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domenica 27 luglio 2014

CAMBIO IN VISTA Statali, pensione a 62 anni. Regole ad hoc per medici e magistrati

da "liberoquotidiano.it"

Rivoluzione pensioni per gli statali. Sì al pensionamento d’ufficio dei dipendenti pubblici, anche dirigenti, con più di 62 anni e che abbiano raggiunto il massimo dei contributi previdenziali (41 anni e 6 mesi per le donne, un anno in più per gli uomini). Soglia più alta per medici e professori universitari, che non potranno essere mandati in pensione d’ufficio prima dei 65 anni, e ancora più alta per i magistrati (70 anni). E risoluzione del nodo degli insegnanti “esodati” con la legge Fornero, i cosiddetti prof “quota 96”. Sono questi alcuni dei punti centrali della riforma della pubblica amministrazione, che ha ottenuto il primo via libera alla Camera. Il decreto dovrebbe diventare legge entro l’8-9 agosto, e le nuove norme si applicherebbero dunque già a settembre.
Le nuove norme - In base al decreto, dunque, sarà possibile pensionare d’ufficio “per esigenze organizzative e senza recare pregiudizio ai servizi”, ma non prima dei 62 anni. Fanno eccezione i medici e i docenti universitari, e soprattutto i magistrati: per loro la soglia resta i 70 anni. Per bilanciare la situazione, si è optato per la cessazione del beneficio dell’aspettativa.
I limiti - Chi vuole andare in pensione prima dei 62 anni ed è in regola con i contributi può farlo senza penalizzazioni, grazie a un emendamento di Maria Luisa Gnecchi che cancella tutte le decurtazioni economiche previste dalla legge Fornero e soprattutto elimina la dizione di “prestazione effettiva di lavoro”: ovvero, per maturare i 41 anni e 6 mesi di anzianità (per le donne) e 42 anni e 6 mesi (per gli uomini), necessari per la pensione di anzianità, si potrà tenere conto di tutto l’arco di vita lavorativa, compresi i giorni di sciopero, congedo matrimoniale, maternità facoltativa, e così via.
Scuola - Il decreto risolverebbe poi la questione degli insegnanti rimasti incastrati dalla riforma Fornero. Come spiega il Corriere, si tratta dei 4mila lavoratori della scuola che due anni fa dovevano andare in pensione. Ma che, per quello che è stato riconosciuto come un errore nella norma, sono rimasti incastrati nelle maglie lavorative, bloccati nelle aule dalla riforma Fornero che cambiava in corsa i requisiti per la pensione.
Liquidazione - Adesso – spiega ancora il Corsera - dopo un passaggio che sembra scontato in commissione Bilancio e una veloce approvazione al Senato, non appena il decreto sulla Pa sarà diventato legge, potranno richiedere di andare in pensione dal primo settembre. Non avranno subito diritto al Tfr, che arriverà solo tra due anni: la liquidazione sarà infatti rinviata al momento in cui avrebbero dovuto andare in pensione secondo i criteri Fornero. E la somma sarà ricevuta non per intero, ma a rate, scansionate in base al reddito. Ma non perderanno neanche un giorno di lavoro.
Inps - Non appena il decreto del governo sarà legge, i professori'quota 96' potranno presentare domanda all’Inps. L’Istututo nazionale di previdenza avrà 15 giorni di tempo per esaminare la richiesta e dare il suo assenso. Ma, e qui sta il punto, la norma stabilisce anche che l’Inps dovrà fare un monitoraggio delle domande assegnando un ordine progressivo risultante dall’età anagrafica e dell’anzianità contributiva dei singoli richiedenti. Se le domande supereranno le 4 mila, quelle in eccesso non potranno essere prese in considerazione.

