetitivi. Le persone con misofonia sono consapevoli di soffrire di questa condizione e sanno anche che non è qualcosa di normale, cosa che fa ipotizzare l’assenza di problemi prettamente psichici. I misofonici sono anche consapevoli di avere una condizione che limita la loro vita, a tal punto da rendere più difficile la convivenza con altre persone e il mantenimento di rapporti sociali stabili.