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domenica 25 settembre 2016

BANCHE DA CODICE PENALE - FRODI, TRUFFE E BILANCI FALSI: ECCO LA CRONOLOGIA DI 25 ANNI DI CRIMINI COMMESSI ALLO SPORTELLO - UN DOCUMENTO ESPLOSIVO DELLA CASSAZIONE DEPOSITATO (E INSABBIATO) AL SENATO METTE IN FILA TUTTI I REATI DEGLI ISTITUTI NEI PRESTITI, NELLA VENDITA DI PRODOTTI FINANZIARI E NEI SERVIZI DI INVESTIMENTO - UN ALTO GRADO DI CONOSCENZA NON METTE AL RIPARO DA FREGATURE

Francesco De Dominicis per "Libero Quotidiano"

LUIGI ORSILUIGI ORSI
Chi cerca le ragioni del tracollo del sistema bancario italiano (col terzo gruppo del Paese, il Monte dei paschi di Siena, ormai al collasso) non può rinunciare alla lettura di un documento depositato la scorsa settimana al Senato da un alto magistrato, Luigi Orsi. Il quale è sostituto procuratore generale della Corte di cassazione e a palazzo Madama ha «denunciato» tutti i reati commessi dalle banche dal 1990 a oggi.

Dai prestiti agli investimenti fasulli, dai bond bidone ai mercati taroccati, dai bilanci falsi alle truffe finanziarie: è la storia di 25 anni di scandali e malefatte che hanno portato a dissesti di colossi bancari e di istituti minori, al fallimento di grandi e piccole aziende, a decine di migliaia di investitori e risparmiatori in ginocchio.

Quello di Orsi è una sorta di Bignami del codice penale applicato (o, meglio, calpestato) dagli istituti italiani. Un documento che, peraltro, arriva a gamba tesa mentre torna d’attualità l’idea di utilizzare denaro pubblico per i salvataggi delle banche in crisi, a cominciare proprio da Mps. Il governo di Matteo Renzi ci sta pensando seriamente: i contribuenti corrono il rischio di cacciare quattrini, con nuove tasse, per coprire i buchi di bilancio, conseguenze degli illeciti attribuibili ai banchieri.
CASSAZIONECASSAZIONE

Nelle carte della Cassazione non ci sono i nomi delle banche né dei manager coinvolti in singole vicende, ma non è complicato associare i casi di cronaca alle violazioni normative illustrate dal pg della Corte. Il menù è completo: le obbligazioni subordinate di Etruria, Marche, Chieti e Ferrara vendute a clienti non esperti; le bufale di Mps (e delle sue controllate) dello scorso decennio; i prestiti concessi solo a determinate condizioni (Veneto Banca); gli acquisti pilotati di azioni per alterare il valore di mercato dei titoli (Popolare di Vicenza); e, per andare un po’ più indietro con gli anni, i bond Cirio e Parmalat (protagonista era Capitalia), a testimonianza del fatto che la storia dei bancarottieri all’amatriciana viaggia di pari passo a quella dei dossier caldi degli istituti.
protesta dei risparmiatori davanti banca etruria 11PROTESTA DEI RISPARMIATORI DAVANTI BANCA ETRURIA 11

LE RAGIONI DELLA CRISI
Il mix micidiale di comportamenti criminali e illeciti sistematici squadernato dalla toga della Cassazione, ovviamente, non è la sola ragione dell’attuale crisi bancaria. Né si deve inciampare nella becera generalizzazione, sostenendo che tutti i banchieri rubano (le condanne, però, non sono mancate). Tuttavia, le difficoltà non possono essere motivate soltanto con la tempesta internazionale e la recessione. Che poi è la favoletta raccontata dagli esponenti del settore: dalla Banca d’Italia all’Abi, l’autocritica è sempre esercizio ostico.
MASSIMO BIANCONI BANCA MARCHEMASSIMO BIANCONI BANCA MARCHE

Ma torniamo al rapporto della Cassazione. Il capitolo più corposo è quello sul credito: “sviste” su «bilanci falsi», acquisto di azioni della banca (è il caso degli istituti del Nord Est) con finanziamenti ad hoc, erogazione di denaro condizionata all’impiego di una fetta del prestito ad altro cliente in dissesto o vincolata alla prestazione di garanzia a supporto di un altro cliente sempre nei guai; rimborso di rate con obbligazioni emesse da un’impresa debitrice vendute dalla banca (Parmalat e Cirio), nascondendo i pericoli ai risparmiatori. In buona sostanza, Orsi chiarisce l’origine di una fetta delle sofferenze bancarie, vale a dire quei 200 miliardi di euro di prestiti non ripagati che affossano il settore.

Su questo versante, l’analisi del magistrato parte dai «reati connessi in sede di erogazione del credito». Il caso più frequente è quello in cui «il cliente debitore della banca venga dichiarato fallito e il giudice penale debba verificare se il debito sia stato assunto in circostanze pregiudizievoli per la massa dei creditori». Si tratta di una «casistica rilevante perché coinvolge i settori apicali della banca» e «riguarda operazione per importi cospicui».
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IL CREDITO FASULLO
L’analisi entra poi nei dettagli con diversi tipi di crimine finanziario. Il primo caso è la «erogazione di credito condizionata all’acquisto di beni problematici della banca»: si concretizza quando un istituto appioppa a un’azienda cliente beni «non particolarmente appetibili» spesso «acquisiti a garanzia di crediti di altri soggetti» magari in ritardo con rate di prestiti.

Che fa la banca? Concede un prestito per far comprare magari un appartamento invendibile, il cui valore è inferiore al prezzo dichiarato. È la «bancarotta fraudolenta» (di cui risponde anche il banchiere con l’imprenditore) e lo è anche nel caso di prestiti vincolati «all’acquisto sul mercato borsistico di azioni emesse dalla banca»: la quotazione del titolo sale, ma non corrisponde al mercato. Di qui anche il reato di «manipolazione del mercato» e «aggiotaggio».

Sempre di bancarotta fraudolente si parla nell’ipotesi di finanziamenti concessi dietro un accordo segreto: chi riceve il credito lo «impiega in favore di un altro cliente della banca, insolvente». Il vantaggio per l’istituto sta nel nascondere alla Vigilanza una sofferenza: la manovra, in gergo, si chiama «cambio di cavallo». Che ha una variante, cioè quando l’impresa che chiede denaro poi lo utilizza per prestare garanzie a società decotte.