SICURI SU QUATTRO RUOTE Vacanze in auto all'estero: dal codice della strada al tasso alcolemico, tutti i consigli per evitare multe e pericoli

"liberoquotidiano.it" Per ogni vacanza che arriva ci sono sempre alcuni preparativi a cui non bisogna sottrarsi. E per i viaggiatori che intendono muoversi in macchina e trascorrere un'estate sotto il segno del divertimento e del risposo senza senza stress aggiuntivi, sono consigliati alcuni accorgimenti tecnici e logistici. Per assicurarsi che tutto vada per il meglio è utile interessarsi su come trasportare oggetti e animali, norme stradali per guidare all'estero e i controlli da fare sull'auto.
Come trasportare oggetti e animali - E' il mensile specializzatoQuattroruote a stilare il vademecum per chi viaggia in auto all'estero. Il requisito per una vacanza senza intoppi è garantire la sicurezza a passeggeri o cose posti sulla propria vettura. Sia sul portapacchi sia nel bagagliaio gli oggetti devono essere posti omogeneamente ricoprendo l'intero piano del carico, che garantisce un'ottima stabilità del veicolo e una comoda guidabilità. E' utile quindi rivedersi i limiti di sporgenza e di carico complessivo indicati dalla Legge sul Codice della strada. Il Codice elenca anche le opportunità con cui è possibile trasportare il proprio animale senza subire sanzioni, che partono da 84 euro e la perdita di 1 punto dalla patente. lo strumento più classico è la gabbietta, posizionabile sia sui sedili posteriori sia nel bagagliaio. Oppure si può montare la griglia divisoria in caso si viaggi con più animali o con un cane di taglia grande, garentendogli spazio e comodità. E infine, per animali di taglia media-piccola si possono trovare in commercio anche le cinture di sicurezza, abbinate alla pettorina, che assicurano il massimo della sicurezza, anche in caso d'urto.
Cose da sapere: il tasso alcolemico - Oggi viaggiare in Europa con la macchina è più veloce, perché non ci sono più barriere, e quindi più comodo per ogni autista. Tuttavia la libera circolazione per i cittadini europei non implica l'uguaglianza delle norme, che infatti cambiano da paese a paese. Allineandosi alla politica svizzera, molti Paesi europei hanno introdotto il pagamento del bolletino autostradale. Questo è possibile trovarlo in vendita lungo i posti di frontiera o nelle stazioni di servizio. Per quanto riguarda il tasso alcolemico massimo, in Italia,Francia e Germania 0,5 g/l, in Austria è di 0,49; in Belgio eFinlandia di 0,22; in Lituania invece un massimo di 0,4; Regno Unito0,8; Polonia e Svezia 0,29 mentre in Spagna vige lo 0,25 g/l. E' assolutamente vietato assumere alcun tipo di bevanda alcolica inCroaziaEstoniaRepubblica CecaRomaniaSlovacchia eUngheria. In questi Paesi il non rispetto della legge prevede rigorose sanzioni pecuniarie (fino a 1.200 euro in Estonia) e in alcuni casi è previsto anche il reato penale (sempre in Estonia fino a un mese di reclusione mentre in Romania può arrivare fino a 5 anni). Per i neopatentati, come vige in Italia, ci sono restrizioni anche in tutti gli altri stati europei. Per loro, il massimo tasso alcolico è di 0,2 nei Paesi Bassi. Per viaggiare nel Regno Unito, Irlanda e Malta sulle nostre macchine è richiesto il beam converter, dei deflettori da applicare ai fari anteriori. In Austria, in caso di incidente su strada a più corsie, i veicoli devono essere spostasti ai margini della carreggiata, lasciando libero un corridoio largo 3,5 metri.
Sicurezza sulle macchine - Per viaggiare sicuri ed essere sempre pronti ad ogni evenienza alcuni oggetti non devono mancare nel proprio bagagliaio: un piccolo estintore, oltre tutto obbligatorio in molti paesi europei; un minikit di pronto soccorso; un triangolo d'emergenza con un giubbotto catalinfrangente e i cavi batteria utili in caso di scaricamento di questa. Quindi, per godersi una vacanza senza pensieri ma soprattutto senza problemi, non occorre altro che rispettare queste norme e garantire a tutti i passeggeri il massimo della sicurezza, principio primo di ogni viaggio.

giovedì 24 luglio 2014

L'AMMISSIONE La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono

La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hannomargini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito.
La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega cone la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono.
Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Chefanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”».
Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste,diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...
di Cristiana Lodi

venerdì 18 luglio 2014

La gogna vista dalla procura


A Prato c’è un procuratore da urlo (e di sinistra) che ha scelto di andare in pensione in anticipo per protestare contro gli scandali della giustizia. Intercettazioni, giornalisti, bignè. Chicche su Ruby. Storia di Piero Tony
di Claudio Cerasa | 18 Luglio 2014 ore 06:30

