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domenica 31 dicembre 2017

Egregio signore/a, sarebbe così gentile da rispondere a qualche domanda?....

Egregio signore/a, sarebbe così gentile da rispondere a qualche domanda? Se lei è così sicuro che la “Palestina” sia stata fondata molti secoli fa, ben prima della presenza degli ebrei e abbia lasciato tracce nella storia, beni culturali da conservare, eredità da difendere, certamente lei sarà in grado di rispondere alle seguenti domande:
Quando è stata fondata e da chi?
Quali erano i suoi confini?
Qual era la sua capitale?
Quali erano le sue città più importanti?
Qual era la base della sua economia?
Qual era la sua forma di governo?
Può citare almeno un leader palestinese prima di Arafat e di Amin Al Husseini, il muftì di Gerusalemme amico di Hitler?
La “Palestina” è stata mai riconosciuta da un paese la cui esistenza a quel tempo non lascia spazio a discussioni?
Qual era la lingua parlata nello stato di Palestina prima degli ebrei?
Avevano un sistema politico? Il loro sovrano portava un titolo? C’era un parlamento o un consiglio? Hanno combattuto delle battaglie?
C’è un qualche libro palestinese prima del Novecento? Può nominare uno scrittore palestinese, un pittore, uno scultore, un musicista, un architetto palestinese prima di tale data?
Esiste un piatto tipico palestinese, che lei sappia? Un costume caratteristico?
Che religione aveva la Palestina prima di Maometto?
Qual era il nome della sua moneta? Ne esistono degli esemplari in qualche museo?
Scelga pure una data nel passato anche recente e ci dica: qual era il tasso di cambio della moneta palestinese nei confronti del dollaro, yen, franco, ecc.?
Poiché questo paese oggi non esiste, può spiegare la ragione per cui ha cessato di esistere? E può specificarne la data di estinzione?
Se la sua organizzazione piange per il destino dei poveri palestinesi “occupati”, mi può dire quando questo paese era orgoglioso e indipendente?
Se le persone che, a torto o a ragione, chiamate palestinesi non sono solo una collezione di immigrati dai paesi arabi e se davvero hanno una identità definita etnica che assicura il diritto di autodeterminazione, mi sa spiegare perché non hanno cercato di essere indipendenti dai paesi arabi prima della devastante sconfitta nella Guerra dei Sei Giorni? Perché datano l’”occupazione” dal ’67, se prima i “territori palestinesi” erano governati da stati “non palestinesi” come l’Egitto e la Giordania?
Le ho fatto tante domande, mi auguro che potrà rispondere almeno a qualcuna. Finisco solo con una nota: spero che lei non confonda i palestinesi con i Filistei, che erano una popolazione marittima di lingua indeoeuropea (i popoli del mare) che fecero un’invasione in terra d’Israele, come anche in Egitto e nell’attuale Libano verso il nono secolo a.C. Il solo rapporto è l’invenzione romana che dopo la distruzione del Tempio, nel I secolo, ribattezzò quelle terre per spregio con il nome di un antico nemico dei ribelli ebrei. L’etimologia non è storia.
Altre domande scomode
Come mai non è nato uno Stato palestinese tra il ’48 e il ’67?
E poi un’altra domanda: come sono stati trattati i profughi palestinesi dai fratelli arabi prima e dopo il ’67, dopo ma anche prima sottolineo?
Conoscete gli orrori del “Settembre nero” in Giordania? Conoscete il ruolo della Siria nel massacro del campo di Tal el Zatar?
Ma soprattutto: sapete che se i palestinesi avessero accettato il piano di spartizione dell’Onu, oggi avremmo due popoli e due Stati? Non c’era bisogno di tante guerre e tanto spargimento di sangue se gli arabi e i palestinesi avessero accettato il diritto degli ebrei ad avere uno Stato. Questo pochi lo sanno. Pochi lo vogliono sapere.
E’ possibile che 20 anni dopo Oslo, miliardi di dollari, miliardi di euro, aiuti da tutto il mondo, compreso Israele, l’Autorità Palestinese non sia stata capace di costruire un solo ospedale moderno, una qualsiasi struttura e continui a piangere miseria? Questa è la domanda che molti si fanno, per “molti” intendo le persone pensanti, non certo i pacifisti filopalestinesi o i sinistri antisraeliani che continuano il boicottaggio contro Israele, accecati dall’odio e dalla loro criminale ideologia. Allora?
Qualcuno sa dirmi dove sono finiti i miliardi e perché l’ANP (per non parlare di Gaza) pullula di villone con piscina di proprietà dei capi e capetti palestinesi mentre non esiste un ospedale degno di questo nome, non esistono università se non quelle dove si allevano amorevolmente giovani fanatici destinati a diventare possibili terroristi, (es.: Bir Zeit)?
Qualcuno sa dirmi perché, letteralmente affogati, alla Paperon de’ Paperoni, nei miliardi che il mondo manda da decenni all’ANP, miliardi che avrebbero potuto ricoprire d’oro ogni casa palestinese e rendere ricco ogni singolo abitante, miliardi che avrebbero potuto costruire ospedali e atenei all’avanguardia, la popolazione palestinese vive male e chi ha bisogno di cure serie deve venire in Israele o andare in qualche altro paese disposto ad accoglierli e a curarli gratis?
Alcune persone dicono che gli arabi sono “nativi palestinesi”, mentre gli ebrei sono “invasori” e”colonizzatori”. Quindi, io ho letto le biografie dei leader israeliani e palestinesi e sono diventato confuso.
Ecco chi tra i leader israeliani e palestinesi è Nato il in Palestina:
Leaders israeliani:
BENJAMIN NETANYAHU, Nato il 21 ottobre 1949 a Tel Aviv.
EHUD BARAK, Nato il 12 febbraio 1942 a Mishmar HaSharon, Mandato britannico della Palestina.
ARIEL SHARON, Nato il 26 febbraio 1928 a Kfar Malal, Mandato britannico della Palestina.
EHUD OLMERT, Nato il 30 settembre 1945 a Binyamina-Giv’at Ada, Mandato britannico della Palestina.
ITZHAK RABIN, Nato il 1 March 1922 a Gerusalemme, Mandato britannico della Palestina.
ITZHAK NAVON, Presidente israeliano nel 1977-1982. Nato il 9 aprile 1921 a Gerusalemme, Mandato britannico della Palestina.
EZER WEIZMAN, Presidente israeliano nel 1993-2000. Nato il 15 giugno1924 a Tel Aviv, Mandato britannico della Palestina.
Leader arabi “palestinesi”:
YASSER ARAFAT, Nato il 24 agosto 1929 al Cairo, Egitto.
SAEB EREKAT, Nato il 28 Aprile 1955, in Giordania. Ha la cittadinanza giordana.
FAISAL ABDEL QADER AL-HUSSEINI, Nato il 1948 a Bagdad, Iraq.
SARI NUSSEIBEH, Nato il 1949 a Damasco, Siria.
MAHMOUD AL-ZAHAR, Nato il 1945 al Cairo, Egitto.
Quindi i leader israeliani, che sono nati in Palestina, sono colonizzatori o invasori.
Mentre i leader arabi palestinesi che sono nati in Egitto, Siria, Iraq e Tunisia sono nativi palestinesi????
(autore ignoto, pubblicato su Rights Reporter nel 2015)

venerdì 29 dicembre 2017

Riassunti di Storia, dalla preistoria alla Roma imperiale: Roma e le Guerre Sannitiche


By studiarapido
Roma e le Guerre Sannitiche

Le guerre sannitiche non furono guerre come le altre. Nella tradizione romana le guerre sannitiche rivestono il carattere di un’epopea, e in effetti si trattò di uno scontro durissimo che gli storici suddividono in tre distinti momenti.