IL RISPARMIO TRADITO
A metà strada tra il credito e il risparmio tradito si posiziona il caso dei bond emessi da un’azienda mezza fallita col solo obiettivo di rimborsare un finanziamento. «Cirio, Parmalat e Finpart» ricorda la Cassazione: tutto questo era stato architettato attraverso emissioni «estero-vestite» in modo da «aggirare» i limiti imposti alle banche per collocare prodotti di aziende con le quali erano esposte.
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E qui entriamo (anche) nel campo della «truffa». Risparmiatori e investitori, poi, sono vittime di «frodi nella comunicazione finanziaria», quando determinate informazioni vengono fraudolentemente sottaciute dalle banche ai loro clienti «ingannando il mercato». Qui scatta il «falso in bilancio».

Il documento svela pure il fenomeno degli «investimenti spinti allo sportello» con «consigli» che «hanno riguardato titoli estremamente rischiosi». Con le bufale il problema è individuare i colpevoli «all’interno delle complesse filiere organizzative delle banche».

Orsi non ha dubbi: i lavoratori bancari che piazzano la spazzatura ai risparmiatori non hanno colpe, gli ordini arrivano dall’alto. E «chi consiglia il prodotto allo sportello è scarsamente informato della sua rischiosità» racconta il procuratore. Sta di fatto che i vertici dell’azienda solitamente si dichiarano «estranei» e chi ha confezionato il «pacco» si trincera dietro le chinese wall, le muraglie cinesi che in teoria separano le diverse funzioni di un istituto.

LE FRODI FINANZIARIE
veneto banca assemblea sociVENETO BANCA ASSEMBLEA SOCI
Come uscire dal labirinto? Lo scorso anno, quando sono stati azzerati in una notte i bond subordinati delle banche in default, 10mila risparmiatori hanno visto andare in fumo un miliardo. Il caso ha spinto le associazioni dei consumatori a riproporre l’istituzione di una Procura nazionale dedicata. Un appello che porta a galla un problema serio: i pochi mezzi a disposizione della magistratura nell’accertamento dei reati finanziari e della responsabilità penale dei banchieri.

Tant’è che Orsi parla di «armi spuntate» in mano ai giudici. Finisce che la colpa è dei clienti che si lasciano fregare. Su questo terreno, però, il magistrato smonta un mito: il basso livello di educazione finanziaria in Italia. È il mantra ripetuto dai banchieri per giustificare proprio il risparmio tradito e per lavarsi le mani dei clienti che perdono soldi in investimenti ad altissimo rischio.

Scrive il procuratore: «Una pure accettabile cultura finanziaria, ove fosse mai posseduta da investitori non professionali, non eliderebbe il rischio di incorrere nelle frodi montate ad arte». Che tradotto vuol dire: si può studiare la finanza anche ad alti livelli, ma se la banca vuole imbrogliare non c’è manuale che metta al riparo dalle fregature.

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C’è da dire che l’esplosiva analisi di Orsi non ha suscitato reazioni fra i senatori che lo hanno ascoltato il 15 settembre né fra gli altri parlamentari che pure accedono agli atti ufficiali consegnati nelle commissioni. L’audizione è stata seguita da un eloquente mutismo: forse perché alle frodi e agli illeciti bancari spesso non sono estranei gli stessi politici.

PORRO E GLI SCHIZZI DI MERDA - DOPO 6 ANNI, IL VICEDIRETTORE DEL ''GIORNALE'' È STATO ASSOLTO DALL'ACCUSA DI VIOLENZA PRIVATA CONTRO EMMA MARCEGAGLIA, PARTITA DALLE INTERCETTAZIONI CON IL SUO PORTAVOCE ARPISELLA - PORRO FA NOMI E COGNOMI DEI GIORNALISTI CHE LO HANNO SOMMERSO DI INSULTI: ''LA VERA MACCHINA DEL FANGO SONO LORO''

QUESTA E' UNA  VERA LEZIONE DI GIORNALISMO 

Nicola Porro per ''il Giornale''

Sono sei anni che aspettavo. Sono sei anni che tenevo nel mio archivio i ritagli dei giornali che mi descrivevano come un mostro. Due giorni fa il pm e il giudice mi hanno assolto con formula piena dal reato, poi derubricato, di tentata violenza privata nei confronti di Emma Marcegaglia.

NICOLA PORRONICOLA PORRO
Solo il vostro affetto e dei colleghi del giornale, in quelle ore del 7 ottobre del 2010, mi hanno dato la forza di aspettare e di tenere nota di tutto per ricordare. Il Giornale, Noi, eravamo la macchina del fango. E oggi che la giustizia ci dà ragione nessun quotidiano (tranne il Tempo) si è ricordato di fare altrettanto. Sono cose che capitano. Lo sappiamo.

A vostra e nostra memoria conviene ricordare chi sono quelli che veramente alimentano la macchina del fango, dai loro ufficetti puliti, con la loro coscienza di buon giornalismo, con quella arietta perbene da fustigatori dei corrotti, con la pretesa di essere scrittori e non travet in attesa dell' Inpgi. Ma andate tutti a quel paese.

Massimo Teodori a lungo pagato proprio dal giornale berlusconiano e che dunque dovrebbe conoscere l' aria di libertà che circola in queste stanze riesce a scrivere su Prima comunicazione: «CASO MARCEGAGLIA E SCHIZZI DI MERDA. La merda che schizza sempre più veloce dai ventilatori induce ad amare riflessioni su una certa stampa italiana, in particolare su quella più vicina al premier».
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E ancora: «L' uso violento dell' informazione basato su atteggiamenti intimidatori nei confronti dei dissidenti, per quanto mascherato da giornalismo investigativo, deve far riflettere tutti coloro che hanno a cuore la stampa libera e civile». E lo scrive sulla rivista, sia pure clandestina, che dovrebbe occuparsi di giornali e giornalisti.

È la linea. Porro e gli schizzi di merda. Chissà oggi, tra una parolaccia e l' altra, se avrà la voglia questo signore frustrato e che si sente giovane grazie all' uso della volgarità di chiedere scusa non al sottoscritto, ma a chi gli ha pagato lo stipendio per anni.

Come tanti impartiva lezioni di giornalismo, senza preoccuparsi di chiedere, informarsi, conoscere prima di deliberare.
Barbara Spinelli, sempre angosciata di dover meritare il suo cognome, parla, senza sapere, di «Violenza inaudita». Il Corriere della Sera e il Sole 24 ore titolano in prima pagina. «Dossier contro la Marcegaglia».
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Non presunto, come buona regola del giornalismo avrebbe dovuto far dire. Dossier vero e proprio. Eppure come dirà al processo il portavoce della Marcegaglia, la parola dossier non era stata mai pronunciata dal sottoscritto ed era una «libera interpretazione» proprio di Rinaldo Arpisella. All' epoca non si poteva sapere?