Prato. Le intercettazioni. Il processo mediatico. La gogna. La vergogna. La giustizia politicizzata. Le correnti. La custodia cautelare. Il bignè. Il Csm. Il governo. Il rapporto con i giornalisti. Le persecuzioni. I trattamenti speciali. I poteri dei magistrati. Il copia incolla dei giudici. E ovviamente il caso Ruby (con una vicenda). Ma prima di arrivare qui, prima di arrivare alla ciccia, al succo del discorso, bisogna partire dall’inizio. Dal perché. Dal motivo vero. Dalla ragione della scelta. Un magistrato di sinistra con trent’anni di esperienza che va in pensione con due anni di anticipo rispetto alla tabella di marcia per lanciare un messaggio, per dare un segno, per protestare contro una giustizia che troppe volte dimostra di essere ingiusta, che troppo spesso dimostra di essere eccessivamente politicizzata e che troppo spesso sembra essere incapace di autoriformarsi e di imboccare una giusta direzione. Siamo andati a Prato e abbiamo trovato una storia da urlo. Una storia che riguarda il procuratore capo di questa città e che mette insieme tutto. Il garantismo. Il processo. Le intercettazioni. I giornali. Il circo mediatico. Si comincia da qui, e Piero Tony, il protagonista di questa storia, lo dice tutto d’un fiato. Il perché. Il motivo vero.

Dice Piero Tony: “La verità è che non era più possibile, che non resistevo, che non potevo continuare, che era una situazione surreale, che vedevo troppe cose che non avrei voluto vedere e che tra stare ancora due anni qui, in mezzo a tutto questo, e andare invece via, facendo un po’ di chiasso, riprendendomi la mia vita e lanciando un messaggio, la seconda era l’unica cosa da fare. Nessun dubbio, l’unica. Perché in Italia, lo sanno anche i bambini, il processo non è più un semplice processo ma è una gogna, a volte una vergogna, e chi ha coscienza del suo lavoro sa come funziona, sa i giochi che si fanno con gli imputati e sa come si usano le intercettazioni, le carte, gli spifferi, le indagini, gli arresti. Beh, io dico no. E lo dico da sinistra. Lo dico da militante di una corrente di sinistra. Lo dico dopo aver girato mezza Italia. E lo dico dopo trent’anni di carriera. La giustizia, purtroppo, in Italia non sempre funziona come dovrebbe funzionare. Sarebbe bello, sarebbe un sogno, dire che è solo un problema di riforme, di scelte del governo, di leggi fatte e di leggi non fatte. C’è anche quello, sì, ma il problema è nostro, prima di tutto, e fino a quando non cambieremo noi non sarà possibile cambiare nulla”.

Lui si chiama Piero Tony, è nato a Zara il 3 giugno 1941, entra in magistratura nel 1969, a 28 anni diventa giudice istruttore a Milano, a trent’anni si iscrive a Magistratura democratica, per undici anni lavora a Venezia come giudice minorile, nel 1984 si è trasferito a Firenze e nel 1991 arriva alla procura generale del capoluogo toscano. Dove diventa famoso, dove, creando scandalo, comincia a teorizzare che il magistrato deve interessarsi più alla giustizia che all’accusa, e dove, durante il processo d’Appello per i delitti del mostro di Firenze, parlando dai banchi dell’accusa, finisce sulle prime pagine di tutti i giornali per via della sua requisitoria di cinque ore con cui smonta punto per punto la sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise su Pietro Pacciani. Così: “Mi pesa chiedere ciò che mi appresto a chiedere di fronte a un imputato che concentra in sé, con o senza colpa, perché sicuramente non avrà scelto lui la culla in cui nascere, buona parte del peggio della natura umana. Perché violento e pericoloso, perché bugiardo, sordido, prevaricatore, spregevole, lubrico. Il verbale di dibattimento è costituito da ottanta fascicoli, però di polpa non ce n’è poi tanta”. Era il 1996, anni dopo Pacciani venne assolto, passano i mesi, gli anni, Piero Tony nel 2006 arriva a Prato e otto anni dopo, con due anni di anticipo rispetto al previsto, decide di farsi da parte. Di dare un segnale. E smetterla di avere a che fare con una giustizia ingiusta.

