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giovedì 22 dicembre 2016

De Giovanni: «La politica distrutta dall’invadenza delle magistrature»


L’analisi del filosofo sul vuoto della democrazia e il predominio del potere giudiziario
INTERVISTE Errico Novi 22 Dec 2016 11:57 CET   
Si può comprendere il mondo e ammettere di non riuscirci. Può farlo solo un grande filosofo. Biagio De Giovanni ha dalla sua non solo il pregio di entrare nella definizione, ma anche la luce di ottantacinque anni, compiuti ieri e segnati in gran parte dalla riflessione rigorosa e appassionata nello stesso tempo. Ne regala una sulla giustizia, e più precisamente sulla perdita di ogni equilibrio tra i poteri, la politica da una parte, «le Corti, le Alte Corti innanzitutto» dall’altra. Un intervento sul Mattino di sabato scorso mette in fila in un sol colpo l’urgenza di superare l’obbligatorietà dell’azione penale, l’ineludibilità della separazione delle carriere, l’impossibilità di contrastare il «populismo giustizialista». Il caso vuole che siano anche le battaglie in cui s’impegna con tutte le forze da anni l’avvocatura. Il professore di Dottrine politiche, ex europarlamentare del Pci e oggi appunto editorialista di Mattino e Corriere della Sera, individua nella «invadenza della giurisdizione» un fenomeno caratteristico della crisi e una concausa della perdita di autorevolezza delle élites. Nel giorno in cui compie ottantacinque anni, è facile chiedere a un filosofo come De Giovanni di fingere la resa di fronte al caos, per trovare molte risposte.
Anche la magistratura può temere una perdita di consenso? E dietro il ritorno a una invadenza della giurisdizione nei confronti della politica si nasconde anche un timore, tra i magistrati, di perdere popolarità?
In prima battuta mi sentirei di respingere l’ipotesi. C’è sfiducia, scetticismo, disincanto e rifiuto in una forma così violenta nei confronti delle élites politiche che non si riesce a scorgere qualcosa di analogo che riguardi la magistratura. E anzi l’impressione è che mai come adesso l’azione dei magistrati si dispieghi a tutto campo, dalla frittura di pesce a fatti più consistenti. È un’invadenza che non ha precedenti, e che certo si inserisce in un processo iniziato con Mani pulite, passaggio che ha alterato la fisionomia stessa del rapporto tra poteri.
Capita però che alcune sentenze non soddisfino appieno l’attesa alimentata dal “populismo giustizialista”: a Roma una condanna a 20 anni anziché all’ergastolo, per un omicidio, ha scatenato un putiferio in aula, solo qualche giorno fa.
I casi estremi si verificano. Resta fermo un punto: sono le cosiddette élites politiche dominanti ad essere travolte da quella tendenza del senso comune che faticosamente continuiamo a individuare come populismo giustizialista. Renzi era leader da appena 3 anni eppure, come ho detto dopo l’esito del referendum, è stato interpretato come nuova casta. La vecchia, per converso, è diventata vergine, da De Mita a D’Alema. Ma c’è qualcosa di vero anche nel dissolversi della fiducia nei magistrati: oggi persino il giudizio penale si muove nell’incertezza della decisione. Prima si condanna, poi si assolve, sembra divenuta impalpabile persino la certezza del diritto. Anche questo canone delle vecchie società è crollato.
Non esiste insomma un potere che regga, in questa destrutturazione.
È possibile che la sfiducia nella magistratura ci sia in una forma più indiretta. Il dispregio verso l’élite politica resta però l’aspetto decisivo del nuovo ordine mondiale, chiamiamolo così, che si va delineando. Una tenuta si registra forse in Germania dove il sistema ha una forza formidabile, ma persino negli Stati Uniti capita che Hillary, ritenuta espressione dell’establishment, ceda a Trump, che non è nessuno, un uomo d’affari, eppure 60 milioni di persone nel Paese più potente al mondo l’hanno votato.
Si delegittima la politica: ma così il potere scivola nelle mani di altri soggetti, le élites finanziarie per esempio.
Non c’è dubbio. Nel 2008 abbiamo assistito a una prima grande crisi della globalizzazione, di natura finanziaria, ora siamo nel pieno di nuova crisi, politica. E una fenomenologia di questa fase è l’invadenza delle giurisdizioni.
Qual è il meccanismo preciso che spalanca le porte a questa invadenza?
Nessuno è in grado di governare la complessità del mondo ed emergono poteri indiretti, non legittimati. Nell’intervento apparso la settimana scorsa sul Mattino segnalo anche il predominio delle Alte Corti sui Parlamenti. Che può sembrare un grande fatto di civiltà, e in parte lo è: ma se una Corte costituzionale prevarica il potere legislativo, si arriva alla distruzione dell’autonomia della politica.
Lei sostiene che si tratta di un pericolo sottovalutato.
Siamo su un crinale che visto nel suo insieme deve necessariamente preoccupare, e molto. Nello specifico si tratta di un tema delicatissimo, di cui si parla con frequenza nel resto d’Europa ma non in Italia, per timore che il solo accenno possa fraintendersi come volontà di intaccare le prerogative della Corte costituzionale.
La causa decisiva di questo squilibrio è nella perdita di autorevolezza della politica?
Sicuramente, e temo si tratti di uno squilibrio non rimediabile a breve.
Perché?
La delegittimazione della politica innesca un circolo vizioso che peggiora la qualità della classe dirigente e induce ulteriore delegittimazione. È veramente difficile che ora come ora una persona di spessore si impegni in un ruolo politico o amministrativo, sapendo che al primo stormir di foglie l’obbligatorietà dell’azione penale entra in campo, e arrivano i pm, e arriva la Guardia di finanza… Non è che voglio sottovalutare il grado di degenerazione corruttiva che c’è in Italia, non è questo il punto, ma se i pm oltrepassano ogni confine, mi domando chi ancora possa decidere di mettersi in politica, se non un disperato in cerca di lavoro, per non dire di peggio. Chi è che si va a impegnare in un’attività amministrativa, in condizioni simili? È un pasticcio gigantesco, siamo di fronte a un caos difficile da descrivere, figurarsi a volerlo dominare.
Non è che i cosiddetti privilegi della casta, dai vitalizi alle immunità, sono in fondo garanzie a tutela di chi nel dedicarsi alla politica mette a rischio il proprio ruolo sociale?