Eppure i giornali il giorno stesso del fattaccio disponevano di tutte le mie intercettazioni telefoniche per di più in audio. Neanche dovevano fare la fatica di leggere: erano presenti sul sito del Fatto quotidiano. Chissà da dove sono arrivate? Per l' Eco di Bergamo e tanti altri giornali fotocopia il titolo era: «Dossieraggio contro la Marcegaglia. Blitz al giornale».

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Caso quasi unico Filippo Facci su Libero scrive: «Quando non è di sinistra la stampa fa dossieraggio». Repubblica e Roberto Mania colgono la palla al balzo e virgolettano la presunta vittima: «Le cose sono andate così, è stato davvero sgradevole, pago le critiche al governo». Ma cosa sarebbe stato sgradevole non lo chiedono? Il fatto che non abbia mai fatto una telefonata, dico una, alla sciura, non lo chiedono. Antonio Polito, allora direttore del Riformista, ha coraggio e titola a tutta pagina «Metodo Woodcock». Grazie.

Tra i pochi con Enrico Mentana, allora direttore del Tg de La7 e Antonello Piroso, a farsi qualche domanda. Il direttore dell' allora Tg2 e oggi direttore del Pd1, Mario Orfeo, si scatena sul suo telegiornale e accosta il caso Marcegaglia al caso Boffo. È lo stesso Orfeo che ha ordinato a Uno mattina di non intervistare mai il sottoscritto e ha censurato una mia intervista a Tv Sette. Me ne sono fatto una ragione, e con il tempo ho capito che andare allo stadio nel posto giusto e selezionare gli ospiti in tv rende.

PIROSOPIROSO
La Marcegaglia ottiene solidarietà addirittura dal presidente della Repubblica Napolitano che fa una nota ufficiale, dai tre segretari dei sindacati, da Bersani, Enrico Letta, Giorgio Squinzi, Moratti, Emilio Riva (che nonostante ciò ho difeso per quello che poi gli succederà) Sergio Marchionne, i Garrone e tanti altri. Tra le poche eccezioni ci fu quella di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle, che conoscevano bene il giro Marcegaglia e i loro vittimismi. All' epoca non era facile disubbidire e li ringrazio.

La campagna di fango contro il Giornale dura settimane. La sciura piagnucola: «Io vado avanti. Non riusciranno a fermarmi» e ancora: «Non cambio la mia linea». Furbetta: nessuno, come poi si è visto dal processo, si è mai sognato non solo di minacciarla, ma anche solo di pensarlo.

E la stampa, il cane da guardia della libertà di informazione, tra il potente industriale e il giornalista propende per il primo: a quelle precedenti si aggiungono con il passare di giorni le favolose eccezioni come Ostellino e Pansa. Francesco Cundari su Il Foglio mi accusa di non poter scherzare al telefono e mi sfotte poiché sarei convinto «di lavorare al Corriere dei Piccoli». Il garantismo del foglio di Ferrara si ferma ad Arcore.
massimo teodoriMASSIMO TEODORI

Per Peter Gomez sul Fatto il dossier (poi rivelatosi inesistente) era «stato chiesto dalla proprietà al giornale»: Giuseppe D' Avanzo su Repubblica pontifica: «Questo non-giornalismo è soltanto la vetrina della collera di Berlusconi. Si nutre di calunnia e di menzogna. Diffama e pretende di distruggere ogni reputazione. Contamina ogni rispettabilità. Umilia e ferisce. È artefice di un linciaggio violento, permanente e senza vincoli che si alimenta degli odi del padrone. È soltanto lo strumento di una lotta politica declinata come guerra civile. Una guerra dichiarata unilateralmente da Berlusconi contro tutti. Oggi anche contro la Marcegaglia e Confindustria».

Ma di che sta parlando? Nessuno di questi fenomeni giudiziari che si chiede per quale motivo il telefono del portavoce di Emma Marcegaglia fosse intercettato dalla procura di Napoli.

La storia finisce con una assoluzione. Sono stato fortunato, ho avuto ottimi avvocati e magistrati (anche dell' accusa) che hanno letto le carte e tirato fuori da questa macchina del fango. Orchestrata non dal Giornale, ma da fogli in circolazione che ogni giorno ci fanno la morale.

Ps: Sono stato fortunato, molti politici, amministratori, semplici cittadini, non hanno avuto la possibilità di urlare al pubblico la propria innocenza. Anche quando certificata da un magistrato che li ha prosciolti.
PETER GOMEZPETER GOMEZ