ARTICOLI CORRELATI La Cassazione è peggio della malattia Quando i giudici diventano editorialisti. Il caso RomeoLa notizia del pensionamento anticipato di Piero Tony la offre in anteprima un giornale locale, il Tirreno, due settimane fa, e tra un detto e un non detto si capisce che il procuratore di Prato è un tipo che non aspetta altro di parlare, di spiegare, di raccontare, di ragionare. E’ così? Contattiamo Tony via email. Gli chiediamo un incontro. Il procuratore ci pensa qualche giorno e alla fine decide di riceverci. A Prato, in Toscana, venti minuti di treno da Firenze. Un vecchio palazzone a un chilometro e mezzo dalla stazione. Molti pini marittimi. Molti faldoni accatastati. Molti funzionari con pantaloncino corto, calzino bianco tirato su fino al ginocchio, camicie a quadri con le maniche arrotolate. Lunghi silenzi. Rumori di porte schiaffeggiate dal vento. Piero Tony è qui, al terzo piano della procura, al suo penultimo giorno di lavoro, e ha voglia di parlare. Di giustizia. Di intercettazioni. Di governo. Di riforme. Di processo. Di correnti. Di politica. E di un dettaglio importante che riguarda un’inchiesta pesante: Ruby. Il procuratore ci fa accomodare nel suo studio, tra una bustona ripiena di libri, una scatola con molti ricordi, un paio di faldoni con inchieste da definire, e accetta di rispondere alle nostre provocazioni. Lo guardi, lo studi, lo ascolti e capisci che nelle parole di Piero Tony c’è la voce di tutti quei magistrati che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione dei processi che regolano la giustizia italiana. I diritti della difesa calpestati, l’esplosione della gogna mediatica, la violazione sistematica della privacy, i mostruosi poteri concessi all’accusa, la progressiva politicizzazione delle procure. Piero Tony fissa negli occhi l’interlocutore, si dondola sulla sedia e inizia a parlare. Si comincia da qui.

Prendiamo appunti.

“Vede, non so come dire, io faccio questo mestiere da molti anni, ho lavorato nelle procure più importanti d’Italia, con i poliziotti più importanti d’Italia, con i magistrati più importanti d’Italia e già negli anni Settanta mi ero accorto che c’era qualcosa che non funzionava. Qualcosa di distorto, per certi versi inevitabile, che riguarda il tema della custodia cautelare. La verità è questa: è dagli anni Settanta che i magistrati vivono con il cautelare, lo usano in modo discrezionale, con molti eccessi, e lo usano come se fosse un modo per determinare la certezza della pena. Il ragionamento è logico: non so come andrà a finire questo processo ma per far sì che il mio indagato possa avere una punizione intanto lo metto dentro. Non è sempre così, ovvio, ma la storia ci insegna che questo metodo è andato a peggiorare nel corso del tempo con l’affermazione di quello che potrei definire senza problemi il processo mediatico. E oggi, quando si parla di processo passato in giudicato, si intende sostanzialmente questo: una misura cautelare amplificata dal processo portato avanti dalla stampa. Il giudicato, anche grazie al fatto che ci sono spesso magistrati che portano avanti processi che sanno già in partenza che cadranno in prescrizione, coincide ormai con la pena generata dalla gogna mediatica. Ed essendo diventato il processo mediatico una costola del processo tradizionale è ovvio che esistano molti magistrati che giocano spesso con gli amici giornalisti per amplificare gli effetti generati dal processo”.
Il magistrato riprende fiato, tira fuori da un cassetto il suo codice di Procedura penale, sfoglia rapidamente alcune pagine, arriva all’articolo numero 358 e improvvisamente, quasi colto da un lampo, ce lo legge – vedremo perché. Articolo numero 358, Titolo V, Attività di indagine del pubblico ministero. “Il pubblico ministero compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’articolo 358 e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”. Dice Tony: “Lei ha presente Karl Popper?”. Più o meno. Bene. Popper diceva che qualsiasi teoria, per essere scientifica, deve essere falsificabile. Il che significa che dalle sue premesse di base devono poter essere deducibili le condizioni di un esperimento che la possa dimostrare integralmente falsa alla prova dei fatti. Il magistrato, secondo me, dovrebbe comportarsi allo stesso modo.