343-341 a.C., la prima guerra sannitica – I Sanniti erano una popolazione italica che abitava in origine gli Appennini meridionali. Nel V secolo a.C. una parte di essi scese verso le coste della Campania e dovettero confrontarsi con i Romani, con i quali stipularono un patto di amicizia nel 354 a.C.
Undici anni dopo, nel 343 a.C. i Sanniti occuparono la città di Capua, che chiese aiuto a Roma. Roma scese in campo perchè tanto i Romani quanto i Sanniti erano interessati al controllo della Campania, regione fertile e ricca.
La prima delle tre guerre sannitiche fu breve e si concluse con la rinuncia dei Sanniti alla Campania.

326-304 a.C., la seconda guerra sannitica – Nel 328 a.C. i Romani fondarono la colonia di Fregelle, presso l’odierna Ceprano, nella valle del Liri, in una posizione strategica molto importante; nel 326 occuparono Napoli sbarrando quindi ai Sanniti qualsiasi espansione verso la costa. I Sanniti reagirono riaprendo le ostilità.
La seconda delle tre guerre sannitiche fu estenuante e sanguinosa, dall’esito a lungo incerto. I Sanniti, infatti, erano militarmente preparati, muniti di armature leggere per non intralciare la velocità di movimento e schierati in formazioni flessibili, seppero sfruttare la conoscenza e l’abilità di combattimento sul loro territorio montuoso (gli Appennini). Proprio in seguito a uno di questi difficili scontri avvenne l’episodio delle Forche Caudine (321 a.C): i Romani, accerchiati dai Sanniti nella gola di Caudio, presso l’odierna Benevento, dovettero arrendersi e i soldati, gli ufficiali e anche i consoli dovettero passare disarmati sotto un giogo formato da lance sannite. Per Roma si trattò di una scottante e umiliante sconfitta.
Ci furono alcuni anni di tregua, che Roma sfruttò al meglio:
– riorganizzò il suo esercito: le legioni passarono da due a quattro e la tradizionale struttura oplitica, cioè la fanteria pesante adatta a scontri frontali in campo aperto, fu sostituita da un’organizzazione più agile, basata su trenta manipoli di due centurie ognuno;
– perseguì una strategia di accerchiamento dei Sanniti, attraverso l’alleanza militare con popolazioni confinanti (Apuli, Marsi, Peligni) e la fondazione di colonie ai confini del territorio nemico;
– costruì la prima grande via militare di Roma, la via Appia, che poteva convogliare rapidamente rifornimenti e truppe da Roma a Capua.
Le ostilità si riaprirono nel 316 a.C. e, dopo alterne vittorie e sconfitte, i Sanniti chiesero la pace nel 304 a.C., ponendo fine alla seconda delle tre guerre sannitiche.

298-290 a.C., la terza guerra sannitica – La guerra riprese nel 298 a.C. e su scala più ampia, dato che i Sanniti strinsero un’alleanza con Etruschi, Galli Senoni e Umbri.
Roma, però, impedì che gli avversari congiungessero le loro forze e infatti le due vittorie romane fondamentali avvennero una al nord e una a sud: la prima a Sentino (295 a.C.), nelle odierne Marche, la seconda ad Aquilonia (293 a.C.), nel Sannio.
Nel 290 a.C. i Sanniti si arresero e stipularono una pace che li rendeva alleati di Roma.

giovedì 28 dicembre 2017

L’Italia scelse lo Stato di diritto

COSTITUZIONE/ 1


Il 22 dicembre del 1947 Umberto Terracini proclamò l’approvazione della Costituzione italiana. I voti favorevoli, a scrutinio segreto, furono 453, i contrari 62. Era lunedì. Cinque giorni dopo, e cioè sabato 27 dicembre, appena passato Natale ( il terzo dopo la fine della guerra) la Costituzione fu promulgata dal capo provvisorio dello Stato, Enrico de Nicola. Esattamente 70 anni fa. 70 anni fa nacque la Costituzione L’Italia scelse lo Stato di Diritto
Poi la Costituzione entrò in vigore a partire dal giorno di Capodanno del 1948, anno terribile, di scontri asperrimi proprio tra le forze che erano state, insieme, protagoniste della scrittura della Costituzione. E cioè da una parte i democristiani e i liberali, che uscirono vincitori da quegli scontri, e dall’altra parte i comunisti e i socialisti, sconfitti severamente alle elezioni del 18 aprile, e poi colpiti ancora, in luglio, dall’attentato a Togliatti.
Enrico de Nicola era un avvocato napoletano, 70 anni, liberale, che aveva fatto politica prima del fascismo, aveva presieduto la Camera fino alle elezioni del 1924, e poi si era ritirato dalla politica rifiutando il seggio alla Camera. Umberto Terracini, 52 anni, genovese, anche lui avvocato, era uno dei fondatori del partito comunista ( insieme a Gramsci, Bordiga e Togliatti), era stato arrestato dai fascisti nel 1926 e tra carcere e confino aveva trascorso 17 anni. Terracini aveva assunto la Presidenza della Costituente nel gennaio del 1947, in seguito alle dimissioni di Giuseppe Saragat, che aveva rinunciato all’incarico per prendere la guida del partito socialdemocratico ( nato dalla scissione socialista). Terracini era un comunista dalle idee molto libere, era stato espulso dal Pci, negli anni trenta ( quando era al confino) per anti- stalinismo, ma poi era stato riammesso da Togliatti. Negli ultimi anni della sua vita, pur restando comunista, aveva preso la tessera del partito radicale. È poco conosciuta, oggi, la sua figura, ma è stato un personaggio interessantissimo e di gigantesca statura morale e intellettuale.
La Costituzione repubblicana è costituita da 139 articoli più le disposizioni transitorie. È divisa in tre parti. I principi generali, e cioè i primi 12 articoli, poi la prima parte ( fino all’articolo 54) che definisce i diritti e i doveri dei cittadini, e infine la seconda parte che stabilisce l’ordinamento dello Stato.
Il testo è frutto delle idee dell’antifascismo e del compromesso tra tre grandi componenti: quella liberale, quella cattolica, e quella socialcomunista. Molti articoli subiscono fortemente le idealità della sinistra, che talvolta coincidono e talvolta sono tollerate bene dalla componente cristiana, e accettate dai liberali che, nel 194647 avevano un peso ridotto rispetto alle sinistre e ai cristiani. Basta dare uno sguardo agli articoli sull’iniziativa privata e sulla proprietà privata e si intuisce subito il compromesso tra liberali e sinistre ma anche il peso culturale molto forte delle idee marxiste.
La Costituzione ha un elemento comune, che la tiene insieme, che ne è l’anima: l’idea del diritto e dei diritti come chiave di volta della politica, della lotta politica, della modernità. Lo stato di diritto, la fortissima affermazione dello Stato di diritto come idealità comune. Che tiene sullo sfondo la lotta di classe e le ideologie, che pure, in quegli anni, erano molto molto forti.
Quando si dice che la Costituzione è la più bella del mondo ( non saprei, francamente, se sia vero) ci si riferisce a tanti diversi aspetti della Costituzione. Il modo nel quale definisce il lavoro, l’aspirazione all’uguaglianza sociale, il disegno istituzionale. Negli ultimi tempi è stato considerato come tratto caratteristico della Costituzione persino il bicameralismo. Non si coglie invece, spesso, il suo aspetto d’insieme e la sua sostanza. E cioè la capacità di assemblare tutte le spinte – liberali, libertarie, cristiane, egualitarie – dentro una costruzione che mette sempre al primo posto i diritti e la realizzazione concreta della democrazia e dello sviluppo della libertà.
Non è vero che la Costituzione è il comune denominatore di tutta la politica italiana. Tutt’altro. Esistono forze e anche pezzi di istituzioni che non amano la Costituzione. O ne amano alcune parti, ma non l’insieme. Oggi, anzi, viviamo un contrasto fortissimo tra lo spirito pubblico ( diciamo: il senso comune largo e dominante) e la Costituzione. Il prevalere, nello spirito pubblico, di una forte tensione giustizialista, è in contrasto aperto e in guerra costante con la Costituzione. L’aspirazione allo Stato etico – che vive nei mass media, in alcuni partiti, in tutto il fronte populista, in pezzi larghi della magistratura è esattamente il contrario dello spirito della Costituzione. Che è nata proprio a questo scopo: cancellare l’aspirazione allo Stato etico che aveva caratterizzato il fascismo e il nazismo.
La Costituzione è intoccabile? Evidentemente no. Sicuramente è possibile modificarla, migliorarla. Sia per quel che riguarda l’assetto di governo, che forse è stato sempre il suo punto debole – perché nasceva in un clima nel quale il timore principale era quello di un governo forte, che potesse in qualche modo assomigliare al fascismo, o alla dittatura – sia per molte questioni che riguardano i rapporti tra poteri. Terracini, nel suo discorso di annuncio dell’approvazione della Costituzione, si soffermò proprio su questo punto: la distinzione tra poteri e la definizione dei loro compiti. Disse che al Parlamento toccava fare le leggi, al governo applicarle e alla magistratura controllarne l’applicazione. Possiamo dire che oggi questo principio sia realizzato? Non assistiamo, per esempio, a continue invasioni di campo della magistratura sul potere legislativo ed esecutivo? E certamente ci sono molti problemi che riguardano anche la giurisdizione, il rapporto tra avvocati e magistrati, dopo la riforma del codice di procedura, che ormai ha quasi trent’anni, e che in gran parte è inattuata. Avremo, il prossimo anno, tutto il tempo e lo spazio per discutere di questo.
Ma tutto ciò non vuol dire che la Costituzione non sia un pilastro, saldo e ben piantato della nostra civiltà. Che va difeso. E che va fatto conoscere, nelle sue regole e nei suoi principi. Un partito politico che nel suo programma scrivesse semplicemente: “attuazione della Costituzione e della carta dei diritti che sottintende”, sarebbe un partito davvero nuovo, moderno. Al momento, però, non ce n’è traccia.

