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martedì 4 ottobre 2016

L'ex ad di Deutsche Bank confessa: "Il complotto tedesco contro l'Italia"

PIETRO SENALDI INTERVISTA VINCENZO DE BUSTIS

da "liberoquotidiano.it"
«Quanti errori, quanti misteri, quanta spregiudicatezza, quanti tagli e quanti soldi dovranno metterci ancora gli azionisti perché tutto finisca bene... Ma, almeno per gli istituti più importanti, finirà bene. Non è pensabile che vada altrimenti».
Di chi è la colpa se una banca va a gambe all'aria? E se e quando c'è spazio per recuperare? Vincenzo De Bustis, 66 anni, ingegnere romano, non ha la sfera di cristallo ma da ex amministratore delegato di Monte dei Paschi (2000-2003) e di Deutsche Bank Italia (2003-2008), i due grandi istituti in crisi in grado di far collassare il sistema del credito italiano e tedesco, può dire la sua con piena autorevolezza. «Sono due crisi completamente diverse, quella di Mps originata da un drammatico errore, l'acquisizione di Antonveneta a un prezzo immotivato, quella di Deutsche Bank figlia di una politica finanziaria e di credito troppo azzardata. Chi non è un tecnico forse non lo sa, ma i tedeschi sono molto più disinvolti di noi nel gestire le leve del rischio».
Cominciamo da Siena: perché è certo che la banca si salverà?
«Ha 5 milioni di clienti e 2000 filiali, ha un franchising straordinario nonostante tutto. Merito dell'ex amministratore Viola, che ci ha messo la faccia e ha mantenuto la stabilità dell'istituto e preservato il management».
Peccato l'abbiano appena cacciato: la vulgata racconta che il ministro Padoan abbia ricevuto ordini dall'alto, dall'America…
«La politica non conta più nelle banche importanti. Aveva un peso fino a dieci anni fa ma oggi no. Il sostituto di Viola, Morelli, è la scelta più azzeccata per la nuova fase di Mps, la vendita di sofferenze e l'aumento di capitale. Arriva anche da San Paolo e ha 25 anni di esperienza di mercato di capitali».
Dicono l'abbia imposto Jp Morgan: alla fine Mps la compreranno gli americani?
«Jp Morgan meno male che c'è. Non dimentichiamoci che lì c'è Grilli, che conosce bene e tutela l'Italia e che dopo Draghi è stato il migliore "tecnico" nel Ministero dell'Economia. Per quanto ne so, c'è molto interesse all'estero per Mps, più di un fondo internazionale ci ha messo gli occhi addosso, quando richiesto ho dato un parere favorevole. Sono in corso molti contatti. Il nostro mercato si deve ulteriormente aprire a investitori stabili di varie geografie purché compliant con i requisiti attesi dai Regolatori».
In Borsa non vale quasi nulla…
«Mah, io il titolo lo comprerei subito! Il valore azionario basso è solo indice del fatto che la storia non è ancora risolta, ma non rispecchia né il valore reale né le prospettive».
Abbassano il prezzo per comprare meglio: ma quanto può scendere ancora il titolo?
«Non saprei, ormai è un discorso di marginalità ma non è così importante. Chi vuol risanare Mps comunque deve mettere sul piatto 5 miliardi freschi. Credo che entro marzo la vicenda sarà risolta, e poi si sistemeranno di conseguenza tutte le altre crisi del credito. Da mie stime dopo il derisking e adeguato piano industriale ci può essere un apprezzamento superiore al 25/30% in 36 mesi».
Come mai l'istituto di credito più antico d'Europa è finito così nella palta?
«Il 60/70% delle sofferenze è dovuto all'acquisto di Antonveneta da Santander nel 2007. Hanno comprato cash e senza due diligence. Incomprensibile: pagamento in contanti e a scatola chiusa, senza indagare bene cosa si comprava».
Non solo: hanno comprato per 9 miliardi quello che pochi mesi prima Santander aveva acquistato per 6: ogni sospetto è lecito?
«In questi casi è sempre facile farsi prendere da sofismi e dietrologie… E alla fine certe accuse vanno dimostrate. A naso non vedo dolo. Nello stesso periodo Bnp Paribas comprò sempre per 9 miliardi cash Bnl, anche se fu un acquisto più accorto. Quello che è certo è che la strategia d'acquisto non era appropriata e che l'allora presidente di Mps Mussari non era attrezzato per un'operazione del genere, non ne aveva tutte le competenze tecniche».