martedì 20 settembre 2016

Homo Oeconomicus vs Homo Politicus: 2 fisso



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La volta scorsaavevamo visto come gli studi di Phillips, rimaneggiati da Samuelson e Solow, avessero fornito ai teorici del MIT un’arma potentissima, apparentemente graziosa e teoricamente sgraziata, per le loro ricette di demand management.
Queste ricette furono seguite soprattutto in America, su cui ci concentreremo per la nostra storia, e vedremo come le scelte economiche dovettero presto venire a patti con le scelte politiche. Già sotto la presidenza Truman (1945-1953) fu approvato l'”
Employment Act” che pur togliendo ogni accenno al pieno impiego previsto nelle sue bozze preparatorie, tuttavia riconosceva per la prima volta il diritto dell’Amministrazione federale di ingerirsi nell’economia.
La guerra in Corea poi fece crescere gli stanziamenti militari, malgrado  questi fossero stati inizialmente tagliati per far posto a programmi di investimenti in patria. 
Truman non retrocesse da quella che sarebbe poi diventata una tendenza tipica del “keynesismo bellico” made in USA, malgrado il riaccendersi di spinte inflazionistiche.
Il suo successore, il generale e eroe di guerra “Ike” Eisenhover (1954-1961), malgrado fosse repubblicano, adottò politiche keynesiane sotto la spinta del suo consigliere Arthur Burns, approvando già nel 1954, a guerra di Corea conclusasi, una serie di tagli alle tasse facendo scivolare in rosso il bilancio federale.
Tutte e tre le brevi recessioni della sua presidenza furono minimizzate utilizzando gli “stabilizzatori fiscali automatici”, sussidi di disoccupazione e di povertà, pur facendo lievitare la spesa pubblica. Interessante il modo in cui riuscì a far digerire ai suoi compagni di partito conservatori le enormi spese per investimenti pubblici: l’immensa rete di strade interstatali (1956) fu sdoganata quale “viabilità per la difesa nazionale”, utile in caso di invasione russa, mentre il budget destinato alla corsa spaziale (e destinato per altri 50 anni a crescere) fu giustificato dai timori che i russi (artefici con lo Sputnik del primo volo in orbita) potessero acquisire un vantaggio militare.
Ancora Keynes in salsa bellica. Alla fine della sua presidenza Ike aveva speso per la Difesa più di quanto avesse speso Roosvelt per vincere la Seconda Guerra Mondiale.
Ma quello fu anche un decennio di allargamento del benessere a tutto uno strato di popolazione che fino a quel momento vivacchiava. Il keynesismo stava rispondendo alle critiche con i fatti, e che fatti.
Dopo Eisenhover i politici compresero l’importanza di usare il deficit spending per godere di un vantaggio elettorale. Durante il suo ultimo anno alla Casa Bianca, il vecchio conservatore ebbe uno scatto di orgoglio e ritenne suo dovere consegnare un bilancio “in bolla”. Mal gliene incolse: i tagli alla spesa pubblica da lui proposti causarono una brusca recessione nel 1960 di cui i democratici lo accusarono, trovando nell’opinione pubblica il sostegno per eleggere (per quanto di un soffio) il loro rappresentante: Kennedy.Tutti i politici impararono la lezione: il successo alle urne dipendeva dalla gestione dell’economia che veniva allora impostata in modo che coincidesse con il ciclo elettorale quadriennale.
Alla faccia dello strumento tecnico per “fare ciò che è giusto e serve”. Provaci tu a bloccare la spesa pubblica, magari clientelare, in piena (o in vista della) campagna elettorale!
Ma era anche l’anno che le ricette keynesiane avevano trovato il loro completamento nelle stime di causa-effetto affidabili alla curva di Phillips, e ora si poteva matematicamente determinare l’entità delle manovre di bilancio necessarie a stimolare l’economia per poi frenarla quando opportuno. Lo strumento di fine tuning sognato fino a quel momento da tutti i policy makers.
Malgado a parole
 Kennedy si disse da subito keynesiano, nei primi due anni della sua presidenza i maggiori stanziamenti furono sempre a favore della Difesa e lo spazio, che arrivarono a contare per circa tre quarti di tutti gli aumenti di spesa durante il suo mandato specie in seguito alla crisi cubana di fine 1962.
Kennedy fu assassinato l’anno successivo e il suo vice Lyndon Johnson affermò che avrebbe rispettato le ultime incompiute volontà di JFK: nel 1964 furono approvati i tagli fiscali in deficit da lui voluti e quasi da subito il prodotto interno, l’occupazione e le entrate fiscali cominciarono a crescere, mentre l’inflazione rimaneva sotto il 2%.
A fine 1965 “Time” nominò John Maynard Keynes “uomo dell’anno”, a quasi vent’anni dalla morte.
Johnson non si fermò qui : durante il suo mandato varò il Medicare, per garantire cure mediche agli over 65, il Medicaid per chi non poteva permettersele, dichiarò la “guerra alla povertà” e estese i diritti civili agli afroamericani.
Per quanto fece, Johnson andrebbe valutato molto più di quanto lo sia stato il giovane Kennedy.
Gli anni 60 furono anni di benessere in cui il lavoratore medio raggiunse una discreta agiatezza.
Come avevamo visto erano gli anni della tecnologia labor augmenting e della crescita della labor share.
Ciò che segò le gambe a Lyndon fu l’interminabile conflitto in Vietnam, il quale tra l’altro continuava ad alimentare quel keynesismo di guerra tipico delle amministrazioni americane.
Nixon fu eletto presidente nel 1969 e dimostrò subito di che pasta è fatto un politico opportunista: malgrado la fede repubblicana e conservatrice e il suo credo nel pareggio di bilancio, Nixon si disse “keynesiano in economia”, ottenendo così scandalo fra i suoi compagni di partito e sospetto dai liberali.
Nixon dispose dello strumento del deficit fiscale a seconda dell’opportunità politica ed elettorale. Il platano contro cui si scontrò non fu solo lo scandalo Watergate, ma l’eccessivo stimolo che diede all’economia: dopo Camp David nel giugno 1971 approvò una nuova linea di politica economica basata sull’abbandono di Bretton Woods, la svalutazione del dollaro e un forte stimolo finanziario basato su minori tasse che però sprofondarono il budget federale ad un rosso mai visto prima. La successiva imposizione di divieti agli aumenti di prezzi e salari e di un balzello del 10% sulle importazioni gli fecero perdere la faccia davanti alla pubblica opinione. L’aumento del prezzo del petrolio, deciso dall’OPEC nel 1973-1974, e quindi dell’inflazione diede alla politica di Nixon il colpo mortale.L’era di Keynes entrava in fibrillazione, e si entrava in una nuova era, la stagflazione, in cui gli strumenti che fino a quel momento avevano decretato il successo del keynesismo non sembravano più utili.
Ma questa storia del Monetarismo la racconteremo fra un pò di tempo. Prima ci sono due argomenti, normalmente trascurati dai manuali di Storia del Pensiero, che vorrei affrontare.

Il primo riguarda la ricerca accademica nel mondo della finanza e delle Borse che dagli anni 50 fece balzi in avanti, ma ha una storia ben più vecchia.
Ma prima degli articoli su finanza e Borse, nei prossimi tre voglio prendere una pausa riflessiva e filosofica, per cercare una risposta ad alcune domande: come si fa ricerca in economia? E i metodi sono adeguati ai fini? Ma l’economia è una vera scienza?, e se non lo è esattamente, di che natura allora è? Statistica ed econometria garantiscono veramente i fini di conoscibilità e sperimentazione che si erano prefissate?
Un compito immane ma inevitabile.

domenica 18 settembre 2016

Una giungla di antenne del Kgb: così l’Urss spiava mezza Italia

I documenti sottratti dall’archivista sovietico resi pubblici a Londra Intercettate le comunicazioni di politici, militari e anche magistrati

18/09/2016
Chissà se Vladimir Aleksandrovic Krjuckov ha distribuito, nel 1976 medaglie e premi per il successo dell’operazione «Start» a Roma. L’onnipotente responsabile del Primo Direttorato Centrale, il capo del Kgb insomma, forse considerò quel capolavoro dei suoi uomini in Italia attività «normale». Aveva un brutto carattere Krjuckov: già, preferiva, lui, i bassopiani della guerra continua agli altopiani della pace. I rapporti che gli raccontavano in presa diretta tutti i segreti d’Italia, perfino le conversazioni private tra i giudici del principale tribunale del Paese, li scorreva con la eterna espressione dura e decisa, con gli angoli della bocca rivolti verso il basso, da tartaro senza sorriso. Il fedelissimo di Andropov, che aveva sollevato sconforto abolendo il mobile bar dall’arredamento e le bicchierate in onore degli ufficiali che andavano a spiare all’estero, sapeva che i sorrisi con gli americani erano commedia, commedia politica e diplomatica. Sì. Nel 1973 era stato firmato il primo degli accordi Salt sul disarmo. Ma la guerra continuava: per lui l’America restava «il Nemico principale». Come diceva benissimo il compagno Breznev «la distensione non alterava le leggi della lotta di classe».  

