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sabato 3 settembre 2016

Rossi: «La nostra economia è ferma da vent'anni»

 INTERVISTE "ildubbio.news"di Giulia Merlo2 set 2016 19:36 GMT

«Vedendo i dati dell'Istat gli italiani toccano con mano la realtà: non ci sono dei reali passi in avanti fuori da questa crisi. Questo provoca incertezza e disillusione, ma la politica non è in grado di immaginare vie d'uscita»

«Surreale sconvolgersi per un ritocco da un decimo di punto percentuale, bisognerebbe preoccuparsi invece delle tendenze di medio periodo». Non sono i dati Istat sulla crescita zero che stupiscono Nicola Rossi, docente di Economia politica e consigliere di amministrazione dell'Istituto Bruno Leoni, quanto piuttosto la mancanza di intuizioni per invertire la rotta.

Eppure il biennio renziano ha puntato tutto sulla retorica del "cambio di passo" del Paese...
Questi due anni non hanno cambiato assolutamente nulla, almeno dal punto di vista della crescita. La politica economica italiana è completamente ferma e, nonostante questo, ci si ostina a perseverare con la tesi che la chiave per il rilancio sia l'aumento della spesa pubblica.

Il governo Renzi ha fallito l'obiettivo, dunque?
Non ha fatto nè meglio nè peggio dei suoi predecessori. Il risultato di oggi è frutto di una lunga catena di errori, non certo imputabili unicamente agli ultimi anni. Quel che è certo è che nessun governo ha messo in campo una politica economica in grado di portare il Paese fuori dal guado.

Dopo il dato timidamente positivo del 2015, sembrava davvero che qualcosa si stesse muovendo nella direzione giusta. Invece ci siamo sbagliati?
Partiamo da un punto fermo: da vent'anni, l'Italia cresce di circa mezzo punto in meno rispetto ai suoi partner dell'Eurozona. Questo significa che ci impoveriamo ogni anno di più: mezzo punto per due decenni fa la differenza tra un paese ricco e un paese povero.

Era una ripresa illusoria, allora?
L'andamento positivo del 2015 doveva essere sfruttato per mettere in ordine i conti, razionalizzando la spesa pubblica e cominciando a intaccare il debito, ma così non è stato fatto.

Colpa di un approccio sbagliato?
L'errore è prima di tutto nell'analisi. La politica crede ancora alla tesi della crisi congiunturale, il problema invece è strutturale e ci accompagna da almeno vent'anni. Se, come spesso si sente dire, la spesa pubblica servisse a generare crescita, l'Italia dovrebbe crescere come la Corea. La spesa pubblica, in quantità limitate, può forse servire nei momenti difficili, ma su di essa non si costruisce la crescita.

Proviamo a mettere a fuoco le cause di questa stagnazione?
La prima è il debito pubblico, che zavorra la nostra economia. La seconda è la ridotta crescita della produttività, a cui non è estranea - fra l'altro - l'idea secondo la quale anche le attività poco efficienti debbano essere salvate. Non accettare che alcune aziende siano destinate a fallire significa non mettersi in grado di competere nel libero mercato.

Si poteva fare qualcosa di diverso?
Volendo andare all'origine, l'Euro è stata la vera scommessa persa per l'Italia. La moneta unica ci ha regalato anni di tassi di interesse sul debito pubblico molto vantaggiosi e, se li avessimo utilizzati in modo oculato avremmo potuto essere tra le economie migliori dell'Unione.

Esiste un modo per invertire il trend?
Certo, il primo passo sarebbe quello di impostare un piano serio di riduzione del debito e di revisione della spesa pubblica. Invece temo che non si farà, come non si è mai fatto, nulla del genere. Purtroppo ridurre la spesa non premia politicamente sulla breve distanza e nessun governo, nè di destra nè di sinistra, ha mai avuto il coraggio di incidere.

Tornando a parlare del governo Renzi, nell'ultimo anno l'Italia ha riconquistato un ruolo di rilievo in Europa. Potrebbe essere la chiave per rilanciare la crescita?
Il punto è come l'Italia sta utilizzando questa nuova centralità. Io temo che verrà usata per invocare dosi aggiuntive - qualche decimo di punto - della famosa flessibilità. Questo magari servirà a mettere una pezza al nostro bilancio, ma sicuramente non inciderà sul medio e lungo periodo. Né in Italia, né in Europa.

Il dato Istat rischia di spostare equilibri più politici, come l'esito del referendum di ottobre?
Difficile dirlo. Il bacino degli indecisi è talmente ampio che le variabili in gioco sono molte di più di un singolo valore negativo.

Eppure questi numeri incidono negativamente sulla fiducia dei cittadini...
Quando vengono pubblicati dati come questi, gli italiani toccano con mano la realtà, ovvero che non ci sono dei reali passi in avanti. La conseguenza è incertezza e anche disillusione e ciò che è peggio è che la politica non sembra, almeno per ora, in grado di indicare al Paese un diverso orizzonte.

Provando a guardare al sostrato imprenditoriale italiano, si legge qualche segnale positivo?
Le imprese italiane in questi anni hanno fatto un lavoro straordinario, che ha tenuto in piedi il Paese. Penso soprattutto alle aziende che hanno scelto di puntare sull'esportazione. Molte scontano un grosso limite, che è quello delle ridotte dimensioni, ma l'Italia ha in sè le potenzialità per fare cose straordinarie, sia grazie al suo capitale umano che alla sua capacità imprenditoriale. Questa scintilla, però, si sta lentamente consumando.

E cosa la sta spegnendo?
Fuor di metafora: la capacità imprenditoriale si costruisce e si misura nel libero mercato, non nei corridoi dei ministeri. In Italia, invece, c'è la tendenza - che spesso la politica asseconda - a preferire i secondi al primo.

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