lunedì 25 dicembre 2017

Di Lutero oggi non si sa che farsene Douthat sull’anniversario della Riforma protestante. Scrive il New York Times

“Del cinquecentesimo anniversario della Riforma protestante, il mondo occidentale non sa che farsene” ha tuonato sul New York Times il giornalista cattolico Ross Douthat. “Dal punto di vista del liberalismo ufficiale, gran parte dei padri riformatori erano dei fondamentalisti bigotti, a volte persino peggiori dei cattolici cui si opponevano. Quindi, affinché le ribellioni luterane e calviniste siano degne di essere ricordate, dev’essere per le loro finalità secolarizzanti: la liberazione dell’individuo dalle catene dell’autorità religiosa, il fiorire della ricerca scientifica e del capitalismo, la laicizzazione della politica e infine il trionfo del liberalismo.
   
Al centro di questa propaganda campeggia una semplice storia sull’autorità e sull’individuo. Prima di tutto, secondo la storia, il protestantesimo sostituì l’autorità della chiesa con l’autorità della Bibbia. Poi, quando divenne ovvio che nessuno riusciva a mettersi d’accordo su cosa fosse l’autorità della Bibbia, l’autorità della coscienza divenne preminente, e da lì si entrò naturalmente – pur con qualche resistenza sanguinaria da parte di alcune fazioni reazionarie – nell’epoca della libertà, della democrazia e dei diritti umani. Il problema con questa storia è che come tutte le forme di propaganda cancella alcuni concetti selettivamente, e tratta l’esperienza di alcuni fortunati gruppi come unità di misura di una realtà molto più complessa. La Riforma e le sue guerre hanno certamente diminuito l’autorità religiosa, hanno certo secolarizzato la politica e permesso ad alcune forme di individualismo di fiorire. Ma hanno anche rafforzato le nuove grandiose divinità del mondo moderno: l’imperante mercato e lo stato centralizzatore (da cui poi, paradossalmente, sono state sfruttate e bistrattate). Il liberalismo laico paga sicuramente un implicito tributo alla possibilità di un rinascimento cristiano, il desiderio di cui sta oggi tornando in auge, in parte come risposta agli orrori a cui la politica laica ci ha portato nell’ultimo secolo. Perché, in fondo, che cosa sono tutte queste nostre istituzioni pan-nazionali, dalle Nazioni unite all’Unione europea, tutto questo fiorire di ong, se non un tentativo di ricreare quel tipo di potere ecclesiastico, una nuova forma di sovranità clericale fondata su idee più sottili, meno dogmatiche eppure essenzialmente metafisiche: il valore della dignità umana e dei diritti umani? Il mondo moderno offre molti doni, e il fatto che i cattolici e i protestanti oggi vivano insieme senza spargimenti di sangue è certamente uno di questi. Ma credere che questa divisione fosse necessaria per ottenere un finale di storia felice, laico e liberale è come credere di sapere come la storia andrà finire, anche se questa stessa storia ci ha già dato innumerevoli forme di tirannia come di grandi libertà, e il prezzo di questo esperimento moderno è stato pagato con milioni di morti di cui nessuno si ricorderà mai”.