Semplice e geniale  
Ebbene l’operazione Start fu davvero un capolavoro, un capolavoro di creatività spionistica. Pensate! Piazzare antenne, banalissime, insospettabili antenne nei luoghi chiave di un Paese per ascoltare le conversazioni militari, politiche e giudiziarie, l’intera equazione dei Poteri. Una antenna ad esempio a piazzale Clodio, sede del tribunale di Roma; e poi ad Acilia per affatturare tecnicamente i cavi dell’Italcalble utilizzati allora dalla Marina per le comunicazioni; e alla base di monte Cavo. Questa ingegneria spionistica si deposita, non bisogna dimenticarlo, in metabolismi politico terroristici furibondi, sono gli anni delle invelenite sanguinose e opacissime trame delle Brigate rosse. Con piste e orme che portano a burattinai quanto meno di Oltrecortina.  

Un romanzo di spionaggio? Niente affatto: verità. E qui bisogna parlare degli archivi. Gli archivi sono miniere, filoni d’oro in cui, se riesci a trovare la vena, puoi riportare in superficie straordinari tesori. Ad esempio: gli archivi intitolati a Churchill all’Università di Cambridge, (luogo tra l’altro assonante con lo spionaggio visto che era uno dei maggiori centri di assunzione del Kgb che non lesinava nella compera delle spie). È lì che i servizi segreti di Sua Maestà hanno da poco depositato tutti i file con i segreti del Maggiore-archivista presso il deposito centrale di documentazione operativa del Kgb per lo spionaggio esterno Vassili Mitrokhin. Ancora archivi, come si vede, perché i regimi governano, reprimono: ma soprattutto scrivono. Figura archetipa dello sconquasso dell’Unione Sovietica giunta alla eutanasia, nell’ufficio di Balashika vicino a Mosca, Mitrokhin, nel 1992, cercava un cliente per il suo tradimento. Gli americani forse convinti del collasso definitivo dell’Arcinemico lo delusero. Costringendolo a ripiegare sulla Gran Bretagna. Non sapevano a Washington che per anni, fino all’85, nascondendolo nelle scarpe, aveva portato a casa, copiato su bigliettini, il lavoro di ufficio ovvero tutti i segreti dello spionaggio di Mosca. Che si estendevano anche all’Italia con nomi purtroppo in codice più o meno fantasiosi di infiltrati e collaborazionisti. Della operazione Start a Roma parlò per primo un consulente della immancabile Commissione bicamerale di inchiesta istituita per lo scandalo, reclutato alla Università di Stanford, Mario Scaramella, che per decifrare i segreti di Mitrokhin aveva arruolato una squadra con ex ufficiali della Cia e dell’MI6 e defezionisti russi tra cui l’ex capo dell’antiterrorismo dell’Fsb colonnello Alexander Litvinienko. Poi eliminato dai russi con una dose di polonio radioattivo che contaminò anche Scaramella. All’audizione davanti alla Commissione di inchiesta della Alta Corte inglese, e poi al processo italiano (perché nel frattempo è stato retrocesso da responsabile per le indagini all’estero della commissione a una sorta di agente provocatore), cita invano l’esistenza dei documenti sulle antenne di Roma come prova, tra le altre, della validità della sua attività investigativa. La operazione Start restò per l’Italia «una fantasia».  

Le parti mancanti  
A provarlo soccorreva un altro elemento: il materiale di Mitrokhin venne trasferito dai servizi inglesi a quelli italiani prima nel 1995 e poi dopo un’intesa tra Berlusconi e Blair di nuovo nel 2005. Tra i file consegnati dai Servizi alla procura di Roma e alla commissione di inchiesta quelli sulle antenne spia romane non c’erano. Fine della (falsa) storia dunque. 
Dieci anni dopo il dossier 251 spunta all’Università di Cambridge, disponibili per qualsiasi consultazione.  
Leggiamo dunque, dal cirillico dattiloscritto con preziose annotazioni a mano dello stesso Mitrokhin che in stile burocratico essicca ogni pathos ma fissa bene i particolari. 
«…Pagina 114/punto 316 Start postazione radio per l’ascolto clandestino di comunicazioni in Roma, tutto il personale consiste in 5 agenti più un ingegnere radio e quattro operatori, tutti gli operatori sono donne divenute mogli di agenti del Kgb, ogni operatore ha lavorato al suo posto di ascolto per 20 ore alla settimana, la postazione funzionava 5 giorni alla settimana e lavorava circa sedici ore al giorno dalle sette del mattino alle 11 della sera e in caso di necessità per 18 o 19 ore dalle 6,30 del mattino e a volte funzionava il sabato e in giorni festivi…». 
Mentre dunque gli americani spendevano milioni di dollari per spedire sottomarini con sofisticate apparecchiature nel Mar di Barents per connettersi ai cavi sottomarini sovietici, i russi di Krjuckov con poche migliaia di dollari e un manipolo di affaccendate e infaticabili signore del Kgb accumulavano cassette su cassette con tutti i segreti d’Italia. 