Non c’è dubbio che sia così. E aggiungo: nel Parlamento di oggi c’è ben poco che corrisponda alla condizione di un’assemblea elettiva nazionale, i deputati sono cani sciolti, non sopravvive più alcuna struttura mediana che garantisca l’effettiva espressione della sovranità popolare. E a proposito di garanzie, fino ai primi anni Novanta era necessario ricorressero condizioni davvero molto particolari perché un’assemblea parlamentare potesse perdere un proprio componente. Il che non aveva a che vedere con un privilegio abusivamente autoassegnato da una casta di impostori, ma con il fatto appunto che il Parlamento è espressione del popolo sovrano, e in quanto tale la sua collocazione è sacra, va tutelata, fino a un certo limite che sia in armonia con lo Stato di diritto. Ma sfido a dire che le norme sull’immunità non lo fossero.
Lei ha scritto: “La politica diventa qualcosa in cui si preferisce non immischiarsi, sempre più abbandonata dai migliori”. Oltre all’invadenza della giurisdizione, c’entra anche la retorica anti- casta?
È un’ulteriore elemento che mette in discussione la qualità della classe dirigente. Intendiamoci: il fenomeno di cui parliamo non esiste solo in Italia, segna l’intero Occidente, come ricordato a proposito di Trump, anche se da noi assume un carattere di gravità eccezionale. Il tratto generale della crisi delle élites politiche, che si vede non solo in Italia, è nell’impossibilità di cogliere un punto di mediazione tra globalismo sovranazionale, cosmopolita, da una parte, e le appartenenze, le identità, dall’altra.
In che modo questo spaesamento ci porta alla crisi della rappresentanza?
Innanzitutto è in questo vuoto che si accresce il peso di poteri diversi, da quello finanziario al potere giudiziario. Ma la risposta in sintesi è nel caso a noi più vicino: l’Europa si è dimostrata incapace di governare la complessità della crisi finanziaria e politica che si è affacciata nel 2008. Noi non possiamo limitarci a descrivere con tono disgustato i critici delle élites, dobbiamo anche criticare le élites stesse. Non possiamo ignorare cioè le ragioni del cosiddetto populismo, lo scollamento complessivo tra governanti e governati. Non è che tutto sia riducibile alla cattiveria o alla superficialità di chi alimenta la propaganda antisistema: è impossibile negare il fatto che non ci sia una cultura politica in grado di governare la complessità di questa crisi.
Il che non è un giudizio opinabile: è un fatto.
Be’, abbiamo davanti un’intera generazione distrutta. E appunto non è che si può risolvere tutto con il dito puntato contro i populisti brutti, sporchi, cattivi e urlanti. Dentro quel buio ci sono delle ragioni, non è che nasce dal nulla. Nasce dal fatto che nessuno, tantomeno le élites, riesce a trovare le passerelle di passaggio dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale.
Lei sul Mattino individua l’urgenza di una riforma della giustizia, e precisamente due passaggi: superamento dell’obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere. La prima delle due questioni non sarebbe perfetta, come terreno di incontro tra politica e magi- stratura per una riforma, diciamo, concordata dell’ordinamento giudiziario?
E sì che lo sarebbe, naturalmente, ma abbia pazienza: davvero possiamo pensare che ci sia una politica così autorevole da poter sollevare il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale? Prendiamo ad esempio il governo appena sconfitto dal referendum, che pure qualcosa provava a farlo, ma che proprio sulla giustizia non è riuscito a muovere alcuna delle questioni decisive di cui parliamo. Penso al ministro, Andrea Orlando, a questo giovane pure così dinamico, che è riuscito a fare dei passi significativi su un tema difficile come il carcere: ecco, come mai anche lui su punti come obbligatorietà dell’azione penale e separazione delle carriere non ha detto niente per tre anni?
Ha detto, per essere precisi, che non c’erano assolutamente le condizioni minime perché si potesse anche solo discutere di temi del genere.
Appunto: alludeva evidentemente al fatto che se ci avesse provato avrebbero subito detto ‘ ecco gli amici dei corrotti stanno provando a derubricare l’obbligatorietà dell’azione penale’. Non è che si sarebbe riconosciuta la necessità di razionalizzare l’arbitrio.
Non c’è margine di discussione, nel senso comune si è diffuso un riflesso condizionato che stronca in radice ogni tentativo su questo fronte.
Nessuno vuol negare il rischio che superare l’obbligatorietà schiuda il rischio di un controllo della giurisdizione da parte dell’esecutivo, come avviene in Francia: eppure deve esserci una diga al potere assoluto dei pubblici ministeri. Qui a Napoli è girata la notizia di una misura chiesta dalla Procura, e negata dal gip, in cui l’ accusa di corruzione si basava sul fatto che l’indagato offrisse spesso alla controparte caffè e cappuccini.
Considerare corruttivo il pagamento di un caffè a Napoli è oggettivamente una bestemmia, senza dover scomodare Luciano De Crescenzo.
Nel ridicolo farsa e tragedia si mescolano sempre.
Figurarsi se esiste un margine per discutere di separazione delle carriere.
Non c’è possibilità. Dovremmo trovarci con una classe dirigente politica talmente autorevole, dotata di una tale legittimazione da essere in grado di sfidare anche l’ordalia che verrebbe inevitabilmente scatenata dall’Associazione nazionale magistrati. La quale arriverebbe a forme di contestazione estrema, allo sciopero, iniziative gravi che un ordine giudiziario non si dovrebbe consentire. Ecco, possiamo dire che quando ci troveremo con una classe politica in grado di inoltrarsi su un terreno così accidentato allora potremo dire di essere usciti dalla crisi.

martedì 13 dicembre 2016

AUTOVELOX: ECCO COME DIFENDERSI DALLE MULTE ILLEGITTIME

Autovelox, ecco come difendersi dalle contravvenzioni illegittime

ROMA - Gli autovelox sono uno strumento che fa tremare migliaia di automobilisti che, spesso distrattamente, passano davanti ad essi superando i limiti di velocità consentiti, per poi vedersi recapitare a casa multe anche molto salate e inaspettate.Ma non sempre le contravvenzioni che derivano da un accertamento tramite autovelox sono legittime.