domenica 24 dicembre 2017

Ecco la lista dei grandi debitori insolventi di Mps

 di Carlo Festa e Fabio Pavesi  11 Gennaio 2017
Nella lista nera dei grandi debitori morosi, che hanno affossato Mps portandola a cumulare 47 miliardi di prestiti malati, ci sono nomi eccellenti dell’Italia che conta. Dai grandi imprenditori, agli immobiliaristi, al sistema delle coop rosse fino alla giungla delle partecipate pubbliche della Toscana. Il parterre è ecumenico sul piano politico. Centro-sinistra, Centro-destra pari sono. Del resto per una banca guidata per decenni da una Fondazione espressione della politica era quasi naturale l’arma del credito come strumento di consenso e di scambio.
Tra i protagonisti di spicco più emblematici, come ha ricostruito Il Sole24Ore, figura sicuramente la famiglia De Benedetti e la sua Sorgenia. Emblematica per dimensioni e per quel ruolo innaturale che ha svolto Mps. La Sorgenia si è indebitata per 1,8 miliardi con il sistema bancario. La sola Mps, chissà come, si è caricata di ben un terzo di quel fardello. Seicento milioni erano appannaggio del solo istituto senese che ha fatto lo sforzo più ingente rispetto al pool di 15 istituti che avevano finanziato la società elettrica finita a gambe all’aria. I De Benedetti capita l’antifona della crisi irreversibile non si sono resi disponibili a ricapitalizzare come da richiesta delle banche. Alla fine il «pacco» Sorgenia è finito tutto in mano alle banche che hanno convertito l'esposizione creditizia in azioni. E Mps si ritrova ora azionista della Nuova Sorgenia con il 17% del capitale. Per rientrare dal credito prima o poi, occorrerà risanare la società e venderla. Oggi Sorgenia è tra gli incagli di Mps. Non solo, nel 2015 la banca ha svalutato i titoli Sorgenia per 36 milioni di euro.
Ma Mps da anni si porta dietro (insieme ad altre banche) anche la fiducia accordata a Luigi Zunino. L’ex immobiliarista rampante cumulò debito con il sistema bancario per 3 miliardi. Tuttora la sua ex Risanamento è inadempiente con Mps che ha, sempre nel 2015, svalutato titoli in portafoglio per 11,6 milioni. Tra i grandi incagli di Siena ecco spuntare anche un altro nome di spicco.
È Gianni Punzo azionista di peso di Ntv e patron e ideatore dell’interporto di Nola, la grande infrastruttura logistica del meridione. Da tempo la Cisfi, la finanziaria che sta in cima al complesso reticolo societario è in affanno per l’ingente peso debitorio. Anche qui le banche Mps in testa hanno convertito parte dei prestiti in azioni. Mps è oggi il primo socio della Cisfi sopra il 7% (con Punzo al 6,1%).
Anche la Cisfi Spa che recepisce la crisi dell’interporto di Nola è un incaglio per Mps che ha titoli in pegno svalutati anch’essi per 11 milioni a fine del 2015. Ed ancora la ex banca di Mussari deve tuttora metabolizzare il disastro della BTp, il general contractor della ditta Bartolomei-Fusi, che aveva in Verdini un grande sponsor, protagonista più delle cronache giudiziarie recenti che di quelle economiche.
Dal dissesto del contractor delle grandi opere toscano è rinata la Fenice Holding. Anche qui Mps se la ritrova in portafoglio in virtù dei prestiti non ripagati. Tra gli immobiliaristi come non citare Statuto che ha visto pignorato il suo Danieli di Venezia su cui Mps (con altri) aveva ingenti finanziamenti.
E c’è il capitolo amaro della Impreme della famiglia di costruttori romani Mezzaroma che hanno portato i loro guai in casa Mps. E poi residua a bilancio dal 2007 il disastroso progetto immobiliare abortito di Casalboccone a Roma eredità dei Ligresti che vede Mps azionista (in cambio dei crediti non pagati) con il 22% del capitale. Il capitolo Coop vede Mps protagonista della ristrutturazione del debito di Unieco.
Tra i dossier immobiliari c’è il finanziamento di alcuni fondi andati in default: come un veicolo gestito da Cordea Savills, finanziato con eccessiva leva da Mps, che aveva in portafoglio gli ex-immobili del fondo dei pensionati Comit. Ma Mps ha finanziato anche alcuni dei fondi di Est Capital, società finita in liquidazione che gestiva il progetto del Lido di Venezia.
E infine c’è il capitolo della partecipate pubbliche. Mps è inguaiata con pegni o titoli in Scarlino Energia; Fidi Toscana; Bonifiche di Arezzo; l’Aeroporto di Siena e persino le Terme di Chianciano. La banca si ritrova a fare l’imprenditore di società in crisi quando avrebbe dovuto solo fare la banca.

mercoledì 20 dicembre 2017

De Rita: «Dove nasce l’odio? Nasce lì, nei giornali…»

"IL DUBBIO"
Francesco Lo Dico
19 Dec 2017 12:21 CET

La riflessione sull’odio portata avanti dal nostro giornale, dopo l’iniziativa del Cnf per il G7 dell’avvocatura, continua con l’intervista al fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, che proprio di recente ha parlato della società del rancore.

«Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia, è un delinquente», amava ripetere Bertolt Brecht. Un adagio che ben si accompagna ai trombettieri delle fake news e ai mestatori in servizio permanente effettivo nelle sentine dei social. Dalla testata di Spada a Ostia alle testate che ogni giorno si abbattono, non meno spregevoli, sulla dignità di cose e persone, è stato un crescendo. L’onda anomala del disprezzo ha travolto istituzioni, ong, calciatori. Ma anche migranti, donne, star e politici stessi, al di là di ogni ragionevole dubbio, e spesso in direzione ostinata e contraria alla verità delle cose. Così che l’iniziativa lanciata a settembre dal Consiglio nazionale forense contro il linguaggio dell’odio, sembra aver assunto – di linciaggio in linciaggio – il carattere di una premonizione. Di quel clima violento segnalato tre mesi fa dal Cnf al G7 dell’avvocatura, e combattuto con vigore su queste pagine da autorevoli interlocutori, l’Italia del rancore descritta di recente dal Censis appare la cartina di tornasole. Tanto che Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Centro studi che da più di mezzo secolo racconta il Paese, tiene a riconoscere al Dubbio un impegno costante ma solitario. «È l’unico giornale italiano – sottolinea il sociologo – che combatte l’odio e la deriva giustizialista che trionfano invece sul resto dei quotidiani nazionali, a colpi di titoloni e mostri in prima pagina che durano il tempo di un giorno, servono a fare qualche spicciolo in più, ma rovinano per sempre la vita agli sfortunati protagonisti della gogna».

Presidente, perché l’Italia e i giornali che oggi ben la rappresentano, è diventata la terra del risentimento?

Le ragioni che lo spiegano sono molteplici. Ma in primo luogo, si può ben dire che l’Italia del rancore descritta nel nostro rapporto è figlia di un incidente storicamente provato. Dopo aver garantito a milioni di persone prospettive di vita migliore negli anni 70, 80 e 90, il nostro ascensore sociale si è bloccato. Così che moltissimi italiani sono rimasti sospesi a mezza strada: non raggiungono il prestigio sociale che desiderano, non diventano qualcuno, e nonostante studi e sacrifici non hanno stipendi migliori né promozioni in vista. E questo li rende frustrati e risentiti: il rancore collettivo è il lutto per quel che non è stato.

Anche i lutti più dolorosi non durano per sempre: l’Italia può uscire dalla rabbia e dalla rassegnazione?

Il ciclo formidabile che per cinquant’anni ha garantito al Paese un certo grado di benessere si è concluso. Di fronte alla crisi, l’eredità di quella stagione prospera ci ha consentito di resistere ma al prezzo di vedere congelata la nostra condizione. Da tempo siamo entrati in una fase transitoria, che può essere superata soltanto con un cambio di prospettiva deciso. Un nuovo paradigma in grado di rompere le molte inerzie che hanno fermato l’ascensore sociale: l’inerzia dell’economia sommersa, l’inerzia delle piccole e medie imprese, l’inerzia del ceto pubblico e dell’urbanizzazione della popolazione.

Eppure la ripresa economica, seppure di entità modesta, è stata finalmente riagganciata da un anno a questa parte. Perché ancora non riesce a tradursi in benefici concreti per la nostra società?

È molto semplice: la nostra è una ripresa per pochi, trainata da pochi. Ne sono protagoniste alcune medie imprese manifatturiere, realtà di respiro internazionale legate alla logistica e industrie vocate all’export che hanno tirato a ritmo indiavolato anche grazie agli specifici incentivi dell’Industria 4.0. Ma in parallelo, è stato fatto molto poco per far ripartire le botteghe dietro l’angolo. Il mercato interno, decisivo per le sorti della maggioranza degli italiani, non ha ripreso slancio. Invece di prenderla di petto, la questione è stata presa di sguincio grazie ai bonus per casalinghe e dipendenti che non hanno funzionato: la maggior parte degli italiani, insomma, non è tornata a sorridere ed è perciò rimasta rancorosa.