Che ricordo ha di Mussari?
«Amaro. Quando io arrivai in Mps lui era presidente della Fondazione e pensavo di avere un buon rapporto con lui. Ho scoperto anni dopo in base a quanto mi è stato riferito che mi lavorava contro. All'inizio mi parve essere un uomo preparato. Di lui mi ha sempre colpito il carattere imperscrutabile. Anche se probabilmente non era attrezzato per le posizioni che ha ricoperto, il suo crollo professionale mi ha stupito. Dev'essere accaduto qualcosa che lo ha cambiato sul piano umano e gli ha fatto perdere un po' di equilibrio. Quando fai un errore grave poi rischi di essere travolto da un vortice, perdi la gestione complessiva. Vigni era una brava persona, ma forse non poteva esprimere autonomia».
Mps è accusata di essere in odore di massoneria, subalterna al potere politico, in mano a un gruppo di potere autoreferenziale…
«Lavorare in Mps senza avere a che fare con i Ds era impossibile ma fino a dieci anni fa il consiglio d'amministrazione conservava forte autonomia gestionale. Le interferenze si concentravano per lo più sulle persone da prendere, però voglio che sia ben chiaro che non ho mai ricevuto sensibilizzazioni per linee di credito privilegiate. Poi nel gruppo di potere a cui la banca faceva riferimento, si è abbassata di molto la qualità umana. Sono iniziate dal 2006/2007 le interferenze anche nella politica creditizia. Non è diventata prassi ma qualche misconduct per imprenditori amici è stato fatto».
I suoi nemici dicono che un colpo a Mps gliel'ha dato anche lei, facendole comprare Banca 121, l'ex Banca del Salento di cui lei era il numero uno e da cui l'istituto senese l'ha prelevata. Si dice su pressione di D'Alema…
«Quella di D'Alema è una balla. Certo, guidando Banca del Salento ci ho avuto a che fare ma ho sempre mantenuto il mio profilo imprenditoriale. In Puglia arrivai nel 1992 da Bnl, dove mi ero fatto le ossa sui mercati, via Cofiri, senza conoscere D'Alema. La banca aveva 5mila miliardi di raccolta, quando la lasciai ne faceva 16mila».
Il curriculum è impeccabile ma l'accusa è di aver fatto pagare a Mps un prezzo esorbitante per Banca 121. Non è così?
«La banca fu pagata quattro volte il suo valore di libro, ma allora quello era il mercato. Anche il San Paolo la voleva ed era disposto a pagare un prezzo simile. Agnelli la voleva a tutti i costi. E non dimentichiamoci che i venditori erano assistiti da Mediobanca e che vendere al prezzo più alto possibile era il mio lavoro, gli azionisti di 121 alla fine sono stati contenti. Tenga presente che a quel livello non conta qualche miliardo in più o in meno di vecchie lire ma conta il prodotto. 121 era una banca innovativa, la prima a realizzare in Italia una struttura multicanale: servizi bancari sul telefonino, via web e contact center già nel 1998».
Con 121 si portò in Mps anche ForYou e MyWay, prodotti finanziari ritenuti speculativi che poi Siena dovette rimborsare ai clienti per non creare scandalo…
«Su MyWay e ForYou sono state aperte inchieste giudiziarie che dopo anni di scrutinio hanno sancito legittimità dei comportamenti. I prodotti oggi sono in utile e chi li ha tenuti ci ha guadagnato, quindi l'investimento era giusto. La stessa cosa non si può dire per altri prodotti, a cominciare dalle azioni bancarie per la quasi totalità. L'errore fu nel processo di comunicazione non corretta quando vennero commercializzati. I clienti non sapevano che era un prodotto a lungo termine e soggetto agli andamenti del mercato. Erano convinti in alcuni casi che potessero vendere in qualunque momento; era invece una sorta di pensione integrativa: la differenza non è da poco, ed Mps ritenne meglio su mio suggerimento di coinvolgere le associazioni dei consumatori e svolgere mirate transazioni con singoli clienti.
Il rosso dell'istituto partì da lì?