Una vera e propria svolta in materia è stata compiuta dalla tanto attesa sentenza n. 113/2015 della Corte costituzionale, con la quale si è stabilito che gli apparecchi di rilevazione della velocità sulle strade devono essere necessariamente revisionati periodicamente, altrimenti sono irregolari e le multe che derivano da un loro rilevamento illegittime.

In sostanza è stato dichiarato non in linea con i precetti costituzionali l'articolo 45 comma 6 del Codice della Strada. Con la conseguenza che tutte le multe comminate attraverso autovelox non revisionati e non ancora pagate, a seguito della pronuncia della Consulta potranno essere annullate. Ma con una precisazione: per legge la necessità di revisione riguardava gli autovelox fissi e non quelli utilizzati dalle pattuglie nelle postazioni di controllo mobili.

Per questi ultimi, infatti, spesso la corretta funzionalità dell'apparecchio era accertata dall'operatore prima dell'inizio dell'attività di controllo e attestata in un apposito verbale. A seguito della sentenza della Consulta è, quindi, più impellente la necessità di correre ai ripari.

Anche a prescindere da quanto stabilito dalla Corte costituzionale, e quindi anche in caso di apparecchi revisionati, è tuttavia necessario che l'autovelox risponda a certi requisiti onde poter legittimamente giustificare l'irrogazione di sanzioni.Innanzitutto il modello utilizzato deve essere omologato dal ministero dei trasporti e i suoi estremi devono essere riportati nel verbale di contestazione.

Essi, inoltre, devono essere segnalati adeguatamente attraverso cartelli stradali e dispositivi luminosi che ne preannuncino la presenza. Secondo quanto ribadito più volte dalla Corte di cassazione, ad esempio con l'ordinanza n. 5997 del 14 marzo 2014, in difetto di idonea informazione circa la presenza e l'utilizzazione di autovelox, il relativo verbale di contestazione è illegittimo e tale principio non può essere svuotato di efficacia “nell'ambito dei rapporti organizzativi interni alla pubblica amministrazione”.

In particolare, la distanza tra i segnali o i dispositivi di avviso e il luogo in cui è collocato lo strumento di rilevamento delle velocità non può mai essere inferiore a 1 km o superare i 4 km ed è condizionato dallo stato dei luoghi: ad esempio, se tra il segnale di avviso e il luogo dell'effettivo rilevamento vi siano intersezioni, l'autovelox non è legittimo anche se la segnaletica è posta a una distanza inferiore a quella sovra indicata.

In tal senso, chiarissima è anche la sentenza n. 24526/2006, la quale precisa che “la ratio della preventiva informazione si rinviene nell'obbligo di civile trasparenza gravante sulla P.A., il cui potere sanzionatorio in materia di circolazione stradale non è tanto ispirato dall'intento della sorpresa ingannevole dell'automobilista indisciplinato, in un logica patrimoniale captatoria, quanto da uno scopo di tutela della sicurezza stradale e di riduzione dei costi economici, sociali e ambientali derivanti dal traffico veicolare, nonché di fluidità delle circolazione, anche mediante l'utilizzo di nuove tecnologie”.

Affinché la contestazione sia valida, inoltre, è ovviamente necessario che sia indicato il limite di velocità ma anche, secondo quanto stabilito dalla Corte di cassazione con l'ordinanza n. 11018 del 20 maggio 2014, che, in caso di incrocio, il segnale del limite di velocità venga riproposto.

I requisiti di legittimità degli autovelox: le strade urbane sulle quali possono essere posizionati e la necessaria presenza di un agente preposto al servizio di polizia. Altri due requisiti sono particolarmente rilevanti e da conoscere nel caso in cui si voglia tentare una difesa rispetto a una multa comminata attraverso l'utilizzo degli autovelox.

Innanzitutto tali apparecchi possono essere posizionati incondizionatamente solo sui percorsi extraurbani.
Nel caso in cui essi siano posizionati su percorsi urbani ordinari, invece, le relative multe sono sempre annullabili, anche se vi sia stato il nullaosta del prefetto: l'installazione dell'autovelox nelle strade urbane, infatti, è valida solo per quelle ad alto scorrimento caratterizzate da pericolosità, traffico o difficoltà nel fermare il veicolo.

Inoltre, come stabilito nell'ordinanza n. 680/2011 della Corte di cassazione, dal verbale della multa deve necessariamente e in ogni caso emergere la presenza di un agente preposto al servizio di polizia nella fase di elaborazione dell'accertamento, cosa che rischia di non essere garantita nel caso in cui il comune interessato esternalizzi totalmente la gestione del servizio.