Dovrebbe raccogliere non solo il materiale utile a dimostrare una tesi, la sua tesi, ma anche quello utile a dimostrare il contrario. Non lo dice Piero Tony lo dice il codice di procedura penale. E invece no. Troppo spesso si va avanti a forza di gomitate, di forzature, e spesso succede che un magistrato si innamori così tanto del suo teorema da non voler accorgersi di tutti gli elementi che quel teorema lo contraddicono. E da questo punto di vista le intercettazioni, il modo in cui sono state utilizzate in questi anni, il modo in cui sono diventate un ingrediente importante del processo mediatico, hanno svolto un ruolo chiave nel rafforzare i teoremi dei magistrati, facendogli perdere qualche volta contatto con la realtà”. Piero Tony fa qualche esempio. “L’eccessiva disinvoltura con cui vengono inserite le intercettazioni nei fascicoli è spesso l’indice di una difficoltà con cui gli inquirenti gestiscono un’indagine. Esistono naturalmente casi in cui le intercettazioni costituiscono un elemento imprescindibile di un’indagine ma esistono anche casi in cui le intercettazioni vengono utilizzate in eccesso per ragioni mi verrebbe da dire di pigrizia. Come un surrogato di altre tecniche, di altre modalità investigative. Penso agli appostamenti, per dire, ma si potrebbero fare decine di altri esempi. Ciò che in questi anni mi ha stupito in maniera negativa, e che per fortuna nella mia procura non si è mai verificato, è il modo francamente assurdo con cui agiscono alcuni giudici e alcuni magistrati. E’ il metodo copia-incolla. Tu ricevi dodicimila pagine di intercettazioni, le inserisci nella richiesta di custodia cautelare, poi te le ritrovi nell’ordinanza del gip e anche se alcune intercettazioni non hanno alcun rilievo penale hai la certezza che grazie al metodo copia-incolla rimarrà tutto lì. A ingrossare il fascicolo e a regalare qualche ottimo bignè ai giornalisti”. Slurp. “Sento dire spesso ai vari governi che si sono alternati in questi anni che servirebbe un’udienza filtro per scegliere insieme con le parti le intercettazioni che andrebbero utilizzate e quelle che invece non andrebbero selezionate, e mi viene da sorridere: perché l’udienza filtro, che in realtà si chiama udienza stralcio, esiste già oggi, è prevista dal codice di Procedura penale, servirebbe a tutelare le persone terze non indagate e a salvaguardare la privacy degli indagati. Il problema è che nessuno rispetta questa regola e tutti fanno più o meno come diavolo gli pare. Eppure – dice Piero Tony mostrando al cronista un foglio di carta – basterebbe così poco e basterebbe solo volerlo”.

Il foglio di carta in formato A4 poggiato in mezzo ad alcune scartoffie accatastate lungo i bordi del tavolo dello studio del procuratore capo è il regolamento interno, o meglio, “il progetto organizzativo”, presentato ai colleghi da Piero Tony pochi giorni dopo il suo arrivo a Prato. Tony ci mostra un punto. E’ il numero tredici, comma cinque: “Il risultato delle intercettazioni telefoniche e ambientali deve essere utilizzato in ogni atto processuale compresa la richiesta di misure cautelari, al fine di tutelare la privacy sia delle persone estranee che degli stessi indagati, con la mera indicazione delle fonti intercettate nonché del sintetico contenuto di quel risultato, quest’ultimo nelle sole parti conferenti alle indagini ed evitando quanto possibile ogni inserimento testuale delle relative trascrizioni”. Basterebbe poco, dice Piero Tony, eppure molte procure vivono in un regime di dubbia legalità. Dovrebbero inserire nei fascicoli solo i riassunti ma in realtà inseriscono tutto quello che non dovrebbero inserire. Effetto bignè. Chiede il cronista: ma questa grande discrezionalità di cui possono godere gli inquirenti sommata all’estrema politicizzazione della magistratura non rischia di creare un mix pericoloso per il sistema giudiziario? Tony ci offre un altro sorriso e prosegue il suo ragionamento.