È forse questo il limite che non ha premiato l’azione del governo Renzi. C’è un problema di errata percezione politica, dietro l’odio che alimenta la grancassa delle forze populiste?

Il problema di questi ultimi anni è evidente. Prima di agire, chi governa dovrebbe capire quali sono le attese. Ma la politica ha fatto l’esatto contrario. Prima ha fatto gli interventi, e poi li ha comunicati nell’idea che, se venivano presentati bene, andassero incontro ai desideri della gente. Dire che hai dato tanti soldi ma che la campagna di comunicazione non ha funzionato, è un suicidio mediatico e intellettuale. Significa ammettere che dietro le misure non c’era una strategia lungimirante di rilancio, ma solo l’idea che per scatenare la ripresa dei consumi bastasse la propaganda.

E invece si è scatenata ancora di più la rabbia sociale che trova nel linguaggio dell’odio di Lega e Cinque Stelle.

L’ascesa delle forze populiste non è recente. La forza del rancore si è accresciuta negli ultimi dieci anni, quando l’opinione pubblica ha scelto di montare sul cavallo dell’anti- casta, a prescindere da ragioni di appartenenza politica. Non si tratta più di attaccare la casta per motivazioni ideologiche come accadeva negli anni 50, o in funzione di una strategia economica come avveniva al tempo delle liberalizzazioni di Berlusconi e di Bersani. Contro la casta si è scatenato un odio cieco e totalizzante, che ha unificato i risentimenti di tutti gli indignati e ha fatto perdere di vista i veri problemi che alimentano l’insoddisfazione.

Dice quindi che chi oggi miete consensi sull’odio per gli avversari politici, per i migranti, per le riforme domani non sarà capace di placare al governo il risentimento sul quale hanno lucrato?

Dico che fare politica in nome della semplice idea di abbattere i privilegi è inutile e illusorio: la storia insegna che abbattuta una casta, ne arriva subito un’altra. Il problema del Paese non è nella casta, ma nella classe dirigente che oggi è priva di professionalità e strategia, non ha il senso del futuro e non è all’altezza dei suoi compiti. Tolta di mezzo la casta, la classe dirigente resta quella che è. Ecco perché sostenevo poc’anzi che per uscire dalla spirale dell’odio occorre un ciclo, anche breve, di radicale rinnovamento.

E come si potrebbe, dato il generale scadimento che descrive?

La politica non è un’arte. La politica è un mestieraccio. Ed è proprio degli odiati mestieranti che ha bisogno prima di tutto. Bisogna ridare spazio a chi ha fatto gavetta nei comuni e nelle sezioni di provincia, riaprire le porte a chi il mestiere lo conosce davvero. Ricordo ancora quello che gridava nelle stanze l’ex ministro Francesco Compagna: “Ladri li vogliamo, ma bravi! ”.

È un tema che ci porta dritti a un’altra variazione sul tema dell’odio. Non è stata forse la furia giustizialista di Tangentopoli a innescare un simmetrico populismo penale che oggi dai tribunali irrompe sui giornali e sui social?

Non sono, come è noto, un nemico dei giornali. Ma devo dire che ci sono ampie responsabilità dei giornalisti, dietro la cultura della politica poliziesca che ha scelto come agenda quotidiana il casellario giudiziario. Molti procuratori coltivano rapporti privilegiati con certa carta stampata, nella banale necessità di mostrare la sera, agli altri soci dei loro Rotary club, di aver fatto qualcosa di importante di cui sui giornali si parla in termini allarmanti. Ai giornalisti del Dubbio va tuttavia il mio attestato di stima: sono i paladini solitari di un’inversione di tendenza che richiede coraggio. Per ristabilire l’equilibrio di giudizio, occorre che i giornali si impongano di rinunciare a qualche copia, in nome di valutazioni più approfondite e intellettualmente oneste.

L’odio e la sproporzione sono dunque gli effetti collaterali di pure strategie commerciali, o c’è anche una matrice culturale dietro la deriva giustizialista?

Quante volte leggiamo che Tizio rischia cinque anni di carcere, salvo poi svanire nel nulla il giorno dopo insieme alla storia allarmante di cui è il temibile protagonista? Il problema che affligge i nostri quotidiani è la smania del titolo, la logica pervasiva dell’evento. Lo aveva capito bene uno dei nuovi filosofi francesi, Jean Baudrillard. “L’evento – diceva – scava la fossa in cui verrà seppellito il giorno dopo”. Ed è proprio così. L’evento prende per un giorno tutto lo spazio possibile, poi il giorno dopo viene sepolto e nessuno se ne occupa più. Quella dei giornali è una catena di eventi che costruisce una storia evenemenziale, e cioè una storia fatta di eventi, che ha un’ottica parziale. La storia non è fatta solo di eventi. È fatta anche da processi lenti, commerciali, tecnologici, religiosi che nessuno sembra aver più voglia di indagare. È per questa ragione che in prima pagina non finiscono i fatti, ma le cose che hanno fatto “evento”. Per il giornalista è una tentazione, una coazione, quasi un obbligo. La necessità di “fare evento” alimenta ogni giorno nuovo risentimento: l’Italia del rancore.

L’Italia del rancore ha trovato nei social la sua più intensa e preoccupante bocca di fuoco: insulti e atti di sciacallaggio rivolti allo zimbello di turno diventano su Twitter trending topic, salvo poi scomparire nel nulla sostituiti da raffiche di mitra verso il prossimo obiettivo.

Nel rapporto del Censis lo abbiamo scritto chiaramente: i social sono l’arena del rancore, il Colosseo del rancore, il circo equestre del rancore. Ma allo stesso tempo osservo che i tweet indignati scompaiono nel nulla dopo pochi minuti. In fondo milioni di cinguetti che spariscono ogni giorno indicano che non servono a niente e a nessuno, se non alla piattaforma che li ospita. Il problema vero non sono i social, ma la società che li popola. Che probabilmente, tweet dopo tweet comincerà a capire quali “eventi” vale davvero la pena discutere, e quali sono invece montati ad arte per fare discutere. Io credo che valga per i social la stessa parabola che ha accompagnato i talkshow: prima hanno spopolato, poi sono diventati marginali perché sono diventati noiosi. Tutti hanno capito che erano piccoli spettacoli da cui non usciva niente di utile per la società e la politica.

Spesso però escono dai palinsesti social cose false e molto dannose che arrecano danni duraturi e riescono a influenzare la politica stessa, come dimostra il caso delle ultime elezioni negli Stati Uniti. Che idea si è fatto delle fake news, che ormai convogliano molti rancori anche nella Penisola?