Ancora: «Pagina 115 punto 317 Start è una postazione di ascolto radio, di acquisizione di informazioni in Roma che è stata istituita e organizzata con l’obiettivo di ricercare canali di informazioni, di raccogliere e organizzare informazioni di valore relative a varie operazioni del Kgb, nel 1976 ci sono state verifiche ed indagini sul funzionamento nel distretto di Roma e una operazione per installare degli apparati che somigliassero ad antenne e le prime verifiche hanno riguardato gli edifici della Ambasciata sovietica a Roma. Ovvero le postazioni fisse e permanenti localizzate negli edifici denominati Abamelik. I vari tipi di antenne e i sistemi sono stati verificati e il risultato è che molti apparati e canali di comunicazioni riguardavano le direttrici fra Roma, Pisa e Milano, cassette radio sono state utilizzate e 248 audiocassette con nastro magnetico sono state raccolte e sbobinate nel 1976. Il che ha costituito il punto di svolta con la creazione di ulteriori 18 nuove postazioni destinate a cercare informazioni e 37 messaggi segreti sono stati raccolti da cinque cavi telefonici denominati Ytk, ben noti…».  
«…Punto 318 la residenza romana del Kgb ha deciso di effettuare sopralluoghi visivi e fotografici… Sopralluoghi nelle seguenti città italiane di Acilia, Tenuta, Rocca Priora, per la zona Sud di Roma, Palo per l’Ovest di Roma e Fogliano, Morlupo, San Pancrazio per il Nord di Roma e il sopralluogo ha verificato che fosse rispettata la qualità delle informazioni ritrasmesse dalle antenne e delle radio localizzate nel distretto di Roma…».  
«…Altri nomi di luoghi dove erano installati punti di ascolto a Roma erano Inviolatella (parco a Roma Nord), Monte Mario (sopra il tribunale) e piazzale Clodio (sede del tribunale).  
«…Punto 319 postazioni radio di riascolto Start Kgb residenza in Roma, la presenza di centri operativi internazionali in questo Paese, soprattutto l’importanza del centro di Acilia ha evidenziato l’importanza dell’Italia nel sistema delle comunicazioni globali e ricopre tutti i tipi di connessioni via cavo, connessioni via reti di antenne, via radiofrequenze e Rrls e di altro tipo nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Firenze. Sistemi di controllo sono stati da noi collocati anche nei distretti fra Milano e Roma attraverso la città di Pisa, sei punti di raccolta informazioni sono localizzati e controllati nel distretto fra Roma e Napoli come in altre parti del Sud Italia, nel distretto di Roma Inviolatella e del Monte Faito (o Faete) ci sono 7 posti di raccolta informazioni con antenne di differente diametro di portata di ascolto, localizzati e controllati».  
Pagina 128 paragrafo 351 «l’Ambasciatore Urss in Roma di nome Maltseev ha acconsentito alla installazione di una nuova postazione denominata Start 2 nell’edificio localizzato nella Grande Villa Balshaia e ha accettato che l’installazione sia posizionata sulla cima della stanza di soggiorno…». 

Il valore politico  
Tutto questo materiale ha un valore semplicemente storico? Sono passati quarant’anni e l’Urss è defunta, in fondo. Forse no, visto che il New York Times e la tv israeliana nei giorni scorsi, proprio con i file del Churchil Archive, hanno scatenato un putiferio politico svelando che tra i nomi sbianchettati c’era quello di Abu Mazen, ex agente a libro paga a Damasco. Per quanto riguarda l’operazione Start i documenti Mitrockin si fermavano all’85 e non comprendevano le operazioni ancora «in corso». Dunque potrebbe esserci a tutt’oggi un Start numero 20 o 30 visto che gli eredi del Kgb non si sono certo rassegnati a letarghi domenicali.  
E resta soprattutto aperta la domanda su chi e perché nascose questi documenti alla magistratura e al Parlamento. E qui i misteri non sono più russi ma italiani. 


venerdì 9 settembre 2016

1. COSA E’ STATO IL RISORGIMENTO? UN MASSACRO DEI SABAUDI SU MIGLIAIA DI MERIDIONALI 2. GENOCIDI NASCOSTI, LAGER COME QUELLO DI FENESTRELLE, VIOLENZE SUI MINORENNI E STUPRI ALLE DONNE: 500 MILA PERSONE SONO “SPARITE” DOPO L’UNIFICAZIONE DELL’ITALIA 3. GLI UFFICIALI SABAUDI DICEVANO CHE I MERIDIONALI (TERRONI ANCORA NON SI USAVA) ERANO PEGGIO DEGLI "AFFRICANI" (CON DUE F), PERCHÉ ERANO INCIVILI E IGNORANTI E PER QUESTO MERITAVANO LE VIOLENZE E I SOPRUSI CHE IL PIEMONTE "ALLARGATO" STAVA FACENDO 4. IL RACCONTO (CON TUTTA LA DOCUMENTAZIONE) NEL LIBRO DI PINO APRILE, “CARNEFICI”

Luca Rossi per “Libero Quotidiano”


Tutte le strade portano a Roma, ma non tutte ci mettono lo stesso tempo. Lo dice un flyer di un corriere internazionale che da Milano spedisce in tutta Italia specificando che ci vogliono 3 giorni nello stesso comune, 5 in tutti gli altri comuni italiani, ma che ce ne vogliono 7 per la Sicilia, la Sardegna, la Calabria e la Basilicata. Passi per le isole, con il corriere che nel ventre di un traghetto affronta la tempesta perfetta al largo di Livorno, ma per Calabria e Basilicata? Coda sulla Salerno-Reggio Calabria per attraversamento ovini? Superstrade crollate in Sicilia?
PINO APRILE - CARNEFICIPINO APRILE - CARNEFICI

Lunghi tratti monocorsia con la polizia stradale sulla corsia d' emergenza a bordo di Lamborghini? L'Italia ha due velocità, lo sentiamo ripetere da settant' anni da presidenti della Repubblica meridionalisti e da trent'anni quasi di Leghismo autonomista sentiamo rispondere che il sud è un peso che affonderà il Paese. Oggi Apple investe nel centro di sviluppo app di Napoli, come a dire che basta un iPhone a chiudere la questione meridionale.

GaribaldiGARIBALDI
Ma la questione meridionale è tale da prima dell' unità peninsulare, insegna Pino Aprile già autore di Terroni (2010), Giù al Sud (2011), Mai più terroni (2012), Il Sud puzza (2013) e Terroni 'ndernescional (2014). Con Carnefici (Piemme, 464 pp., euro 19.50), l' autore torna al tema caro, ma si sposta in epoca pre-pre-pre-Apps, quando il terrone ante litteram fondeva il borbone e il brigante. Aprile racconta di un vero e proprio genocidio compiuto dai piemontesi cattivi a discapito dei terroni buoni.

IL SUD E IL RISORGIMENTOIL SUD E IL RISORGIMENTO
Il libro, frutto di anni di ricerche, di archivi ne ha per tutti. Non si salva nemmeno Garibaldi, che si fece costruire una villa a Caprera: una residenza quasi in stile Scarface se l'eroe dei due mondi avesse avuto la televisione come i mafiosi emuli di Gomorra, anche se non si fece mancare il veliero da 42 tonnellate per la sua piccola flotta personale.

Comunque non toglie che Garibaldi, più brigante dei briganti, in fondo non avesse poi colpa, così come secondo Aprile non avevano colpa gli ufficiali sabaudi che dicevano che i meridionali (terroni ancora non si usava) erano peggio degli «affricani» (con due f), perché erano incivili e ignoranti più degli affricani (con due f) e per questo meritavano quello che il Piemonte allargato stava facendo.