In ogni caso la giurisprudenza in materia è ricca e variegata e le ipotesi in cui le multe irrogate attraverso tali apparecchi sono state considerate illegittime molteplici.

venerdì 9 dicembre 2016

Risultati dei sondaggi Demopolis


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Referendum Costituzionale: analisi post elettorale

Quasi 6 italiani su 10 hanno deciso di bocciare la Riforma Costituzionale. Con l’unica eccezione degli elettori all’estero, il No ha vinto in tutte le macro-aree del Paese, ottenendo il 56% al Nord, il 57% al Centro e sfiorando il 70% al Sud e nelle Isole.
L’Istituto Demopolis ha analizzato le scelte degli elettori per fascia di età. Hanno votato No, in modo netto, le nuove generazioni: tra gli under 35, sette su dieci hanno bocciato la riforma. Tendenzialmente vicina al dato nazionale è stata la scelta della fascia tra i 34 ed i 64 anni, mentre il Sì ha prevalso di poco soltanto tra quanti hanno superato i 64 anni.
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A due settimane dal voto, con il No in vantaggio, due incognite pesavano sulla sfida referendaria: 7 milioni di cittadini si dichiaravano ancora incerti sulla scelta di voto; oltre 5 milioni affermavano di non aver ancora deciso se recarsi alle urne o astenersi. Nell’analisi post elettorale, l’Istituto Demopolis ha studiato le scelte degli italiani che hanno deciso se e come votare negli ultimi 15 giorni: su 100 elettori che a metà novembre apparivano incerti sulla partecipazione e sul voto, appena 19 hanno optato per il Sì, 38 hanno scelto di restare a casa. 43 su 100 hanno deciso di votare No al Referendum Costituzionale.
Se gli elettori del Partito Democratico e della Lega apparivano in ampia misura già da tempo intenzionati a recarsi alle urne, la partecipazione è cresciuta negli ultimi giorni soprattutto tra gli elettori del M5S e di Forza Italia.
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Sembra aver prevalso, anche tra molti elettori politicamente non collocati, la volontà di esprimere un giudizio sul Presidente del Consiglio e sul Governo. Demopolis ha indagato le ragioni del Sì e del No.
Tra quanti hanno optato per il Sì, il 34% motiva la scelta con l’apprezzamento della Riforma, il 25% per dare continuità al Governo Renzi; il 41% per entrambe le ragioni.
L’Istituto Demopolis ha chiesto poi a chi ha bocciato la Riforma: per quale ragione, prevalentemente, ha votato No al Referendum? Il 33%, un intervistato su tre, attribuisce la sua scelta ad uno scarso apprezzamento della Riforma; il 67% afferma invece di aver votato No per interrompere l’esperienza del Governo Renzi.
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Barometro Politico Demopolis: come cambia il consenso

Se si votasse per le Elezioni Politiche, il Partito Democratico avrebbe oggi il 32,2%, il Movimento 5 Stelle il 30,5%: è la fotografia scattata dal Barometro Politico dell’Istituto Demopolis. Poco sotto il 12% la Lega e Forza Italia; più distanti, Fratelli d’Italia, Sinistra Italiana ed Area Popolare.
Nell’attuale scenario politico la soglia del 40% appare difficilmente raggiungibile al primo turno.
In attesa di una definizione della legge elettorale per Camera e Senato, l’Italicum, applicabile solo per la Camera dei Deputati e che porta al ballottaggio le prime due liste, non favorisce lo schieramento di Centro Destra, oggi diviso. La partita riguarderebbe dunque, per il momento, il PD e il M5S.
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Secondo i dati odierni, in un ipotetico ballottaggio con l’Italicum per la Camera dei Deputati, il Movimento 5 Stelle, con la sua trasversalità politica, supererebbe, 52-48, il Partito Democratico.

sabato 3 dicembre 2016

Il partigiano Diavolo vota Sì: «Solo i primi 12 articoli della Carta non si toccano»

su "ildubbio.news"di Franco Insardà2 dic 2016 11:03 GMT
Nicolini: «L'atteggiamento dell'Anpi è sbagliato: un'organizzazione ha il diritto di esprimere la propria posizione, ma non può impedire ai suoi iscritti di avere un'idea diversa»
El Dievel non molla. Resiste. Germano Nicolini, il comandante Diavolo appunto, uno dei protagonisti della Resistenza in Emilia Romagna, in questi mesi è stato tirato in ballo da chi ha cercato di strumentalizzare le sue posizioni sul voto di dopodomani. Lui fieramente ha sempre replicato: «Ho lottato per tutta la mia vita per la libertà e oggi che ho 97 anni compiuti a novembre lo riaffermo con forza».
La storia del comandante Diavolo fa parte della nostra storia. Durante la Seconda guerra mondiale Nicolini fu fatto prigioniero a Tivoli dai tedeschi, ma riuscì in maniera rocambolesca a fuggire, come un dievel, e a partecipare alla guerra di Liberazione. Ha guidato nella Bassa reggiana il 3° battaglione della 77ma Brigata "Fratelli Manfredi", composto da 900 partigiani, partecipando a tredici scontri a fuoco e due battaglie campali contro i nazifascisti. Alla fine della guerra, a 27 anni, è eletto sindaco della sua Correggio anche con i voti dei consiglieri di opposizione della Democrazia cristiana. Ma nel 1947 è accusato ingiustamente di aver ucciso sulla porta della canonica don Umberto Pessina, insieme con Antonio Prodi ed Elio Ferretti. Nel 1950 Nicolini viene condannato a ventidue anni di reclusione. A nulla valsero le testimonianze che affermavano che nel momento dell'omicidio di don Pessina el Dievel stava giocando a bocce con amici in un paese nelle vicinanze. Sconta 10 anni di carcere. Nel 1990 l'onorevole Montanari riesce a fare riaprire il processo e grazie alle testimonianze dell'epoca si individuarono in tre persone gli assassini di don Pessina, mentre i reo confessi, Catellani e Righi, erano soltanto in due. Spunta il terzo uomo, William Gaiti, che si accusa di aver fatto parte con gli altri due del commando che aveva ucciso don Pessina. Gaiti, Righi e Catellani nel '93 vengono condannati per l'omicidio del parroco, mentre per Nicolini, Prodi e Ferretti l'8 giugno '94 vengono assolti «per non aver commesso il fatto». Nel marzo 1997 gli è stata conferita la medaglia d'argento al valore militare per la sua attività partigiana. A lui i Modena City Rambles hanno dedicato la canzone Al Dievel, che fu poi modificata, con la voce narrante dello stesso Nicolini. «Pensi un po', nel testo c'era scritto che io non avrei voluto fare la spia. Ma io non sapevo nulla! ». Luciano Ligabue, anche lui di Correggio, gli ha dedicato un testo intitolato Il Diavolo. E chissà se Zucchero quando ha scritto il suo Partigiano Reggiano non abbia pensato pure lui al Dievel.