“Bisogna riconoscere che negli anni ai magistrati sono stati assegnati diversi strumenti con i quali hanno avuto la possibilità di operare con grande discrezionalità. Non penso solo alle intercettazioni – perché è ovvio che un magistrato o un giudice che non ama particolarmente un indagato o un imputato sarà più portato a inserire nel fascicolo molti di quei bignè che non hanno alcun rilievo penale ma che piacendo molto ai giornalisti rappresentano oggettivamente un supporto necessario per portare avanti un processo – ma penso anche a strumenti e a tipologie di reati discutibili come per esempio il concorso esterno (tipologia di reato che non esiste nella legge, che è di fatto una creazione giurisprudenziale, che è stata più volte contestata dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, e che da trent’anni avrebbe bisogno quantomeno di un intervento legislativo). L’Italia è ricca di tipologie di reato che permettono di inquadrare un reato senza che sia necessario portare grandi prove provate. E’ così, c’è poco da fare, e per quanto mi riguarda posso dire che la mancanza di tipicità nella giustizia è davvero parente stretta di mancanza di legalità. Il libero convincimento del giudice – prosegue – è un principio sacrosanto ma per convincere il giudice servono fatti, non chiacchiere o motivazioni apparenti”. Pausa. “Anche la storia dell’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta, un giochino da salotto. Ci sono delle scelte prioritarie. La macchina giustizia non riesce ad affrontare milioni di processi. Deve sempre scegliere, in teoria, quali dovrebbe consegnare alla prescrizione e quali invece no. L’obbligatorietà non esiste. Il magistrato, in un modo o in un altro, sceglie sempre di privilegiare una cosa rispetto all’altra. Non c’è un meccanismo automatico che costringe un pm a portare avanti un’indagine se riceve una denuncia o una querela. C’è sempre una discrezionalità. Da un certo punto di vista ci deve essere. Perché bisogna approfondire e bisogna valutare se si tratta di una cazzata o di una cosa seria. L’obbligatorietà dell’azione penale è diventata una favola. E purtroppo, quando un magistrato è politicizzato, può utilizzare questo strumento anche in maniera anomala. Discutibile, diciamo”.

E la politica? Piero Tony si illumina, poggia le mani sul tavolo come a voler fare stretching con le braccia, si prepara, si carica, e parte in quarta. “E’ una tautologia dire che la magistratura sia politicizzata. Non si tratta di un’opinione ma si tratta di un dato di fatto. Esistono le correnti. Esistono i magistrati che professano in tutti i modi il loro credo politico. Esistono grandi istituzioni, come il Csm, dove si fa carriera soprattutto per meriti politici. E francamente non riesco a criticare fino in fondo chi sostiene che con una magistratura politicizzata ci sia sempre il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Per questo, e lo dico da associato, da uno che paga da più di trent’anni la sua quota annuale a Md, dico che le correnti, per la magistratura, tendono a essere un male. Un dramma. E in tutto questo noto un elemento di grande contraddizione. Viene quasi da sorridere. Per quale ragione un magistrato non può essere iscritto a un partito e può invece far parte di un prodotto del pantografo, ovvero di una corrente, che di fatto è configurata come un partito? Perché ci prendiamo in giro così?”.