«Il risarcimento che giustamente pagò Mps fu modesto rispetto al margine di intermediazione e irrilevante rispetto alla distruzione di valore - inconsapevole e certamente non voluta - delle fasi successive alla mia uscita. E le dico anche che io il miliardo e 250 milioni che Siena pagò per 121 l'ho restituito tutto, facendo guadagnare l'istituto con l'operazione Generali, difesa dai francesi con l'accordo del governo, e ricomprando Axa da Ligresti. Si determinarono plusvalenze per un miliardo e duecento milioni di euro su operazioni che non avevano avuto la condivisione della Fondazione e dell'Unipol di allora. Mi costò molto l'aver difeso gli interessi della banca, che non a caso era quotata».
Lei con Mps cercò di comprare anche Bnl, giusto?
«Sì, ma non cash come Antonveneta, bensì con uno scambio azionario vantaggioso. Mi fermò il quartierino senese, che aveva un concetto feudale e poco capitalistico del mondo bancario. Non volevano scendere sotto il 51%. Me ne andai per quello e me la fecero pagare cara».
E la grande scalata a Bnl, quella di Unipol, perché fallì?
«Quella fu un'operazione gigantesca di assalto al potere, da una parte Unipol su Bnl, dall'altra la Lodi di Fiorani su Antonveneta. Operazioni collegate che tentavano di sostituire un blocco di comando del Paese con un altro. Anche il finanziamento dell'assalto di Ricucci al Corriere della Sera rientrava nel disegno».
Il governatore di Bankitalia Fazio era complice?
«Fazio fu usato. Non ci capì nulla, è una brava persona e si dimise».
E il Fassino di “abbiamo una banca”, usato pure lui?
«Fassino era all'epoca il segretario dei Ds; faceva il politico, non aveva informazioni genuine, semplicemente perché non gliele fornivano».
Come mai il blitz fallì?
«Perché l'assalto fu portato da personaggi del tutto inadeguati. Furono fatti errori gestionali incredibili. Le aspirazioni erano molto più grandi degli uomini che le coltivavano. Contrastare tutto ciò mi costò molto, ma per la mia parte ci riuscii. Ero in Deutsche a quell'epoca».
Perché per Mps non è stata neppure presa in considerazione l'offerta di Passera?
«Non ho risposte certe, probabilmente se avesse lanciato un'opa...».
Crede che ci riproverà?
«Lui sarebbe l'uomo giusto, ma come del resto lo è l'attuale ad Marco Morelli, per la fase successiva, quella del cosiddetto turn around, quando bisognerà riqualificare l'offerta e creare in Mps quello che Intesa ha fatto con Imi, una grande banca d'impresa capace di finanziare progetti redditizi che facciano ripartire il Paese».
Insomma, sembra di capire che nonostante le cronache, ci sono anche dei banchieri capaci…
«Eccome! Passera, insieme a Profumo, sono stati i migliori banchieri italiani. Della generazione successiva a mio avviso i migliori sono Messina, sostituto di Passera a Intesa , Gallia in Cassa depositi e prestiti e lo stesso Alberto Nagel, Ceo di Piazzetta Cuccia. Poi ce ne sono tre giovani buoni a Bari, Parma e a Vicenza».
Che qualità deve avere un banchiere oggi?
«Equilibrio, diplomazia, capacità di leadership, alte competenze tecniche. Deve sapere creare una squadra, avere forza innovativa e intuire il futuro prima che diventi presente».
Lei come si colloca in classifica?
«Indietro certamente rispetto a Passera e Profumo. Ritengo di avere un grande bagaglio di esperienza,anni di studio ed un network internazionale significativo. Se mi devo rimproverare qualcosa è non essere sempre stato bravo a scegliere le persone».
Qual è attualmente la migliore banca italiana?
«Senza dubbio Intesa, per la qualità dei servizi, i conti e l'innovazione. Merito di Passera e dell'attuale amministratore delegato Messina, il passaggio di consegne nel segno della continuità e dell'alto profilo è sempre stata la forza dell'istituto. In Unicredit, dopo Profumo non è stato così. E poi Intesa ha Imi, di cui è presidente Micciché, la vera banca d'impresa italiana, praticamente sta sostenendo lei l'economia del Paese».
