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giovedì 20 ottobre 2016

Trump perde anche il suo migliore dibattito

Il rifiuto di accettare a priori il verdetto dell’urna spezza un inviolabile tabù della democrazia americana. Hillary gioca saggiamente in difesa, che è il migliore attacco

di Mattia Ferraresi| 20 Ottobre 2016 ore 07:49


Quello che rimane dopo un’ora e mezza di dibattito a metà fra lo spettacolo dadaista e la libera associazione freudiana è il rifiuto di Donald Trump di accettare a priori il risultato delle elezioni. Che il sistema sia “rigged”, viziato, lo dice con insistenza da settimane, ma ieri sera sul palco di Las Vegas ha detto che in caso di sconfitta l’8 novembre vedrà il da farsi. Non è certo se e a quali condizioni concederà l’eventuale vittoria a Hillary Clinton. “Voglio tenere la suspense”, ha detto, svelando ancora una volta che concepisce il processo elettorale come un grande reality show, dove l’attesa è tutto. Mettendo dubbi sull’imparzialità del sistema e agitando lo spettro dei brogli Trump ha contraddetto Ivanka e la manager della campagna, Kellyanne Conway, che avevano confermato la fiducia del candidato nel sistema, ma soprattutto ha rotto un tabù che in un certo senso è anche più inviolabile delle volgarità sulle donne che hanno tenuto banco nelle ultime settimane. Quelle indicano tratti della personalità e modi di condotta, mentre rifiutarsi di accettare il risultato di un’elezione equivale a una mozione di sfiducia verso l’intera democrazia americana. E’ politicamente più devastante di un “grab by the pussy”.
 
Non sorprende che i commentatori abbiano lasciato perdere il resto del dibattito e si siano fiondati su quel mastodontico particolare per incastrare l’illiberale Donald, nemico della patria  che va a braccetto con Putin e si balocca con i complotti sui brogli. E giù di testimonianze di verdetti elettorali tesi, discussi, ma ugualmente accettati con decoro e sentimento patrio, da Al Gore a George H.W. Bush fino ad arrivare addirittura a Nixon, preso per l’occasione a modello di virtù civiche perché che nel 1960 ha concesso senza fiatare la vittoria a Kennedy nonostante da ogni parte venissero voci di sotterfugi e frodi. Il fatto di cui i commentatori con le vesti stracciate difficilmente tengono conto – proprio in quanto commentatori con la propensione a stracciarsi le vesti – è il senso politico e simbolico della posizione di Trump, che non sta dando una notizia in prima serata ma conforta il suo elettorato, ovvero alcune decine di milioni di americani che credono già che il sistema sia “rigged” e il voto preordinato dalle forze oscure dell’establishment. Galvanizza una parte del paese che non ha alcuna fiducia nelle istituzioni governate dalle élite, e proprio questa sfiducia è il motivo per cui ieri sera su quel palco c’era Trump e non uno degli altri diciassette candidati repubblicani che si sono presentati all’inizio. Il problema, semmai, è che tutti i sondaggi sostengono che la parte di elettorato su cui l’argomento dei brogli fa presa non è minimamente sufficiente a vincere la maggioranza dei grandi elettori. La serata di ieri ha confermato che il candidato repubblicano non vede davanti a sé altra via che quella dell’ostinazione e del rilancio della posta su quello che con grandissima probabilità è un bluff.

E dire che era stato il migliore dei tre dibattiti per Trump. Nella prima mezz’ora ha mantenuto la calma, si è controllato, ha tenuto il filo del discorso e ha infilato alcuni scambi efficaci contro Hillary, che al solito era preparatissima e meccanica. La faccia di Trump era anche meno arancione del solito. Sugli affari della fondazione Clinton, in alcuni passaggi sulla politica estera e sull’economia ha incalzato l’avversaria, talvolta costretta a ripiegare sulle frasi imparate a memoria (tutti i politici lo fanno: il dramma è che quando lo fa Hillary si vede). A differenza degli altri dibattiti, Trump si era preparato, il che non significa che avesse nuovi contenuti da esibire ma che ha guadagnato in compostezza e contegno. Con il passare dei minuti la compostezza è scemata, lasciando il posto alle solite interruzioni, a interventi incoerenti e con troppa enfasi, a piccole faide adolescenziali – “tu sei un burattino di Putin”, “no, tu sei un burattino” – e ad alcuni colpi sterili pensati appositamente per strizzare l’occhio ai suoi, come quando ha parlato del “regime Obama”. Grande la confusione di Trump quando si è parlato di Siria e Iraq e quasi da non credere quando ha apostrofato Hillary con un “such a nasty woman”. La candidata democratica ha avuto una serata con qualche momento di affanno e una punta di nervosismo che ancora non era apparsa così chiaramente, ma senza intoppi sostanziali: una sobria e solida posizione di mantenimento che nel contesto attuale equivale a una vittoria. Praticamente una rappresentazione in scala della sua candidatura.


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