È un fenomeno recente, di cui confesso di non essermi ancora fatto un’idea precisa. Sono però allo stesso tempo convinto che, da Biden a Renzi, l’argomento è stato finora trattato in modo confuso, e forse anche strumentale. Nutro per l’argomento delle bufale una certa resistenza psicologica. Ho il sospetto che, ancora una volta, quello delle fake news sia un “evento”, un argomento alla moda che come molti altri è destinato a finire nel nulla cosmico dei tweet perduti. Io credo che i social siano la patria del rancore, e che questa patria sia stata fondata dal “vaffa”. Ma credo anche che l’Italia del rancore non sia destinata a durare ancora per molto.

domenica 17 dicembre 2017

Caso Boschi e il giornalismo fondato sulla balla

«La Boschi ha mentito al Parlamento». «La Boschi ha un conflitto di interessi come lo ebbe Berlusconi». «La Boschi ha aperto una corsia preferenziale per la Banca di suo padre». Il giornalismo fondato sulla balla
Poi: «La Boschi è il Mario Chiesa della seconda Repubblica» ( cioè ha preso delle tangenti pagate in contanti, ndr).
Ancora, «La Boschi ha confessato». Vogliamo andare avanti? Massì, citiamo pure qualche grido su Consip, tipo: «Renzi ha mentito», «Il papà di Renzi ha incontrato Bocchino», «Alcuni 007 hanno cercato di bloccare le indagini su Renzi».
Beh, insomma, ce n’è abbastanza per mandare a casa Boschi, per cacciare Renzi dal Pd, e poi per aprire indagini su indagini, da parte della magistratura, firmare avvisi di garanzia a raffica, arrestare qualcuno, e infine chiedere i conti al Pd per tante nequizie, e naturalmente per mandare a casa il governo. Giusto?
Giusto, però tutte le affermazioni che abbiamo riportato tra virgolette sono false. Tutte. Completamente false. Sono affermazioni che ho ripreso da vari giornali, soprattutto dal Fatto ma non solo, oppure sono frasi pronunciate da diversi leader politici, a partire da Di Maio e dallo stesso Travaglio ( che ormai è considerato il vero capo del partito populista, cioè del partito trans– partito che sta ottenendo grandi successi, grazie anche ai due vice di Travaglio: Grillo e Salvini…).
Vediamole una ad una, visto che sono in questi giorni al centro della polemica politica. 1) Maria Elena Boschi non ha mentito al Parlamento. Ieri su questo giornale abbiamo pubblicato il testo dell’intervento che pronunciò a Montecitorio nel dicembre di due anni fa e nessuna delle cose che disse in quell’occasione è stata smentita. Né da Vegas né da nessun altro. Anzi, l’altro ieri Giuseppe Vegas ( presidente di Consob e persona che ha avuto parecchie polemiche in passato col governo Renzi del quale la Boschi ha fatto parte) ha confermato di non aver mai ricevuto pressioni da lei su Banca Etruria. Pare invece che fu lui a fare qualche pressione sulla Boschi invitandola a casa sua, da sola, alle otto di mattina. La Boschi non ci andò: ma questa è un’altra storia… 2) Sostenere ( come ha fatto con aria anche piuttosto solenne, in Tv, Marco Travaglio) che la Boschi ha un conflitto di interessi simile a quello che aveva Berlusconi, è una affermazione che rasenta la trovata comica ( non intenzionale, però).
Berlusconi, quando gli si rimproverò il conflitto di interessi, controllava personalmente tutte le televisioni private nazionali, cioè circa il 50 per cento delle televisioni italiane. E diversi giornali. Maria Elena Boschi invece possedeva 1500 euro di azioni di Banca Etruria.
1500 euro, capite? E per di più li ha persi quasi tutti. Ora, per paragonare il conflitto di interessi della Boschi e quello di Berlusconi, beh ci vuole o una dose massiccia di malafede, oppure una dose molto molto molto piccola di capacità intellettive. Propendo per la prima ipotesi.
3) La Boschi non ha aperto nessuna corsia preferenziale per suo padre. Tranne quella – diciamo così – che ha porta al licenziamento. Il governo del quale faceva parte la Boschi ha commissariato banca Etruria e mandato a casa il consiglio di amministrazione del quale il padre della Boschi faceva parte. Esempio raro, mi pare, di limpidezza. Possibile che questo nessuno lo dica?
L’altra sera, in Tv, la Boschi ha chiesto tre volte a Travaglio: «Mi dice di quali favoritismi avrebbe goduto mio padre?».
Silenzio. Totale silenzio di Travaglio.
4) La Boschi come Mario Chiesa? L’accusa l’ha lanciata Di Maio, è una accusa gravissima. Mario Chiesa era un amministratore milanese che fu beccato mentre intascava una tangente, e da lì poi partì tutta l’inchiesta su “Tangentopoli”. Maria Elena Boschi non è sospettata da nessuno, neppure lontanamente, di avere preso una tangente. È del tutto incensurata, non ha nessun avviso di garanzia ( a differenza di tanti amministratori del partito di Travaglio). Nemmeno nei momenti più cupi della lotta politica qualcuno aveva fatto ricorso a menzogne e accuse così platealmente false verso un avversario. L’unica scusante, per Di Maio, è che probabilmente non ha capito bene neanche lui cosa stesse dicendo. Ma questo non toglie nulla alla gravità di questo passo ulteriore verso l’imbarbarimento della politica.
5) «La Boschi ha confessato».
È il titolo che occupa l’intera prima pagina del Fatto di ieri.
Ovvio che per confessare bisogna aver commesso un reato, se no come fai a confessarlo? Dunque il Fatto sostiene che la Boschi ha commesso un reato e poi lo ha confessato. Naturalmente entrambe le cose sono false.
Valgono le stesse osservazioni fatte per Di Maio. E la stessa, eventuale, scusante: se Di Maio, come è noto, non conosce bene la geografia né la storia, è possibile che al Fatto zoppichino con l’italiano… 6) Infine il caso Consip, uno degli infortuni giornalistici più gravi degli ultimi trent’anni, e che tuttavia ancora viene usato – in spregio assoluto della verità – per attaccare il Pd. Le affermazioni che abbiamo riportato, all’inizio di questo articolo, su Renzi, come è noto, sono quelle contenute in una informativa dei carabinieri rivelatasi poi del tutto falsa, ma fatta filtrare, illegalmente, nelle redazioni di alcuni giornali ( in particolare il solito Fatto) e usata per una campagna di stampa contro Renzi e altri.
Non solo quando si è scoperto che le notizie erano false non c’è stato un passo indietro dei giornali e dei giornalisti colpevoli di avere costruito una campagna di stampa su notizie illegali e false. Non solo non è scattato un moto di indignazione per le probabili trame di pezzi dello Stato ( settori dei carabinieri e forse della magistratura) contro il partito di maggioranza. Ma la campagna contro il Pd è proseguita, come se nulla fosse, ignorando totalmente la falsità delle notizie.
Ecco, quando si parla di fake news si parla esattamente di tutto questo. Della costruzione di vere e proprie “realtà parallele”, false, ma che riescono, grazie alla potenza dell’ apparato informativo del quale dispongono – stampa, Tv, rete – a tenere a bada la “realtà reale” e talvolta a cancellarla del tutto, a farla sparire.
Naturalmente questo è possibile solo in un clima politico particolare. Cioè l’attuale clima politico, dove non solo il populismo reazionario si espande e cresce, conquistando fette grandi dell’opinione pubblica e dell’intellettualità, ma riesce a condizionare e ad assoggettare settori ormai vastissimi dell’informazione tradizionale. L’inseguimento del populismo è diventato una specie di carta d’identità del giornalismo italiano.
Lontano le mille miglia dalle tradizioni del grande giornalismo liberale occidentale. E chi fa le spese di questo ciclone in primo luogo è il sistema democratico, fiaccato dalla assenza di una corretta informazione, e poi sono alcune migliaia di giornalisti, che hanno una considerazione alta della propria professione, e che non possono più esercitarla. Non trovano spazio. Non vengono più nemmeno presi in considerazioni da chi comanda, da chi ha in mano il timone, dagli editori. Gli editori sembrano disinteressati ad avere giornalisti. Vogliono esecutori. Certo, se un giorno i giornalisti si ribellassero…

