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lunedì 25 aprile 2016

Il tribuno della tele

Fenomenologia di Maurizio Crozza, che si è preso lo spazio vuoto dei talk-show ed è diventato il satirico unico delle coscienze. Antirenzismo, un po’ di grillismo, risate
di Maurizio Crippa | 23 Aprile 2016 ore 06:17
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Maurizio Crozza durante uno show. E’ l’evento televisivo degli ultimi anni: le sue battute sono una delle poche cose che dall’infotainment rimbalzano sui giornali
“Noi diciamo stupidità che muovono l’Italia” (Umberto Bossi, politico, prima metà degli anni Novanta del Novecento)

Martedì 22 marzo era la sera degli attentati di Bruxelles, ma anche la sera di “DiMartedì”, il talk di Giovanni Floris su La7. Quello con Maurizio Crozza – comico, attore, imitatore – che per l’occasione fa l’editorialista: “Siamo in guerra, la politica non lo dice ma noi comici lo sappiamo già”. “Giova, perché siamo in onda in giornate come queste? Come si fa a far ridere?”. Il Crozza del martedì, da un po’ di tempo, non ci sta più dentro nei vestiti dell’ospite-comico con compiti di siparietto, che al massimo punzecchia satirico ma conviviale i politici di turno sulla poltrona. No. Fa l’editorialista, fa un po’ il comizio, fa un po’ l’indignato, fa un po’ l’antitutto. C’è la guerra, sì. Gran puttana, la guerra: “Un po’ attacchi tu, un po’ attaccano loro… Noi coi droni, loro coi trolley”. Risate. Perché nella satira si ride sempre a squadre, lo insegnava già Paolo Rossi (il comico). Basta scegliere per sé la squadra dei buoni: “I raid anti Isis hanno fatto mille morti civili, ma la politica non lo dice”. Applausi. Ma soprattutto: “Giova, a che serve la politica?”.

Martedì 12 aprile era quello prima del referendum: “Io vado a votare per tre motivi. Primo, è un mio diritto. Secondo, è un mio dovere. Terzo, ha detto Renzi di non farlo”. Applausi. E il martedì seguente: “Altro che ciaone, a chi ha votato girano le trivelle”. Risate.

Crozza, la parte più appetitosa del talk-show. E infatti, da un po’ di tempo, la “copertina” di Crozza per Floris ha cambiato pelle. Senza nemmeno bisogno di travestirsi, è diventata un’imitazione delle letterine (o erano editti?) che Marco Travaglio declamava da Michele Santoro. La prevalenza del tribuno. Con un eccesso – forse involontario, forse è soltanto un Dna comune di liguri incazzosi – di grillismo. Di antipolitica. Poi, sta a vedere: Lui è un professionista, non un improvvisatore, sa fare tutti i ruoli in commedia: perché non anche il tribuno? Forse però la domanda giusta è un’altra: sarà lui che è diventato grande – persino ingombrante – o è il talk-show che si è ridotto? E poiché la televisione non tollera vuoti, laddove si restringe il conduttore finisce naturaliter che si allarghi il comico.

Il 16 ottobre del 1992 Bettino Craxi non aveva ancora ricevuto il primo degli avvisi di garanzia di cui la Procura di Milano di Piercamillo Davigo and partner in seguito lo omaggiò (il primo, il 15 dicembre 1992). Ma intervistato dal Corriere della Sera, un Beppe Grillo ancora lontano anni luce dal suo futuro suonava il de profundis alla satira (di sinistra) contro i potenti della politica: “Credo che per Serra e quelli di Cuore far ridere sia sempre più difficile perché frequentano troppo i soggetti di cui fanno satira”. Era ora di traslocare l’opposizione della risata in televisione, e da lì menare sciabolate al Sistema Politico in quanto tale. In fretta, i talk-show inglobarono la satira. Passò poco, e ne uccisero più Sabina e Corrado Guzzanti che i pm di Milano. Anni dopo, qualcuno avrebbe cominciato a parlare di “populismo mediatico”