IL SUD E IL RISORGIMENTOIL SUD E IL RISORGIMENTO
Ma cosa stava facendo? Deportati, fucilati, incarcerati, le figlie dei briganti, anche bambine, erano stuprate, i sabaudi erano peggio degli unni insomma, erano più violenti e animali degli «affricani» che tanto disprezzavano, così è facile che su una stima di 7 milione di persone, la popolazione dell' allargato stato del Piemonte, manchino 500 mila persone svanite pochi anni dopo l' unificazione del Paese.

IL SUD E IL RISORGIMENTO
Si scrive spesso che i crimini compiuti dai vincitori passano sotto silenzio. Così se Hitler avesse vinto con gli Zeppelin padroni dei cieli d'Europa, la Shoah sarebbe stata espulsa dalla storia, con buona pace di Primo Levi, Anna Frank e Roberto Benigni. Perché i vincitori sono sempre puri, Vittorio Emanuele II era un vincitore, era l'unificatore del regno, il re sul trono di spade.

Aprile scrive e documenta di campi di prigionia, veri e propri lager subalpini come quello istituito nelle mura del forte di Fenestrelle, una pratica della quale siamo stati precursori.
Genocidio perché i proto-terroni non erano poi così diversi, così incolti, così selvaggi del popolo pedemontano, ma eran visti come impuri, come briganti anche se non lo erano e quindi bisognosi di scrematura.
ALFONSO LA MARMORAALFONSO LA MARMORA

Occorreva scremare quel crogiuolo dal quale si sarebbe forgiato il nascente popolo italico. Tutto documentato: il 20 gennaio 1861 fu istituito a Fenestrelle uno dei Depositi d' uffiziali d' ogni arma dello sciolto esercito delle Due Sicilie e su richiesta di La Marmora, venne indicato di «non porre in libertà nessuno dei detenuti senza l' assenso dell' esercito». Colpevoli di terronìa, venivano chiusi in gabbia peggio che animali senza il minimo magone.

sabato 3 settembre 2016

Rossi: «La nostra economia è ferma da vent'anni»

 INTERVISTE "ildubbio.news"di Giulia Merlo2 set 2016 19:36 GMT

«Vedendo i dati dell'Istat gli italiani toccano con mano la realtà: non ci sono dei reali passi in avanti fuori da questa crisi. Questo provoca incertezza e disillusione, ma la politica non è in grado di immaginare vie d'uscita»

«Surreale sconvolgersi per un ritocco da un decimo di punto percentuale, bisognerebbe preoccuparsi invece delle tendenze di medio periodo». Non sono i dati Istat sulla crescita zero che stupiscono Nicola Rossi, docente di Economia politica e consigliere di amministrazione dell'Istituto Bruno Leoni, quanto piuttosto la mancanza di intuizioni per invertire la rotta.

Eppure il biennio renziano ha puntato tutto sulla retorica del "cambio di passo" del Paese...
Questi due anni non hanno cambiato assolutamente nulla, almeno dal punto di vista della crescita. La politica economica italiana è completamente ferma e, nonostante questo, ci si ostina a perseverare con la tesi che la chiave per il rilancio sia l'aumento della spesa pubblica.

Il governo Renzi ha fallito l'obiettivo, dunque?
Non ha fatto nè meglio nè peggio dei suoi predecessori. Il risultato di oggi è frutto di una lunga catena di errori, non certo imputabili unicamente agli ultimi anni. Quel che è certo è che nessun governo ha messo in campo una politica economica in grado di portare il Paese fuori dal guado.

Dopo il dato timidamente positivo del 2015, sembrava davvero che qualcosa si stesse muovendo nella direzione giusta. Invece ci siamo sbagliati?
Partiamo da un punto fermo: da vent'anni, l'Italia cresce di circa mezzo punto in meno rispetto ai suoi partner dell'Eurozona. Questo significa che ci impoveriamo ogni anno di più: mezzo punto per due decenni fa la differenza tra un paese ricco e un paese povero.

Era una ripresa illusoria, allora?
L'andamento positivo del 2015 doveva essere sfruttato per mettere in ordine i conti, razionalizzando la spesa pubblica e cominciando a intaccare il debito, ma così non è stato fatto.

Colpa di un approccio sbagliato?
L'errore è prima di tutto nell'analisi. La politica crede ancora alla tesi della crisi congiunturale, il problema invece è strutturale e ci accompagna da almeno vent'anni. Se, come spesso si sente dire, la spesa pubblica servisse a generare crescita, l'Italia dovrebbe crescere come la Corea. La spesa pubblica, in quantità limitate, può forse servire nei momenti difficili, ma su di essa non si costruisce la crescita.

Proviamo a mettere a fuoco le cause di questa stagnazione?
La prima è il debito pubblico, che zavorra la nostra economia. La seconda è la ridotta crescita della produttività, a cui non è estranea - fra l'altro - l'idea secondo la quale anche le attività poco efficienti debbano essere salvate. Non accettare che alcune aziende siano destinate a fallire significa non mettersi in grado di competere nel libero mercato.

Si poteva fare qualcosa di diverso?
Volendo andare all'origine, l'Euro è stata la vera scommessa persa per l'Italia. La moneta unica ci ha regalato anni di tassi di interesse sul debito pubblico molto vantaggiosi e, se li avessimo utilizzati in modo oculato avremmo potuto essere tra le economie migliori dell'Unione.

Esiste un modo per invertire il trend?
Certo, il primo passo sarebbe quello di impostare un piano serio di riduzione del debito e di revisione della spesa pubblica. Invece temo che non si farà, come non si è mai fatto, nulla del genere. Purtroppo ridurre la spesa non premia politicamente sulla breve distanza e nessun governo, nè di destra nè di sinistra, ha mai avuto il coraggio di incidere.

Tornando a parlare del governo Renzi, nell'ultimo anno l'Italia ha riconquistato un ruolo di rilievo in Europa. Potrebbe essere la chiave per rilanciare la crescita?
Il punto è come l'Italia sta utilizzando questa nuova centralità. Io temo che verrà usata per invocare dosi aggiuntive - qualche decimo di punto - della famosa flessibilità. Questo magari servirà a mettere una pezza al nostro bilancio, ma sicuramente non inciderà sul medio e lungo periodo. Né in Italia, né in Europa.

Il dato Istat rischia di spostare equilibri più politici, come l'esito del referendum di ottobre?
Difficile dirlo. Il bacino degli indecisi è talmente ampio che le variabili in gioco sono molte di più di un singolo valore negativo.

Eppure questi numeri incidono negativamente sulla fiducia dei cittadini...
Quando vengono pubblicati dati come questi, gli italiani toccano con mano la realtà, ovvero che non ci sono dei reali passi in avanti. La conseguenza è incertezza e anche disillusione e ciò che è peggio è che la politica non sembra, almeno per ora, in grado di indicare al Paese un diverso orizzonte.