Comandante, allora la sua idea sulla riforma costituzionale è chiara.
Lo sto dicendo da mesi, mi sono pentito di aver espresso il mio pensiero, ma non ho cambiato parere. La Costituzione non va toccata nei primi 12 articoli, che rimangono per me il Vangelo. Ma il resto si può riformare, si deve velocizzare. Il mondo è cambiato, esistono oggi problematiche di ordine economico e tecnologico completamente diverso da allora. Tutto è più veloce. Certo bisogna fare in modo che le forze sane del Paese, quelle che producono ricchezza, non legate alla finanza fine a se stessa, che guardano con attenzione alle esigenze sociali e ambientali, si mettano insieme per garantire un futuro migliore alle nuove generazioni. Già nel 1953 Pietro Calamandrei scrive che la Costituzione nasce su quei valori che sono richiamati nei primi dodici punti, non è un fatto astratto solo idealistico, ma risente del momento storico. Anche allora, probabilmente, c'era la consapevolezza che sarebbe bastata una sola Camera, ma il timore da parte del Pci e della Dc che una delle due forze potesse sovrastare l'altra determinò il sistema bicamerale.

Lei che ha combattuto per la libertà del nostro Paese e per l'unità come si sente oggi in un'Italia divisa su questa riforma referendaria?
Questa è la mia preoccupazione maggiore e lo è sempre stata. Adesso si è accentuata, perché credo che ci sia un fenomeno come quello della globalizzazione, che rappresenta il nuovo dell'economia, con degli aspetti positivi dell'apertura dei mercati e della circolazione degli uomini, ma con una eccessivo sfruttamento di risorse e persone per l'interesse di pochi. Mi auguro che le forze giovanili riescano a mettersi d'accordo. In più di un'occasione mi sono permesso di dire ai giovani di guardare avanti, perché la loro patria è l'Europa. Se fossi giovane mi batterei per affermare questi valori.

Il referendum ha sollevato polemiche anche all'interno dell'Anpi e lei, in qualche modo, ne è stato coinvolto.
Secondo me è stato un errore. Un'associazione ha tutto il diritto di esprimere la propria contrarietà alla modifica della Costituzione, ma non può impedire che i suoi iscritti abbiano un'idea diversa. Ogni organizzazione ha il diritto di un pronunciamento collettivo. Lo stesso vale per i partiti.

Qual è l'ultimo partito al quale è stato iscritto
Non sono renziano e non ho la tessera del Pd. Sono stato iscritto a un unico partito: il Pci. Dal 1971 non ho più rinnovato la tessera, perché c'è stato un comportamento delle classi dirigenti nazionali e regionali, non di quelle comunali, ostile alla revisione del processo che mi ha visto protagonista per cinquant'anni. Quando un uomo onesto come l'onorevole Otello Montanari (presidente dell'Istituto Alcide Cervi e dirigente dell'Anpi, ndr) il 29 agosto 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino, sul Resto del Carlino pubblicò il famoso articolo "Chi sa parli", dove invitava a far luce sui delitti compiuti nel Dopoguerra, molte cose sono cambiate. I giornalisti si sono interessati alla mia storia, pubblicata anche nel mio libro Nessuno vuole la verità, e finalmente siamo arrivati alla fine. Ma se non fossi stato decorato con la Medaglia d'argento avrei rischiato l'ergastolo. Anche per questa vicenda ho combattuto, mi sono battuto e, dopo aver fatto la Resistenza contro i nazifascisti, ne ho fatta un'altra, durata cinquant'anni, per far emergere la mia innocenza. Il Pci non voleva la verità, anche la Chiesa era sulla stessa posizione. Era necessaria una grande forza morale per resistere contro queste forze, schierate per evidenti motivi politici contro un giovanissimo sindaco.

C'è, ovviamente, differenza con la situazione che avete affrontato durante la Resistenza.
Non sono abituato a fare della retorica, ma va ricordato che allora siamo partiti da posizioni politicamente immature, giustificate da venti anni di fascismo e molti giovani non sapevano neanche che cosa fosse la democrazia. Vivevamo in un Paese disastrato dalla guerra, con delle responsabilità individuabili in chi aveva governato. I motivi dell'adesione alla causa partigiana erano di varia natura. Io, per esempio, ero uno studente universitario di estrazione contadina e cattolica con un fortissimo sentimento antitedesco e con la consapevolezza del Paese distrutto. Tra noi partigiani c'erano varie anime e divisioni, avevamo la forte esigenza di unità nell'obiettivo fondamentale della cacciata dei tedeschi. Avevamo delle aspirazioni che sono state perfettamente raccolte e sintetizzate nella Carta costituzionale da un ceto intellettuale molto preparato.

E oggi?
La preoccupazione dovrebbe essere quella di cercare di ricucire, di unire le forze del lavoro, quelle produttive, i ceti medi, affinché tentino di formare un governo di unità nazionale. Con gli estremismi che sono in campo com'è possibile trovare un'unità di intenti? Parliamo di gruppi che si oppongono all'idea di un'Europa unita, che sono contrari all'accoglienza dei migranti.

Nel 2012 con lo storico Massimo Storchi ha pubblicato il libro intervista Noi sognavamo un mondo diverso. Il sogno si è realizzato?
Purtroppo ancora no. Nella Resistenza siamo partiti, come le dicevo prima, politicamente immaturi, ma piano piano ci siamo formati delle convinzioni più chiare. Ma certo noi non avevamo a disposizione tutte le informazioni di cui dispongono i giovani di oggi.

domenica 27 novembre 2016

Sulle Alpi Apuane, lassù dove combatterono i soldati brasiliani

FATELO SAPERE A QUELLI DELL'ANPI!!!