 Domenica 24 aprile, domani, Maurizio Crozza festeggerà i suoi primi dieci anni su La7 con un “Crozza 10 anni” trasmesso in prime time per rievocare il decennio trascorso sulla rete di Urbano Cairo. Omaggio inevitabile: l’ultima puntata di “Crozza nel paese delle meraviglie” ha sfiorato il 10 per cento di share, meglio di un amuleto. Occasione per chiedersi: che cosa è successo, in questi dieci anni? Dove sono finiti i talk? E com’è che Maurizio Crozza è diventato il nuovo Tribuno della tele? Nato attore di teatro, passato al cabaret con i Broncoviz, esploso come imitatore (ma sulla Rai, a “Quelli che il calcio”) Crozza non era partito già bravo, già mattatore unico delle coscienze. Da ottimo professionista, ha lavorato e trovato a poco a poco la sua identità, modellandola insieme a quella della sua rete. Bravo anche a costruire una squadra di autori di tutto rispetto, una mezza dozzina, soprattutto il suo autore-spalla Andrea Zalone. Una macchina che gira a mille, con grande autonomia, ormai una vera e propria factory che fattura oltre dieci milioni a stagione e che viaggia oltre le medie di rete. Che piace al pubblico colto politicizzato e a quello generalista. Anche se poi sbaglia sui nuovi pubblici: la sua imitazione di Frank Matano, che ha indignato la community degli youtuber (gli youtuber sono un po’ come i grillini: reagiscono a branco) era scombiccherata, volgare.

Ma Crozza oggi è soprattutto l’unico che nella tv generalista italiana faccia ancora satira politica. C’è stata una grande morìa dei satiri, nel frattempo. Sarà la censura? Sarà che il renzismo è meno tollerante del fu berlusconismo bulgaro? Chi lo sa. “Di certo, l’aspetto principale è che la fine del berlusconismo ha trascinato nell’irrilevanza e fatto sparire tutta una generazione di comici che avevano come principale canovaccio e bersaglio Berlusconi”, annota Maurizio Caverzan, che sul suo blog CaveVisioni.it mette in ordine con pazienza i segnali del piccolo schermo e delle (grandi) politiche televisive. Sta di fatto che Crozza è rimasto. Solo. E con la forza del suo successo può permettersi di sparare al bersaglio grosso. Che si chiama Matteo Renzi. Fa quello che i talk, neppure quello di cui è ospite e traino su La7, sono più in grado di fare.

Il 10 gennaio 2013 potrebbe essere considerata la data di morte simbolica del talk-show politico. Fu quando l’Arcinemico di un ventennio, Silvio Berlusconi, spazzolò con il fazzoletto la sedia di “Servizio pubblico” su cui si era seduto Marco Travaglio, trasformando in un teatrino ormai destituito di ogni reale ostilità la sua ospitata da Michele Santoro. L’involontario (involontario?) effetto “combattenti e reduci” metteva una divertita malinconia, e ha segnato più di tante parole la chiusura di un’epoca basata su due poderose architravi: il dominio politico di un leader che incarnava la televisione tradizionale e il dominio mediatico del modello “Conduttore unico delle coscienze”, come lo sono stati Santoro ma anche Gad Lerner e vari epigoni minori. In ogni caso, un modello di comunicazione-informazione basato su un conduttore di forte personalità e di netto profilo politico, calato in un quadro in cui “l’evento” del talk funzionava da parlamentino del dibattito pubblico e da catalizzatore dell’agenda nazionale. Non sono soltanto i dati dell’Auditel a certificare che, in meno di tre anni, quel modello è divenuto obsoleto. “Oltre alla mancanza di conduttori di personalità forte, c’è da tenere soprattutto in conto l’effetto di saturazione dovuto all’eccesso di programmi simili e intercambiabili”, spiega il critico televisivo del Corriere, Aldo Grasso. Al che va aggiunta una classe politica disponibile alla presenza televisiva molto scarsa. “Di fatto è rimasto solo Vespa, che non per niente è il più tradizionale di tutti e quello che sa più diversificare ed è sempre stato lontano dal modello del talk politico. Il fatto che Matteo Renzi vada solo da lui, o piuttosto da Barbara D’Urso, la dice lunga”. Già. Perché poi c’è Renzi che polemizza, ogni quando può, con i talk-show, quelli in cui stanno chiusi gli “autorevoli ospiti” a pontificare contro le trivelle: i veri sconfitti dal paese reale che non ha votato. Il talk come specchio del paese irreale della chiacchiera e della demagogia politica. Nonostante le repliche alla Massimo Giannini, “l’essenza del renzismo è fare a meno dei giornalisti”, i talk sono morti. Ma l’odio del premier per la formula del salotto politico ha un senso: per due decenni, “quello è stato il luogo dell’intermediazione politica”, dice Grasso, il luogo in cui le idee erano rappresentate, nel senso di messe in scena, e le posizioni mediate, offerte alla sintesi. Ma a Renzi, si sa, tutto ciò che è intermediazione e concertazione non piace.

Così, nel grande vuoto, Maurizio Crozza galleggia e giganteggia come un dirigibile Zeppelin. La morte del talk, del resto, l’ha inscenata lui stesso: nella parodia di “DiVenerdì”, nei panni di “Giova” Floris con la sua scaletta di argomenti inverosimili e soprattutto con l’imitazione dei personaggi che hanno fatto la storia del talk e che ormai sono ridotti a parodia di se stessi: Cacciari che insulta, Luttwak il cannibale e Freccero (il suo amico Freccero) che ripete “il talk è morto, voglio riportare Gino Bramieri in Rai”. Critica della televisione. Chapeau. E’ notevole che il rivale di Floris, il “Ballarò” Rai di Giannini, abbia inserito in scaletta la Gialappas’ esattamente con la stessa funzione di traino dell’ascolto.

