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giovedì 14 agosto 2014

Deflazione e debito pubblico alle stelle. Perchè l'Italia deve temere il calo dei prezzi Pubblicato: 13/08/2014 19:21 CEST

"HUFFINGTON POST.IT"

Deflazione: calo generale dei prezzi. Ai cittadini poco allenati con le grande statistiche economiche e più a loro agio con gli scaffali dei supermercati l’allarme lanciato ieri dall’Istat sullo spettro deflattivo che si affaccia sulle principali città italiane può comprensibilmente sembrare una buona notizia. Se i prezzi dei beni calano, il conto alla cassa sarà più basso. Cioè spesa più economica e più soldi nel portafoglio da spendere altrove. Perché, allora, la bassa inflazione o peggio la deflazione (inflazione negativa) fa così paura?
“Innanzitutto è una pessima notizia perché è il sintomo della bassa domanda e del calo generale dei consumi. Una sorta di termometro dello stato di salute di una parte della nostra economia”, spiega Luigi Marengo, professore ordinario di Politica Economica all’Università Luiss di Roma . “E poi c’è un elemento ulteriore, molti economisti sostengono che l’aspettativa di prezzi al ribasso – soprattutto per quanto riguarda beni durevoli e generalmente più costosi – spinga a un ritardo degli acquisti. In altre parole, immaginando che il prezzo scenda posticipo spese che avrei normalmente sostenuto”.
Ma il rinvio degli acquisti è solo una parte del problema. Bisogna tornare al portafoglio di cui sopra. Che, per quanto rilevante, rappresenta solo uno dei tanti fattori che concorrono alla crescita o al rallentamento dell’economia. Nel caso di prima, per ogni scontrino più leggero ci sono ricavi più bassi per i supermercati e soprattutto imprese costrette ad abbassare i propri costi per restare sul mercato. A cascata, significa anche meno produzione, meno investimenti, meno occupazione e salari più bassi. Gli stessi salari che poi si utilizzano per tornare al supermercato a fare la spesa, con la differenza che ora il portafoglio è più leggero prima ancora di andare a fare acquisti, spingendo così le imprese ad un ulteriore ribasso dei prezzi. In estrema sintesi, la temuta “spirale deflattiva” si configura in questo modo.
Non è tutto. La bassa inflazione e la deflazione hanno però un secondo effetto immediato sulla vita delle famiglie e – analogamente – sul bilancio dell’intero Stato. Il progressivo abbassamento dei prezzi rende automaticamente più pesante il rimborso di mutui e prestiti contratti. Com’è possibile? A un primo livello, la spiegazione è abbastanza intuitiva. Basta immaginare di chiedere 1000 euro in prestito ad un amico, promettendo di restituirli tre anni dopo. Con un aumento dell’inflazione, prezzi e salari più alti, il valore reale di quei 1000 euro alla scadenza del triennio è destinato a scendere. Alla rovescia, con un indice dei prezzi in caduta, l’operazione di rimborso risulterà molto più costosa.
La questione è però tecnicamente un po’ più complessa. Perché il costo “pratico” del debito si misura per i cittadini prevalentemente nel costo degli interessi da sostenere. La questione interessa soprattutto il nostro Paese, che vanta rispetto ai propri vicini europei un debito pubblico particolarmente alto rispetto al proprio prodotto interno lordo. Il rischio, per le casse pubbliche, è del tutto analogo a quello con cui si confrontano le famiglie. Un alto debito pubblico significa alte spese per interessi da sostenere. Il drastico calo dello spread, con la flessione dei rendimenti medi dei Btp decennali su cui il differenziale è calcolato, ha causato una riduzione sensibile del costo per interessi. Una buona notizia che per le casse pubbliche potrebbe valere risparmi dell’ordine di 4 miliardi.
Ma agli alti rendimenti dei periodi più bui della crisi concorrevano anche livelli di inflazione molto alti. Nel novembre 2011 ad esempio, all’apice della tempesta che ha colpito il nostro Paese, il rendimento del Btp decennale ha raggiunto il 7,5%, l’inflazione superava il 3%. Il rendimento reale, cioè il costo “vero” del rimborso del debito, si attestava intorno al 4%. Oggi, con i Btp sotto il 3% e l’inflazione verso quota 0 il costo per ripagare il nostro debito rischia di diventare uguale, se non maggiore in caso di risalita dello spread, rispetto agli anni peggiori della crisi.
La bassa inflazione poi penalizza ulteriormente il nostro Paese nel rispetto dei target di bilancio fissati dall’Europa: i famosi rapporti deficit/pil e debito/pil. In questi indicatori al denominatore è utilizzato il Pil nominale, cioè il prodotto interno lordo reale sommato al dato sull’inflazione. Più alto è quest’ultimo dato, maggiore è il denominatore. E più è alto il denominatore, a deficit e debito invariati, più il rapporto scende. È la ricetta che ha invocato, invano, il premier nei mesi passati. “Il rapporto debito/pil scenderà grazie a un aumento del denominatore”, ha ripetuto a più riprese supportato dal ministro Padoan. Così, con una crescita reale ferma e un’inflazione verso quota zero, quella via, almeno per quest’anno, risulta non percorribile.
“È chiaro che in un periodo di bassa crescita e rischio di deflazione la sostenibilità del debito diventa un problema serio”, spiega Marengo. “Per ridurre il debito ci sono solo due strade: maggiore crescita o un più inflazione. Purtroppo in Europa negli ultimi anni si è sbagliato nell’affrontare il problema con la sola austerità. Ha prevalso l’approccio tedesco che vede l’inflazione come un nemico, senza considerare che un po’ di inflazione può aiutare a ridurre il peso dell’indebitamento”.
Per l’Italia, poi, uno scenario di deflazione risulta particolarmente inedito. Il nostro problema principale, almeno fino all’ingresso nell’euro, è stato storicamente un livello dei prezzi cronicamente in salita. L’antidoto fino ad oggi è arrivato da Francoforte, dove la Banca Centrale Europea a giugno ha varato un pacchetto di misure per frenare la bassa inflazione. La via maestra è quella di una massiccia iniezione di liquidità, il cui intervento principale è costituito da un nuovo piano di rifinanziamento alle banche dell’Eurosistema fino a mille miliardi, condizionati alla trasmissione di queste risorse dell’economia reale. L’Eurotower vuole, in altre parole, fare in modo che i soldi che escono dai forzieri di Mario Draghi passino dalle banche e finiscano direttamente a imprese e famiglie. Brutalmente, con più soldi in circolazione l’inflazione sarebbe destinata a crescere.
Chi ha già adottato in modo significativo questa strategia però negli ultimi tempi ha dovuto scontare, seppur temporaneamente, i primi effetti negativi a medio termine. Il Giappone di Shinzō Abe ha “stampato moneta” in modo massiccio iniettando nel mercato quasi 60-70 mila miliardi di yen all’anno (circa 450 miliardi di euro), ma ad aprile scorso è stato costretto ad aumentare l’Iva, dal 5 all’8%, per la prima volta dopo 17 anni. Com’era facile attendersi, la crescita e poi la caduta massiccia dei consumi ha portato a un calo del prodotto interno lordo dell’1,7%.

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