Feltri, la lezione in faccia al Papa (e a Di Maio): "Cosa fare la domenica? Fatevi gli affari vostri"

venerdì 15 dicembre 2017

SCHEDA - Ecco il testo della legge sul biotestamento Otto articoli su consenso informato, terapia del dolore, Disposizioni Anticipate di Trattamento (DAT)

Ecco il testo della legge sul Biotestamento, approvato in aprile dalla Camera e oggi, 14 dicembre 2017, dal Senato in via definitiva.
Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento
Art. 1.
(Consenso informato)
1. La presente legge, nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.
2. È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l'autonomia decisionale del paziente e la competenza, l'autonomia professionale e la responsabilità del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l'équipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo.
3. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefìci e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell'eventuale rifiuto del trattamento sanitario e dell'accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi. Può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia alle informazioni e l'eventuale indicazione di un incaricato sono registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
4. Il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
5. Ogni persona capace di agire ha il diritto di rifiutare, in tutto o in parte, con le stesse forme di cui al comma 4, qualsiasi accertamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso. Ha, inoltre, il diritto di revocare in qualsiasi momento, con le stesse forme di cui al comma 4, il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l'interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l'idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici. Qualora il paziente esprima la rinuncia o il rifiuto di trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica. Ferma restando la possibilità per il paziente di modificare la propria volontà, l'accettazione, la revoca e il rifiuto sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
6. Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali.
7. Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell'équipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla.
8. Il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura.
9. Ogni struttura sanitaria pubblica o privata garantisce con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei princìpi di cui alla presente legge, assicurando l'informazione necessaria ai pazienti e l'adeguata formazione del personale.
10. La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative.
11. È fatta salva l'applicazione delle norme speciali che disciplinano l'acquisizione del consenso informato per determinati atti o trattamenti sanitari.
Art. 2.
(Terapia del dolore, divieto di ostinazione irragionevole nelle cure e dignità nella fase finale della vita)
1. Il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un'appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l'erogazione delle cure palliative di cui alla legge 15 marzo 2010, n. 38.
2. Nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione delle cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati. In presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente.
3. Il ricorso alla sedazione palliativa profonda continua o il rifiuto della stessa sono motivati e sono annotati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
Art. 3.
(Minori e incapaci)
1. La persona minore di età o incapace ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione, nel rispetto dei diritti di cui all'articolo 1, comma 1. Deve ricevere informazioni sulle scelte relative alla propria salute in modo consono alle sue capacità per essere messa nelle condizioni di esprimere la sua volontà.
2. Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la responsabilità genitoriale o dal tutore tenendo conto della volontà della persona minore, in relazione alla sua età e al suo grado di maturità, e avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita del minore nel pieno rispetto della sua dignità.
3. Il consenso informato della persona interdetta ai sensi dell'articolo 414 del codice civile è espresso o rifiutato dal tutore, sentito l'interdetto ove possibile, avendo come scopo la tutela della salute psicofisica e della vita della persona nel pieno rispetto della sua dignità.
4. Il consenso informato della persona inabilitata è espresso dalla medesima persona inabilitata. Nel caso in cui sia stato nominato un amministratore di sostegno la cui nomina preveda l'assistenza necessaria o la rappresentanza esclusiva in ambito sanitario, il consenso informato è espresso o rifiutato anche dall'amministratore di sostegno ovvero solo da quest'ultimo, tenendo conto della volontà del beneficiario, in relazione al suo grado di capacità di intendere e di volere.
5. Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l'amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all'articolo 4, o il rappresentante legale della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria.
Art. 4.
(Disposizioni anticipate di trattamento)
1. Ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un'eventuale futura incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte, può, attraverso le DAT, esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Indica altresì una persona di sua fiducia, di seguito denominata «fiduciario», che ne faccia le veci e la rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie.
2. Il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace di intendere e di volere. L'accettazione della nomina da parte del fiduciario avviene attraverso la sottoscrizione delle DAT o con atto successivo, che è allegato alle DAT. Al fiduciario è rilasciata una copia delle DAT. Il fiduciario può rinunciare alla nomina con atto scritto, che è comunicato al disponente.
3. L'incarico del fiduciario può essere revocato dal disponente in qualsiasi momento, con le stesse modalità previste per la nomina e senza obbligo di motivazione.
4. Nel caso in cui le DAT non contengano l'indicazione del fiduciario o questi vi abbia rinunciato o sia deceduto o sia divenuto incapace, le DAT mantengono efficacia in merito alle volontà del disponente. In caso di necessità, il giudice tutelare provvede alla nomina di un amministratore di sostegno, ai sensi del capo I del titolo XII del libro I del codice civile.
5. Fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell'articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT, le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all'atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, si procede ai sensi del comma 5 dell'articolo 3.
6. Le DAT devono essere redatte per atto pubblico o per scrittura privata autenticata ovvero per scrittura privata consegnata personalmente dal disponente presso l'ufficio dello stato civile del comune di residenza del disponente medesimo, che provvede all'annotazione in apposito registro, ove istituito, oppure presso le strutture sanitarie, qualora ricorrano i presupposti di cui al comma 7. Sono esenti dall'obbligo di registrazione, dall'imposta di bollo e da qualsiasi altro tributo, imposta, diritto e tassa. Nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, le DAT possono essere espresse attraverso videoregistrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare. Con le medesime forme esse sono rinnovabili, modificabili e revocabili in ogni momento. Nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l'assistenza di due testimoni.
7. Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l'indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili.
8. Entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, il Ministero della salute, le regioni e le aziende sanitarie provvedono a informare della possibilità di redigere le DAT in base alla presente legge, anche attraverso i rispettivi siti internet.
Art. 5.
(Pianificazione condivisa delle cure)
1. Nella relazione tra paziente e medico di cui all'articolo 1, comma 2, rispetto all'evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, può essere realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l'équipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità.
2. Il paziente e, con il suo consenso, i suoi familiari o la parte dell'unione civile o il convivente ovvero una persona di sua fiducia sono adeguatamente informati, ai sensi dell'articolo 1, comma 3, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, su quanto il paziente può realisticamente attendersi in termini di qualità della vita, sulle possibilità cliniche di intervenire e sulle cure palliative.
3. Il paziente esprime il proprio consenso rispetto a quanto proposto dal medico ai sensi del comma 2 e i propri intendimenti per il futuro, compresa l'eventuale indicazione di un fiduciario.
4. Il consenso del paziente e l'eventuale indicazione di un fiduciario, di cui al comma 3, sono espressi in forma scritta ovvero, nel caso in cui le condizioni fisiche del paziente non lo consentano, attraverso video-registrazione o dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare, e sono inseriti nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La pianificazione delle cure può essere aggiornata al progressivo evolversi della malattia, su richiesta del paziente o su suggerimento del medico.
5. Per quanto riguarda gli aspetti non espressamente disciplinati dal presente articolo si applicano le disposizioni dell'articolo 4.
Art. 6.
(Norma transitoria)
1. Ai documenti atti ad esprimere le volontà del disponente in merito ai trattamenti sanitari, depositati presso il comune di residenza o presso un notaio prima della data di entrata in vigore della presente legge, si applicano le disposizioni della medesima legge.
Art. 7.
(Clausola di invarianza finanziaria)
1. Le amministrazioni pubbliche interessate provvedono all'attuazione delle disposizioni della presente legge nell'ambito delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente e, comunque, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica.
Art. 8.
(Relazione alle Camere)
1. Il Ministro della salute trasmette alle Camere, entro il 30 aprile di ogni anno, a decorrere dall'anno successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore della presente legge, una relazione sull'applicazione della legge stessa. Le regioni sono tenute a fornire le informazioni necessarie entro il mese di febbraio di ciascun anno, sulla base di questionari predisposti dal Ministero della salute.