E nelle quattro banche del Centro Italia che hanno spennato i loro obbligazionisti, Etruria in testa, come sono messi in classifica?
«Adesso che c'è Nicastro e hanno fatto pulizia, meglio. Prima direi che più che altro se la credevano. Notabili di provincia poco preparati che giocavano a fare i banchieri. Vedo più incompetenza che dolo , ma non si può escludere».
E gli istituti che fine faranno?
«Anche qui interesse internazionale c'è ma molto meno che intorno a Mps. Hanno un prezzo ancora troppo alto per essere vendute, la traversata nel deserto resta lunga».
Delle banche venete invece che idea si è fatto?
«Premetto che oggi Veneto Banca la comprerei subito. Nel passato invece c’era un gruppo di potere ristretto, che raccoglieva presso gli azionisti locali un credito immeritato. Questo ha fatto un po' sbarellare Zonin e soci, che hanno iniziato ad avere un eccesso di fiducia ingiustificato nei propri mezzi. Chiedevano aumenti di capitali esorbitanti che venivano sottoscritti da una folla plaudente. Giusto che chi ha sbagliato paghi».
Ma questi soldi dove finivano?
«Credo che siano storie di sospetta autoreferenzialità».
Ma Bankitalia e la Consob non controllano mai?
«È più facile a dirsi che a farsi. La crisi ha scoperchiato il pentolone. Prima il management scorretto per interessi personali poteva fare quasi ogni cosa sfuggendo ai controlli. È tecnicamente impossibile per un ispettore rivoltare tutti i conti di una banca. L'onestà del banchiere fa tutto. Le assicuro che la Vigilanza fa tutto quello che è possibile, il banchiere deve aprire correttamente i libri. Oggi con il licenziamento di qualche banchiere scorretto la situazione è più serena».
Deduco che sia favorevole alla trasformazione delle Popolari in Spa voluta dal governo Renzi?
«Renzi e Padoan hanno attuato una volontà europea. Riflette una necessità del mercato ed è anche a tutela dei clienti».
I suoi ultimi datori di lavoro della Popolare Bari, tra un po' spa, non saranno d'accordo con lei?
«Si saranno convinti, sono smart e sanno ciò che serve al mercato».
Davvero le banche italiane sono troppe e vanno diminuite?
«Sì, sono troppe e costose. Il sistema è solido ma non sano. Per tornare produttivo bisogna chiudere metà delle filiali e affrontare tagli del personale durissimi. E poi riconvertire. Più banche Premium, specializzate in servizi finanziari per l'impresa, più servizi telematici, un rapporto con il cliente personalizzato. In questo Mediolanum è stata caposcuola».
E arriviamo a Deusche Bank: il governo americano le chiede 5 miliardi di danni sostenendo che prima della crisi ha venduto spazzatura, sapendolo…
«Non mi parli di Deutsche Bank, sto perdendo il 90% su quel titolo. Io poi ero a Deutsche Bank Italia, che non è interessata dalla vicenda».
Negli ultimi mesi la banca, ha perso il 50% del proprio valore. I fondi americani vendono: è sotto attacco dagli Usa?
«Perché la Merkel, dopo aver impedito i salvataggi italiani, ha dovuto dire che la banca non verrà salvata da soldi pubblici. Il momento è terribile ma è indubitabile che l'istituto tedesco non fallirà, altrimenti fallirebbe la Germania».
E come si salverà?
«In un certo senso, sotto le gonne della Merkel, come ha titolato Libero una settimana fa. Se non saranno aiuti pubblici, saranno le banche e i correntisti tedeschi a doversi fare carico dei buchi».
Ma com'è possibile che un istituto così importante si riduca così?
«Le banche sono gli uomini che le guidano. Io fui assunto da Josef Ackermann, banchiere talentuosissimo e rigorosissimo, che aveva visione e competenze per gestire complessità sofisticate. Chi gli è succeduto non è stato della stessa pasta. Il Ceo di oggi è arrivato da poco. Le ho detto, i tedeschi sono molto più risk taker di noi quando manovrano i bilanci bancari».
Quindi lei dà ragione al governo americano?
«Gli Usa hanno ragione, anche se credo più all'errore tecnico che al dolo. E anche Renzi ha ragione quando dice che a noi italiani controllano tutto e ad altri meno. Dell'asimmetria Panetta parla da più di tre anni. Ed i fatti danno ragione a noi italiani».
