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martedì 28 aprile 2015

Il made in Italy cucito in Romania: per il giudice è ok

Il made in Italy cucito in Romania: per il giudice è ok

Assolto un imprenditore pratese a cui erano state sequestrate 191 giacche destinate a un'azienda di Modena il cui titolare a novembre diceva: "Offriamo qualità, non è possibile delocalizzare"
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PRATO. Ci sono molti modi di fare abbigliamento "made in Italy". Uno di questi è prendere tessuti e accessori italiani, realizzare i modelli e far cucire gli indumenti all'estero, dove costa meno, prima di farli rientrare in Italia col prezioso marchio, pronti per gli scaffali. Alcuni storceranno la bocca, ma queste sono le norme italiane ed europee, ribadite la scorsa settimana da una sentenza di assoluzione del Tribunale di Gorizia. Sul banco degli imputati c'era il legale rappresentante della società pratese Logo srl, accusato di aver tentato di introdurre in Italia 191 giacche cucite in Romania e riportanti il marchio "made in Italy". Le giacche sono state sequestrate il 2 giugno 2012 dalla guardia di finanza di Gorizia alla dogana. I finanzieri si limitarono a constatare che si trattava di "made in Italy" proveniente dalla Romania e il sequestro scattò in automatico perché "la società indagata avrebbe tentato di introdurre nel territorio dello Stato prodotti con segni distintivi nazionali atti a indurre in inganno il compratore sull'origine e la provenienza del prodotto".
Ma l'avvocato Federico Febbo, difensore della Logo srl, ha avuto gioco facile nel dimostrare che non è così. La sua tesi, poi accolta dal giudice, è che si può legittimamente usare il marchio "made in Italy" se la "trasformazione essenziale" del prodotto avviene in Italia. E per trasformazione essenziale si intende l'uso di tessuti, accessori italiani e design italiano, oltre al controllo sugli standard di qualità durante il confezionamento. In altre parole, posso far cucire le giacche in Romania perché in fondo anche i romeni sono bravi a farlo, e soprattutto costano molto meno. L'importante è che usi materiale italiano, in questo caso filato prodotto dalla New Mill di Prato, e vigili sulle fasi di confezionamento.
Le 191 giacche della Logo srl erano destinate alla società Ozone srl di Cogniento (Modena), titolare di un marchio abbastanza noto (Bark) e sono state confezionate dall'azienda romena Totexim General Production. Nel corso del processo è stato sentito il direttore della Logo srl, Fausto Fusi, che ha spiegato come la delocalizzazione del confezionamento dei capi d'abbigliamento consente di ridurre i costi della manodopera. Maria Adriana Valescu, direttore tecnico della produzione, ha confermato che due volte alla settimana va a controllare nelle fabbriche che producono per la Logo srl (evidentemente non la sola Totexim) per accertarsi che ci si attenga ai modelli italiani e agli standard di qualità.
D'altra parte la delocalizzazione di alcune fasi di produzione dell'abbigliamento è ormai da anni il segreto di Pulcinella. Gli addetti ai lavori sanno che così fan tutti e si adeguano. Anche perché l'alternativa spesso è finire fuori mercato.
Quanto alle norme, sia l'articolo 517 del Codice penale che la legge 350/03, pensata per la tutela del made in Italy, non vietano, dice l'avvocato difensore e conferma il giudice, che il prodotto sia assemblato all'estero. E non lo vieta nemmeno il regolamento Cee 2913 del '92, cioè il Codice doganale comunitario. Eppure da anni gli industriali, anche a Prato, organizzano convegni e premono su Bruxelles perché difenda con più forza il made in Italy. Parlano di tracciabilità come la panacea di tutti i mali. Gli stessi industriali che, come si vede, non esitano a sfruttare le opportunità che offrono la legge e il mercato, facendo cucire le giacche all'estero. Lo stesso Paolo Pierotti, titolare della Ozone e del marchio Bark (e sentito come testimone nel processo),parlando lo scorso novembre con Repubblica affermava: "I nostri clienti sono molto attenti, dobbiamo offrire loro la massima qualità. Il nostro capospalla ha una costruzione che prevede molti passaggi, tutti controllati. Non è possibile delocalizzare queste competenze".
Il caso della Logo srl è molto simile a quello di un'altra importante società pratese, i cui capi d'abbigliamento furono bloccati anni fa alla Dogana di Livorno perché riportavano l'indicazione "fabrics made in Italy" (cioè tessuto fatto in Italia) e rientravano dalla Tunisia, dove erano stati cuciti. Anche in quel caso l'imprenditore fu assolto.
Diverso sarebbe stato se sui capi d'abbigliamento fosse stato apposto il marchio "100% made in Italy" o "Total made in Italy". In questo caso tutte le fasi di lavorazione devono essere fatte in Italia, ma quasi nessuno usa quel marchio. C'è poi un altro modo di fare un "made in Italy" che fa storcere il naso ai puristi. Sono i pronto moda cinesi del Macrolotto di Iolo, che attirano frotte di compratori da molti paesi dell'Unione europea, compresi gli italiani ovviamente, proprio grazie a quei cartellini "made in Italy" che sono il valore aggiunto. Le mani che tagliano e cuciono sono cinesi, ma la confezione è evidentemente in Italia. La dimostrazione che l'indicazione di provenienza conta fino a un certo punto.

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