mercoledì 13 dicembre 2017

Commissione Moro, approvata dopo 40 anni la relazione che riscrive la verità sull'omicidio dello statista della Dc

Il documento spiega che il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita: sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta

 13/12/2017 12:27 CET | Aggiornato 2 ore fa
Tutto quello che abbiamo saputo fin qui (e sono passati quasi quarant'anni anni) del rapimento e dell'uccisione di Aldo Moro, è da riscrivere. Anzi, in gran parte è stato già riscritto dalla Commissione parlamentare d'inchiesta presieduta da Giuseppe Fioroni. La terza e ultima Relazione, approvata il 6 dicembre e depositata per l'approvazione dell'Aula alla Camera, oggi, spiega come e perché Moro non è stato ucciso sul pianale della Renault 4 rossa parcheggiata nel garage di Via Montalcini 8. In base alle nuove perizie espletate dal Ris dei Carabinieri, quell'auto non avrebbe potuto neppure avere il cofano aperto, tanto ristretto era il box dove secondo la versione dei brigatisti sarebbe stata eseguita la condanna a morte dello statista.

Il documento spiega che veramente il presidente della Dc avrebbe avuto la possibilità di rimanere in vita perché la segnalazione di un possibile attentato, giunta a Roma dalle fonti palestinesi del colonnello Giovannone, un mese prima del sequestro, era assolutamente attendibile. A evitare la tragedia sarebbe bastata una macchina blindata e una scorta.

Gallinari latitante nella palazzina dello Ior. La Relazione spiega ancora che Moro ebbe la possibilità di ricevere la visita di un prete e di confessarsi. Dimostra che in un modo o nell'altro uomini del mondo vaticano sono stati centrali nella vicenda. A cominciare dall'individuazione, nella zona della Balduina, in via Massimi 91, di una palazzina, di proprietà Ior, la cosiddetta banca vaticana, (posseduta attraverso la società Prato Verde srl, e gestita da Luigi Mennini), abitata (o frequentata) da cardinali (Vagnozzi e Ottaviani), prelati e dallo stesso presidente dello Ior, Paul Marcinkus. Dove aveva sede una società americana che lavorava per la Nato, e vivevano in affitto esponenti tedeschi dell'Autonomia, finanzieri libici e due persone contigue alle Brigate rosse. "Complesso edilizio che, anche alla luce della posizione, potrebbe essere stato utilizzato - si legge nel documento - per spostare Aldo Moro dalle auto utilizzate in via Fani a quelle con cui fu successivamente trasferito oppure potrebbe aver addirittura svolto la funzione di prigione dello statista". La Relazione, grazie a nuovi testimoni, dimostra addirittura che Prospero Gallinari (il carceriere di Moro) e le armi usate dalle Br a via Fani, sono stati nascosti per alcuni mesi, nell'autunno 1978, nello stesso stabile di Via Massimi 91, in cui si ipotizza essere stato il covo-prigione.

Una narrativa confezionata a tavolino. Ma soprattutto la Commissione ha accertato - grazie alla declassificazione di una grande quantità di atti dei servizi segreti e delle forze dell'ordine seguita alla cosiddetta "direttiva Renzi", - che la "narrativa" ufficiale sul sequestro e la morte di Moro, contenuta nel cosiddetto memoriale Morucci-Faranda, altro non è che una "versione ufficiale e di Stato" del caso Moro, preparata a tavolino molti anni prima che essa approdasse sul tavolo di Francesco Cossiga. L'unica verità "dicibile" per chiudere l'epoca del terrorismo. Una verità di comodo messa a punto da magistrati (Imposimato, Priore citati con nome e cognome), esponenti delle forze dell'ordine e naturalmente dai brigatisti. Valerio Morucci divenne addirittura consulente del Sisde, come si chiamava allora il servizio segreto interno.

Echi di Guerra fredda: una società americana e il Kgb. La stessa vicenda del suo arresto e di quello di Giuliana Faranda in casa di Giuliana Conforto (figlia "del più importante agente del Kgb in Italia", come l'ha definito il professor Christopher Andrew nel suo libro "L'Archivio Microchip"), "è stata oggetto di una completa rilettura, che ha consentito di mettere finalmente alcuni punti fermi sulla scoperta del rifugio di Viale Giulio Cesare 47, ma anche di evidenziare uno scenario più complesso, che chiama in causa la possibilità che l'arresto di Morucci e Faranda sia stato negoziato".

"Alla luce delle indagini compiute, comunque, scrive Fioroni, il rapimento e l'omicidio di Aldo Moro non appaiono affatto come una pagina puramente interna dell'eversione di sinistra, ma acquisiscono una rilevante dimensione internazionale". Ancora: "Al di là dell'accertamento materiale dei nomi e dei ruoli dei brigatisti impegnati nell'azione di fuoco di via Fani e poi nel sequestro e nell'omicidio di Moro, emerge infatti un più vasto tessuto di forze che, a seconda dei casi, operarono per una conclusione felice o tragica del sequestro, talora interagendo direttamente con i brigatisti, più spesso condizionando la dinamica degli eventi, anche grazie alla presenza di molteplici aree grigie, permeabili alle influenze più diverse". Al riguardo Fioroni parla di "martirio laico" di Moro. Un martirio avvenuto ai tempi della Guerra fredda.

Il figlio del capitano Corelli. Un capitolo particolare è dedicato alle "protezioni" che hanno messo al sicuro la latitanza di uno dei brigatisti presenti in via Fani, Alessio Casimirri. La primula rossa delle Br, tuttora latitante, prima di giungere in Nicaragua, riuscì più volte, in maniera rocambolesca, a sfuggire alla cattura. Per l'ex brigatista, di cui anche nei mesi scorsi è stata sollecitata l'estradizione, ci fu però un momento in cui mancò veramente un nulla ad ammanettarlo. A riconoscerlo, proprio nei dintorni di San Pietro, fu il padre di Jovanotti, al secolo Lorenzo Cherubini, uno dei più noti cantautori italiani.

"Mario Cherubini, che era un gendarme vaticano - ha raccontato il vicepresidente della Commissione Vero Grassi - riconobbe Casimirri, già latitante, per strada e corse a denunciarlo, ma non si riuscì a fermarlo". Negli scorsi giorni proprio il cantante aveva raccontato a Vanity Fair di quando la famiglia Casimirri, a metà degli anni '70, invitava i Cherubini nella casa di campagna a Monterotondo, ricordando come lui, bambino, restava affascinato dai racconti che Luciano e Ermanzia Casimirri facevano del figlio, già ai tempi provetto sub e pescatore subacqueo, fino al giorno in cui lo stesso Alessio gli mostrò i suoi trofei di pesca.

Il padre di Casimirri, Luciano è a sua volta un personaggio leggendario. Responsabile della Sala stampa vaticana sotto tre papi - Pio XII, Giovanni XXIII e Paolo VI -, dunque per circa trent'anni, è stato un ufficiale italiano durante la Seconda Guerra Mondiale sopravvissuto all'eccidio della Divisione Aqui a Cefalonia, e secondo le parole del suo stesso figlio, alla sua figura si è ispirato il romanzo dello scrittore britannico Louis De Bernières "Il mandolino del capitano Corelli", e l'omonimo film interpretato da Nicholas Cage e Penelope Cruz.