Ma in tutto questo Crozza – che è l’evento televisivo degli ultimi anni: le sue battute sono una delle poche cose che dall’infotainment rimbalzano sui giornali – è diventato qualcosa d’altro. “Renzi-dentone is back, ne sentivamo la mancanza. Maurizio Crozza è tornato al suo bersaglio prediletto”. Caverzan è stato tra i primi qualche settimana fa a collegare il ritorno dell’imitazione del premier ai sommovimenti politici ed editoriali. Dopo che nelle prime serate della nuova stagione, “in concomitanza con le sirene della Rai, la caricatura del premier era curiosamente desaparecida”. Invece nelle ultime settimane Crozza ha iniziato a sparare a palle incatenate su Renzi. Chissà se dietro c’è anche il tramonto dell’ipotesi di passare in Rai. Colpa delle manovre un po’ complicate del suo agente Beppe Caschetto, il Mino Rajola della tv italiana? Colpa di un antirenzismo troppo militante, ingombrante e scomodo da gestire per la Rai di Antonio Campo Dall’Orto? Ah, saperlo. A suggerire una risposta ci pensa direttamente Carlo Freccero. Che è ligure pure lui e amico di Crozza (“ma noi per volerci bene ci insultiamo”), nonché vittima e complice della sua parodia in tv: “A me spiace tanto che non ci vada, in Rai, ma forse non è il momento. E invece lui sarebbe perfetto, sarebbe l’antidoto al conformismo che ormai domina. Ormai non si può più parlare di Renzi”. Allora è vero che Crozza si è trasformato in un tribuno filo-grillino? “Ma no, tribuno non direi. Lui è un comico raffinato, un grande parodista. L’unica verità è che il talk non c’è più, e nemmeno la satira. Sono cambiati i linguaggi e c’è troppo conformismo. E’ per questo che lui emerge, perché è bravo e fa le cose liberamente”.

Così, probabilmente, continuerà su La7 (anche perché Cairo non vuol mollare il suo primatista di ascolti, seppure il contratto scada a fine 2016). Continuerà lì a sfottere l’appassionata liaison tra Renzi e Maria Elena Boschi: “Santa Boschi protettrice, gufo chi non te lo dice… Ha abolito il Senato, ha cancellato il bicameralismo perfetto, ha modificato la legge elettorale, ma soprattutto: ha portato il lucidalabbra in Consiglio dei ministri”. E soprattutto a dispensare dosi non omeopatiche di antipolitica: “Davvero, a cosa serve la politica? Renzi ha detto ‘vi spiego il segreto per governare senza avere in maggioranza Verdini e Alfano: vincere le elezioni del 2013 che abbiamo perso’. In tre parole ha detto che Verdini è in maggioranza, e che lui non ha vinto le elezioni”. Grillismo? Satira d’opposizione? Semplice talento dello show? Chissà. Ma perché autocensurarsi, se poi è probabile che non serva a trovare un altro ingaggio? Crozza stesso ci ha giocato su, sugli intrecci tra il suo onnipotente agente Caschetto (“Sai quando si dice in Italia decide la gente? Ecco, è lui: l’agente, elle apostrofo. Tutto quello che succede in Italia, Rai Mediaset La7 surriscaldamento globale, decide lui… Secondo voi chi ce l’ha messo Renzi a Palazzo Chigi?”), il suo datore di lavoro Cairo e Renzi (“ti ha mandato un messaggino Renzi?”).

Resta la mutazione genetica, nell’epoca del galleggiamento dello Zeppelin. Per Aldo Grasso, bisogna distinguere le cose. Da un lato la capacità di fare spettacolo, in una fase di ribasso della comicità e di sfinimento del talk politico. Dall’altra i dubbi sulla deriva tribunizia: “Non mi piacciono i suoi editoriali da Floris. La caricatura di Renzi va benissimo, ma quando diventa comiziante, un po’ alla Travaglio televisivo, un po’ alla Grillo ultima maniera, non funziona”. E il difetto è strutturale, secondo Grasso: “E’ che così fa l’ideologo, ma senza assunzione di responsabilità. Lui non fa un talk politico-satirico all’americana, prendendosi tutto il rischio di quello che dice e fa. Si limita a rimanere l’ospite di Floris, l’editorialista. Ma è una posizione debole”. O comoda, come un Tribuno della tele.

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