Cosa ci fanno quelle scritte in portoghese su un cartello indicatore verde-oro, come la bandiera del Brasile?
Sotto i nostri piedi, un migliaio di metri più in basso c’è la piana di Camaiore, in provincia di Lucca, Toscana, Italia.
Non Rio de Janeiro. Eppure “Saudade”, una, due, tre volte. I segnavia del CAI accanto a quelli dalle tinte carioca.
Il mistero si svela solo in vetta, dove una scritta racconta di un battaglione di soldati brasiliani schierati quassù
durante la Seconda Guerra mondiale a difesa di Camaiore e della Versilia.  



ETTORE PETTINAROLI                                                                                                                                       su "lastampa.it"

Il Monte Prana (1.220 m), è la più meridionale delle cime delle Alpi Apuane ed è anche una tra le più panoramiche, 
sospesa com’è tra il mar Tirreno, la Garfagnana e la Versilia. Si raggiunge in poco più di due ore da Casoli (403 m) — 
percorrendo il sentiero n. 2 e successivamente il n. 112 — ed è dunque una meta perfetta per una camminata autunnale
 non troppo impegnativa e di grande soddisfazione. Da lassù lo sguardo spazia anche su gran parte delle Apuane meridio
nali che si susseguono a perdita d’occhio tra valloni ammantati dal rosso delle foglie di faggi e castagni e cime a volte
svettanti, più spesso dai morbidi profili che chiedono solo di essere raggiunte dagli appassionati trekker. Che, da queste 
parti sono numerosi e favoriti da una fitta rete di sentieri ben segnalati. 



Come resistere, per esempio, al richiamo del Monte Forato (1209 m), così chiamato per il grande arco di roccia (il “foro”,
appunto) appena sotto la vetta e visibile anche da lontano. Per arrivarci si cammina, anche in questo caso, per un paio
d’ore risalendo il sentiero n.12 dal paese di Cardoso (278 m). Il selfie sotto l’Arco di calcare con sullo sfondo il Tirreno
è obbligatorio, mentre è riservata solo a chi non soffre di vertigini la “passeggiata” sul tetto del foro.  



Classica meta delle camminate Apuane è il Rifugio Forte dei Marmi, che compare all’improvviso dal bosco ai piedi delle
pareti strapiombanti del Monte Nona. In questo periodo dell’anno è aperto solo nei fine settimana ed è sempre molto
frequentato, anche per la relativa comodità dell’accesso. Basta infatti meno di un’ora di marcia da Pomezzana lungo 
il sentiero n. 106 e poco di più se ci si incammina da Stazzema (sentiero n.5) per godersi un pranzo a base di sostanziose 
specialità lucchesi in un contesto naturale di grande suggestione. Senza dimenticare il fascino di borghi senza tempo 
come Pomezzana e Stazzema, con i loro stretti vicoli, le case in pietra, le fontane, le chiese monumentali. Magnifici e 
silenziosi, non sono mai stati abbandonati e trasmettono una sensazione di pace e benessere insospettabile a poche 
decine di minuti d’auto dalle frenetiche coste versiliesi. 



Ed è un altro borgo incantato il punto di partenza per l’ascesa alla regina delle Apuane, la Pania della Croce (1.859 m). 
Pruno (447 m.) compare all’improvviso tra la vegetazione, in tutta la sua severa bellezza: una Pieve romanica del XIII 
secolo, un grappolo di case ben ristrutturate, un paio di ristoranti, un Ostello, un B&B. La salita è lunga, richiede
buone gambe e capacità di interpretare l’evoluzione del meteo, qui particolarmente ballerino. Il sentiero n. 122 sale fino 
al Passo dell’Alpino e a Foce Mosceta (1.170 m), nei cui pressi si trova l’accogliente Rifugio Del Freo, anch’esso aperto
secolo nei weekend. Da qui si prende a destra il sentiero n. 126 che risale il pendio ormai completamente privo di alberi 
e raggiunge la cima (4 ore da Pruno). Soddisfazione. Clic a raffica. Spettacolo. Come sempre nelle Apuane.  

sabato 19 novembre 2016

NERO SU BIANCO Giuseppe Cruciani, lettera a Berlusconi: "Critica Renzi, ma è come lui"

Concordo con quanto scritto da Cruciani:

Gentile Presidente Berlusconi, mi consenta di dirle una cosa.
Lei sta facendo campagna a favore del No al referendum del 4 dicembre avvertendo gli italiani di un imminente pericolo se la riforma fosse approvata dal popolo: la dittatura renziana. Prendo a caso alcune sue dichiarazioni: «C’è il pericolo di una deriva autoritaria, la dittatura di un uomo solo al comando padrone del suo partito e del 55 per cento dell’unica Camera»; «Chi vince le elezioni sarebbe padrone dell’Italia e degli italiani»; «Il leader di un partito potrebbe diventare padrone del governo, della Corte Costituzionale e del Csm».
Scusi Presidente, ma di cosa parla? Quello che lei paventa come una catastrofe che andrà ad intaccare la libertà dei cittadini, è esattamente quello che Silvio Berlusconi ha sempre voluto quando era al governo di questo Paese o negli anni trascorsi come capo dell’opposizione. Ed è anche il motivo per cui tanti italiani nel passato l’hanno scelta come capo del governo. È inutile che ricordi a lei e soprattutto a quelli che ci stanno leggendo alcune battaglie storiche sue personali e della sua parte politica contro i piccoli partiti che le avrebbero impedito di attuare il programma o sui pochi poteri che ha il Presidente del Consiglio in Italia. Basta andare su Google, e credo che ormai lei si sia impratichito del mezzo, per trovare decine di suoi interventi. Solo per citarne alcuni: «In Italia il premier non può fare nulla, ha poteri quasi inesistenti»; «Basta coi piccoli partiti, pensano solo a se stessi».
A un certo punto, lo ricorderà certamente, disse che il Parlamento era pletorico e sarebbero bastati «cento deputati» e sarebbe stato più utile e veloce che a votare fossero «solo i capigruppo al posto dei parlamentari». E sovente si è trovato a rimproverare gli italiani che non davano a Forza Italia la maggioranza assoluta. Insomma, lei era il Re della semplificazione e, a mio modesto parere giustamente, il grande sostenitore dello spoil system, cioè «chi vince prende tutto». Come sta facendo adesso Trump.
Francamente, e detto con grande rispetto, non si capisce di cosa si possa lamentare. Tra l’altro, chi scrive non ha alcun pregiudizio nei suoi confronti. Anzi. Più volte, quando mi sono recato alle urne ho messo la crocetta sul suo nome o su qualche partito a lei alleato compresa Forza Italia. E non me ne sono mai vergognato, al contrario di tanti giornalisti che non hanno il coraggio di dire cosa hanno scelto nel segreto dell’urna. O addirittura si nascondono per paura di essere etichettati utilizzando la solita ipocrita frase: non vado a votare.
Io l’ho votata, Presidente, perché mi aspettavo quella famosa rivoluzione liberale, meno tasse e più attenzione alle partite Iva, che lei ha sempre promesso. Non è arrivata, e amen, ormai è andata così. Sono persino convinto che Berlusconi Silvio abbia subito un attacco da parte della magistratura che ha messo in piedi una gigantesca caccia alle streghe cercando di scoprire con chi lei trascorreva allegre serate a casa sua, e in parte è stato estromesso dalla vita politica anche a causa di questa operazione spionistica in stile Germania Est. Ma è acqua passata e amen anche qui.
Adesso, capisco che la politica significa dire tutto e il contrario di tutto e forse oggi le conviene che alle elezioni non vinca nessuno così può ancora avere voce in capitolo. Capisco dunque che ora a lei e alla sua formazione politica convenga azzoppare Renzi o addirittura farlo cadere, sostenendo che la riforma è pasticciata o altro. E capisco pure che si senta tradito da Renzi che a un certo punto, dopo aver collaborato con Fi e scritto con voi questa stessa riforma, l’abbia messa da parte come si fa con una vecchia ciabatta. L’uomo è fatto così, come lui stesso ha ammesso: cattivo e arrogante. Il contrario di come, credo, sia Silvio Berlusconi, forse l’ultimo leader democristiano dell’Italia: sempre pronto ad accontentare tutti, pure troppo. E forse invidia al premier proprio queste «qualità», tanto da dire, nello stesso momento in cui parla di dittatura in arrivo: «Renzi è l’unico vero leader in politica». Per tornare al punto, qui non c’è alcuna dittatura alle porte, come lei sa bene. Silvio Berlusconi quei poteri vorrebbe averli, eccome. Ma per ottenerli c’è un solo modo: battere il fiorentino alle elezioni.
La saluto cordialmente.
di Giuseppe Cruciani

venerdì 18 novembre 2016

Voglia d'indipendenza, il Veneto via dall'Italia: la data della Venexit

da "liberoquotidiano.it" 

O il 2 o il 9 aprile 2017. Ci sono due ipotesi di data per il referendum autonomista in Veneto. Sarà consultivo, sul modello della Brexit, ma vista l’aria che tira in tutto l’Occidente, il voto indipendentista potrebbe essere l’inizio di un percorso pericoloso per un’Italia concentrata solo su Renzi e non sul vero stato di salute del Paese. Sul malessere che cova nelle zone produttive e che nessun partito sta riuscendo a interpretare. Luca Zaia, presidente del Veneto, ha annunciato la consultazione in Argentina, al circolo della comunità trevigiana, una delle tappe del suo tour in America Latina per incontrare gli emigranti dall’ex Serenissima. Milioni di persone, che il Doge vorrebbe coinvolgere proprio nel referendum autonomista.
Facile per qualcuno liquidare la questione come folclore. Soprattutto adesso che la Lega è impegnata in un percorso di italianizzazione per creare un movimento lepenista-trumpiano e chi più ne ha più ne metta. Peccato che proprio adesso, senza il Carroccio sulla strada, il popolo veneto sarà invece più libero di intraprendere un percorso che partendo dalla richiesta di autonomia, potrebbe sfociare in qualcosa di più grande. La secessione forse è un qualcosa di minoritario, ma la voglia di mandare un vaffa a Roma è tanta. Un recente sondaggio della Demos di Ilvo Diamanti, commissionato dal Gazzettino, ha infatti certificato che il 48 per cento dei veneti vorrebbe l’indipendenza, contro il 47 di cosiddetti italianisti. Come dicevamo, soltanto un 12 è in realtà per la secessione dura e pura. Ma il 52 vuole un’autonomia come quella del Trentino-Alto Adige, ovvero che tutti i soldi fatturati in Veneto restino in Veneto.
Ecco perché l’Italia dovrebbe prendere sul serio il referendum autonomista. Il Veneto regala ogni anno a Roma qualcosa come 20 miliardi, il famoso residuo fiscale, cioè la differenza fra gettito e soldi che ritornano nel territorio sotto forma di spesa pubblica. Se prima o poi si arrivasse a uno statuto speciale sul modello siciliano o altoatesino, per il governo italiano sarebbe un bel guaio: di fatto perderebbe il valore di una finanziaria. Dolori forti. Ben peggiori delle menate provenienti da Bruxelles.
L’emicrania per il presidente del Consiglio, Renzi o chissà chi, potrebbe diventare però permanente, perchè la Venexit fa rumore, ma qua è tutto il Nord che vuole fuggire da uno Stato, capace solo di inventare bonus occupazionali per il Sud e di togliere 400 milioni alla Lombardia, unica regione a zero debito, per regalare 600 milioni alle società campane del trasporto pubblico. Roberto Maroni, presidente dei lumbard, sta percorrendo la stessa strada di Zaia. E probabilmente anche a Milano, così come a Bergamo, Brescia, Varese, Lecco, Como, Cremona, Pavia, Mantova, Lodi, Monza e Sondrio, si voterà il 2 o il 9 aprile per chiedere l’autonomia fiscale dallo Stato centrale. Un voto che potrebbe contagiare pure la Liguria di Giovanni Toti, ormai perno fondamentale della triplice intesa con Zaia e Maroni. Beh, se tutto il Nord chiedesse a gran voce lo statuto speciale, potremmo dichiarare la bancarotta dell’Italia: al bilancio statale mancherebbero quasi 100 miliardi l’anno, il residuo fiscale dell’intero Nord, dove la Lombardia la fa da padrone con 52 miliardi regalati ogni 365 giorni a Palazzo Chigi.
Ripetiamo: qualcuno, sotto la linea gotica, si metterà a ridere dei referendum indipendentisti, come gli amici di Hillary Clinton ridevano di Donald Trump fino a un minuto prima della sconfitta ufficiale della moglie di Bill. Chi non riderà tirerà fuori il solito populismo e i fantasmi della guerra jugoslava (vi ricordate i discorsi della sinistra e di Gianfranco Fini negli anni ’90 contro Bossi?), senza capire che le parole buoniste hanno rotto le scatole. Conta il portafoglio: una volta stava a destra, poi ha cambiato sponda, adesso lo teniamo ben stretto in mano per paura che un amico della Ue ce lo porti via definitivamente. E con i partiti spappolati e i sindacati sorpassati dalla storia, non resta che dare segnali con questi referendum stile Brexit: stavolta vogliamo decidere noi dei nostri soldi, senza farci imporre decisioni dalle banche centrali o dai Napolitano di turno.
di Giuliano Zulin