Provando a guardare al sostrato imprenditoriale italiano, si legge qualche segnale positivo?
Le imprese italiane in questi anni hanno fatto un lavoro straordinario, che ha tenuto in piedi il Paese. Penso soprattutto alle aziende che hanno scelto di puntare sull'esportazione. Molte scontano un grosso limite, che è quello delle ridotte dimensioni, ma l'Italia ha in sè le potenzialità per fare cose straordinarie, sia grazie al suo capitale umano che alla sua capacità imprenditoriale. Questa scintilla, però, si sta lentamente consumando.

E cosa la sta spegnendo?
Fuor di metafora: la capacità imprenditoriale si costruisce e si misura nel libero mercato, non nei corridoi dei ministeri. In Italia, invece, c'è la tendenza - che spesso la politica asseconda - a preferire i secondi al primo.

IL FUTURO DEL CENTRODESTRA La profezia di Facci su Forza Italia: rivoluzione totale e Berlusconi...

È silenziosa, ma quanto sia maggioranza non sappiamo. La Milano che ieri si è riunita attorno a Stefano Parisi, in preparazione della convention «Energie per l' Italia» che ci sarà a metà settembre in via Watt, è qualcosa che nei pubblici ambienti del centrodestra, tutto sommato, non si vedeva da un po'. Forse è gente che restava a casa, o, se anche c' era, era coperta fisicamente e sonoramente da un altro genere di gente che ieri, appunto, non c' era. Non c' erano, ci pare, leghisti, non c' erano o quasi ex socialisti - a parte Parisi - e anche ciellini pochi, c' era molta Milano perbene quasi in continuità coll' adiacente pasticceria San Carlo, in generale pochi lustrini, niente macchinoni fuori, niente scosciate dentro, zero o quasi chirurgia estetica, molti professionisti, avvocati, commercialisti e dintorni, partite iva, in generale un sottotono compiaciuto in cui Parisi sguazzava come un pesce nella sua acqua, sgasata delle tare e delle contingenze di una campagna elettorale entusiasmante ma pur sempre perduta. Parisi non ha nessun carisma, non fa davvero niente per averne, anzi, della sua postura da amministratore delegato sembra fare un suo punto di forza cui aggiunge il sale di un' esperienza ex politica che gli consente di non fare gaffe, di non dire cazzate poi da risistemare, rettificare, controbilanciare.
In realtà, ieri, non ha detto praticamente niente di nuovo o speciale: a parte il ripetere che il 16-17 ci sarà questa convention (quella di ieri era la pre-convention, diciamo) con l' idea di fare poi dei gruppi di lavoro e organizzare conferenze analoghe in giro per l' Italia: l' obiettivo è un programma di governo. Non possiamo sapere se la Milano di ieri rappresentasse almeno in parte quel centrodestra (liberal-popolare, of course) che non votava più o quasi, disgustato, in fuga o con le valigie pronte: al limite ci assomigliava. Aveva un aria benestante e normale, sin troppo perbene, silenziosa ma non sappiamo quanto - appunto - maggioritaria in un Paese che tanto benestante non lo è più, e troppo milanese non lo è mai stato.
Diciamo subito che il rischio era che ci fosse troppo un' atmosfera da circoli del buongoverno 2.0, da club di Forza Italia modello Angelo Codignoni anno 1994, poi spazzati via dal centrismo berlusconiano e dal vacuo culturame dei circoli di Dell' Utri. Al Teatro San Carlo (che poi è un cinema, il palco non c' è) comunque c' era il pienone e cioè 300 persone palchi esclusi, tutto per pre-contarsi e ascoltare questo: «Non sta nascendo un nuovo soggetto politico, non stiamo costruendo un partito. Non siamo contro i partiti che ci sono e non vogliamo togliere spazio a nessuno.
La politica rischia di morire se guarda a se stessa, è autoreferenziale e teme il rapporto con la società e con la realtà.
Io non credo nelle forze politiche che nascono con il consenso della stampa ma non hanno il consenso della gente. Noi non facciamo Scelta civica. Riteniamo che serva una stagione che rafforzi, rilanci e aggiorni le idee di Silvio Berlusconi nel 1994. È da quelle radici che si parte. Non vogliamo essere un punto di raccolta dei partiti che in questi anni si sono separati da Forza Italia».
Da qui la domanda, giustificata: era comunque, quello di ieri, un esperimento pre-politico con appoggio esterno berlusconiano? Dalla fauna e dalla flora, diremmo proprio di no. Ieri di berlusconiano non c' era davvero nulla, tantomeno lo stile organizzativo e soprattutto la grafica essenziale (al confini del poverello) scelta per le «Energie per l' Italia», sottotitolo «Idee per riaccendere il Paese» simboleggiate da tre lampadine in tricolore messe in orizzontale. È vero che Parisi ha ricevuto queste benedette «diligence» da Berlusconi e cioè la richiesta di un piano per rilanciare Forza Italia: ma sicuramente, ieri, lo zampino del Cavaliere non c' era. Ecco perché i timori dei maggiorenti di Forza Italia, da mesi, suonano patetici. Anche perché quelli che indicano Parisi soltanto come un' invenzione di Berlusconi, in genere, sono stati un' invenzione di Berlusconi.
Quelli a cui Parisi pare una trovata troppo estemporanea, estratta dal cilindro, furono estratti dal cilindro e però intanto hanno fatto la muffa.
Quelli che trattano Parisi solo come un provvisorio consulente, un compilatore di rapporti - anzi, «diligence» - non sono più capaci nemmeno di fare consulenze e stendere rapporti, anzi diligence. Quelli che parlano da tutta l' estate a nome di Forza Italia, figurando come capi di questo e quello, sanno di non contare nulla ma si accontentano della forma, contano sull' impos-sibilità fisica del Cavaliere di occupare tutti gli spazi. Quelli che non gradiscono che l' espressione «liberal-popolari» possa sostituire l' espressione «centrodestra», poi, è perché sono di destra, e non sono liberal-popolari: punto. Quelli che accusano Parisi di essere un mezzo socialista, ex europeista, ex di sinistra, lo dicono perché Parisi è un mezzo socialista, ex europeista ex di sinistra: fine. Pur borghese e salottiero, quella di Parisi è la ripresa di una forma benpensante di «antipolitica» che i sedutissimi «politici» di Forza Italia, cooptati e mezzi morti di fama da talkshow, in effetti possono solo temere. Più che per meriti di Parisi, per demeriti loro.
di Filippo Facci