A proposito di Italia: Deutsche Bank è quella che di fatto ha mandato a casa Berlusconi nell'estate-autunno del 2011 facendo impennare lo spread. Sbaglio?
«È una storia vecchia».
Sì, ma furono venduti 7,5 miliardi di titoli di debito pubblico in un colpo. Titoli che rendevano molto. In periodo di crisi quale imprenditore correrebbe a liberarsi di un simile investimento?
«Senza dubbio c'è stato un attacco speculativo all'Italia da parte di un istituto guidato in modo spregiudicato. Era una mossa che andava ragionata meglio, io non l'avrei fatta. Se il mandante fosse politico, non saprei proprio dirlo. C'è da dire che nel breve la banca ci ha guadagnato, il mercato dopo è andato male. Ma forse è andato male proprio in conseguenza della loro attitudine speculativa».
Siamo al contrappasso: i tedeschi ci negarono gli aiuti pubblici e ora ne hanno bisogno loro, mandarono a casa il nostro governo con un attacco speculativo e ora ne subiscono uno dagli Usa…
«Lo scenario internazionale si evolve, il momento è interessante. I tedeschi stanno pagando la loro presunzione di voler decidere sempre tutto, in Europa ma non solo. L'attacco americano alla Germania comunque è reale e il nostro governo in questo scenario si sta muovendo bene».
Banche, Europa, manifattura: la Germania è il nostro nemico?
«Nemico è una parola grossa. Diciamo che pensa solo ai suoi interessi, che sono molto distanti dai nostri, quando non opposti».
Lei li conosce bene: che idea hanno i tedeschi dell'Europa?
«Hanno l'idea che vogliono comandare. Si è capito subito dal cambio che ci hanno imposto con l'euro. E hanno principi economici forti dai quali non deflettono e che sono molto diversi dai nostri. Primo fra tutti, una fede incrollabile nell'austerity».
La Gran Bretagna ha votato l'uscita dall'Europa e non sembra pagarne il prezzo salato che gli alfieri dell'Unione paventavano. Conviene uscire anche a noi?
«Ma la Gran Bretagna non ha mai avuto l'euro, è sempre stata con un piede fuori. Per noi sarebbe molto diverso. E pericoloso».
Qual è la situazione dell'Italia?
«Non buona. La crisi non è finita. Il Paese è diviso in due, il sud è abbandonato a se stesso».
Il governo non sembra avere una politica economica sul Meridione. Per la verità, non sembra averla del tutto. Sbaglio?
«Non diamogli troppo addosso, sarebbe inutile, oltre che facile. Non è che chi c'era prima fosse meglio o abbia fatto qualcosa. I margini di manovra sono minimi, abbiamo un debito pubblico che ci ammazza».
Il Giappone ce l'ha più grande e va avanti…
«Ma il Giappone non ha l'euro e non è nell'Unione europea».
Allora vede che il problema è proprio l'Europa?
«Il problema è che serve un coraggio politico che non vedo. La crisi non era prevedibile in queste dimensioni e per fermarla la Bce non ha potuto finanziare opere pubbliche, perché la Ue lo vieta; si è dovuta limitare a sostenere i Paesi comprando titoli di Stato. È stata una salvezza ma non può risolvere il problema del nostro debito pubblico, che è talmente grande da impedire il taglio delle tasse e da frenare ogni crescita».
Dunque cosa si può fare?
«Non glielo dico, sennò mi prendono per matto. Le faccio solo un accenno: 1) più crescita e Cdp può essere uno strumento più che adeguato, oggi ha le competenze 2) Taglio del debito del 20/25%,oggi si può fare».
La vecchia storia della cartolarizzazione, ma davvero qualcuno può essere interessato?
«Anche per ragioni professionali conosco approfonditamente il mondo dei fondi internazionali. Il mercato c'è, basta trovare il coraggio perché l'Italia possa risollevarsi. Certo, un problema c'è».
Quale sarebbe?
«Oltre al coraggio, servono le competenze, di altissimo livello e non solo politiche. Questi passaggi anche con soluzioni innovative e creative sono ormai imprescindibili, perché altrimenti al prossimo “cigno nero” pagherà la collettività».
di Pietro Senaldi


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