'DIOSCURI' SINISTRI - BEHA: “ADESSO CHE SONO APPOLLAIATI SULLE DUE SPONDE DEL TEVERE REFERENDARIO, POSSIAMO DARE UN GRAZIE SINCERO A VELTRONI E D’ALEMA, PERCHÉ NON HANNO SOLTANTO DISTRUTTO LA SINISTRA MA CI HANNO ROVINATO LA VITA. GRAZIE A NOME DI TUTTI QUELLI CHE LO PENSANO, DEI POCHI CHE LO SUSSURRANO, DEI MOLTI CHE NON LO DICONO”

Oliviero Beha per Dagospia
oliviero behaOLIVIERO BEHA

Quando Walter Veltroni, onusto di glorie televisive e più in generale artistiche, ha annunciato il suo “Sì” al prossimo referendum costituzionale mi sono sentito gradevolmente rimpannucciato.

In tanti avevano obiettato a chi avrebbe votato contro la riforma Renzi/Boschi che così avrebbero favorito la “casta”, la resistenza al cambiamento, la sopravvivenza di vecchi arnesi, citando all’uopo tra personaggi, figure e figuri per esempio D’Alema. Il discorso era facilmente rovesciabile, ma ora con Veltroni sulla sponda opposta la scomposizione dei due Dioscuri che tanto bene hanno operato per il Paese negli ultimi trent’anni risulta perfezionata.
DALEMA VELTRONIDALEMA VELTRONI

Si dice che insieme, anche se contrapposti secondo i momenti ma complessivamente complementari dalla morte di Berlinguer in poi, abbiano polverizzato la sinistra e l’idea di sinistra che il Pci aveva comunque conservato per le decadi precedenti. Sinistra?

Mah…se ciò che la distingue dalla destra è un’esigenza di solidarietà e difesa dei più deboli, vorrei capire in che modo abbiano contribuito in questo quadro i summenzionati Dioscuri. C’è chi sostiene che non gliene sia mai fregato un beneamato cazzo di nessuno, se non al massimo della loro cerchia privata e dei loro beni, chi più (D’Alema il pugliese…), chi meno (Veltroni l’intellettuale con le mani in pasta e in pasto).
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Giudizio severo, ammettiamolo, specie se si considera che uno continuava a pulpiteggiare sulla sinistra dall’alto di tutti gli incarichi consentiti, fino all’amato Copasir fonte inesauribile di informazioni non sul panettiere ma sull’intera classe dirigente, militari compresi, e l’altro minacciava - ma dall’Italia - i bambini africani, risparmiati (purtroppo solo da lui) in extremis per il prevalere della sua incomprimibile creatività.

Dovendo girare un film come fa lui ma su di lui, un titolo possibile sarebbe “La Grande Doppiezza”, mentre un testo adatto a D’Alema potrebbe intitolarsi “Il cervello al Massimo”. Sul film veltroniano lascio ampia facoltà d’immaginazione. Sul libro dalemiano forse ci vuole un asterisco.
VELTRONI E DALEMAVELTRONI E DALEMA

Qualche anno fa sentii raccontare da Staino, attuale Direttore dell’Unità renziana, il seguente aneddoto, in un’occasione pubblica, alla presentazione di un libro: ”Ero seduto al tavolo vicino a Massimo, col quale per tutta la vita ho battagliato e fatto pace, quando lui sospirando mi ha detto: “Certo che per un vignettista perdere la vista come sta accadendo a te deve essere tremendo….”. Io ovviamente ho assentito. Lui ha continuato quasi soprapensiero: “Sarebbe un po’ come se a me venisse un tumore al cervello…”.

VELTRONI DALEMAVELTRONI DALEMA
Beh, adesso che sono appollaiati sulle due sponde dello sporchissimo Tevere referendario, possiamo fotografarli ben bene nel nostro presepe personale e generazionale. Un grazie sincero ad entrambi, perché non hanno soltanto distrutto la sinistra (forse c’avrebbe pensato da sola e comunque rimarrebbe sempre la destra, se non fosse un’accozzaglia pressappochista di inventati) ma ci hanno semplicemente rovinato la vita. Grazie anche a nome di tutti quelli che lo pensano, dei pochi che lo sussurrano, dei molti che non lo dicono proprio.
Oliviero Beha

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