Osiamo: il ragionamento vale anche per Berlusconi? Piero Tony si fa più serio, si ferma un attimo, cerca le giuste parole da utilizzare, le trova, si fa prudente, ma non rinuncia a dire quello che pensa. “Non entro nel merito dei processi, non ho titolo per farlo, ma posso dire senza paura di essere smentito che se Berlusconi non fosse entrato in politica non avrebbe ricevuto tutte le attenzioni giudiziarie che ha ricevuto. E anche sul processo Ruby, che in linea teorica dovrebbe essere un ordinario processo di concussione e prostituzione minorile, è evidente che l’ex presidente del Consiglio ha avuto un trattamento speciale”. Un trattamento speciale, già. Il caso vuole che a Prato, proprio a Prato, uno dei vice di Piero Tony sia Antonio Sangermano, pubblico ministero che ha fatto a lungo parte del pool di magistrati che hanno seguìto da Milano il caso Ruby. E proprio su Sangermano, a Prato, i cronisti di cronaca giudiziaria raccontano un episodio clamoroso. L’episodio riguarda una richiesta particolare arrivata dal Csm e dalla procura di Milano (da Bruti Liberati) per far sì che il dottor Sangermano, nonostante la sua nuova collocazione a Prato, potesse essere ancora utilizzato dalla procura di Milano per seguire il caso Ruby. In giuridichese: “Applicazione extradistrettuale alla procura della Repubblica presso il tribunale di Milano”. Era il dicembre 2011. Il procuratore capo di Prato conferma che quella storia è vera e che quel giorno rispose così: “Gentile procuratore generale. Mi consenta di rilevare che l’impegno del dottor Sangermano nel ‘delicato processo a Milano’ non appare nemmeno paragonabile all’impegno quotidiano dei magistrati di questo ufficio anche a voler considerare tutto quanto si è appreso dai mass-media e si è commentato nelle sedi le più varie. Al di là del possibile riverbero politico – che non compete alla magistratura – e giudiziario sulla persona dell’ex presidente del Consiglio dei ministri pare trattarsi, invero, di mere violazioni alla Legge Merlin da parte di sole tre persone, violazioni in quanto tali di non eccezionale gravità e peso in relazione sia alle pene edittali sia alle aspettative delle parti lese sia alle esigenze dell’istruttoria dibattimentale così come prevedibile”. Il riverbero politico “non compete alla magistratura”. Proprio così. Piero Tony – nonostante la sua richiesta non sia andata a buon fine – lo dice con naturalezza, lo dice da sinistra, lo dice da magistrato, lo dice da garantista e lo dice con libertà. Con lo sguardo e con la voce di tutti quei magistrati e di tutte quelle persone di buon senso che in tutti questi anni hanno osservato con frustrazione la trasformazione della giustizia italiana.
© FOGLIO QUOTIDIANO

giovedì 17 luglio 2014

POLITICA PD partito più forte dal Dopoguerra: 44%. Addio M5s. Il sondaggio


Il primo quotidiano on-line

Secondo l’ultima indagine dell’Istituto Demopolis prima della pausa estiva, il PD con il 44% 

avrebbe oggi alle Politiche un vantaggio di 25 punti sul M5S. “La distanza odierna tra i primi

due partiti italiani – afferma il direttore di Demopolis Pietro Vento – non ha precedenti nella 

storia politica del dopoguerra". I DATI E LE TABELLE

Giovedì, 17 luglio 2014 - 08:48:00
Secondo l’ultima indagine dell’Istituto Demopolis prima della pausa estiva, il PD con il 44% avrebbe oggi alle Politiche un vantaggio di 25 punti sul M5S. “La distanza odierna tra i primi due partiti italiani – afferma il direttore di Demopolis Pietro Vento – non ha precedenti nella storia politica del dopoguerra. L’effetto Renzi risulta determinante, ma va considerata anche l’attuale debolezza dei suoi principali competitor”.
Il Barometro Politico di luglio dell’Istituto Demopolis, l’ultimo prima della pausa estiva, registra un’ulteriore crescita del consenso al PD, che otterrebbe oggi il 44%: è un dato clamoroso per un  partito che nell’autunno scorso si attestava intorno al 28%. “L’effetto Renzi – spiega il direttore di Demopolis Pietro Vento – risulta determinante, ma va considerata anche l’attuale, estrema debolezza dei suoi principali competitor. Il declino di Berlusconi incide significativamente sull’identità del Centro Destra e sul consenso a Forza Italia, che crolla dal 23,5% di gennaio al 14% odierno, perdendo quasi 10 punti in sei mesi. Nello stesso periodo è parzialmente diminuito il peso del M5S di Grillo, attestato al 19% dopo la delusione del 25 maggio”.
Se si tornasse oggi alle urne per le Politiche, secondo i dati di Demopolis, il Partito Democratico sarebbe con il 44% il partito nettamente maggioritario nel Paese, con il Movimento 5 Stelle al 19% e Forza Italia al 14%, entrambi fortemente penalizzati da una crescente propensione all’astensione dei propri elettorati; la Lega di Salvini, con un trend positivo, si attesta al 6,5%, l’NCD-UdC di Alfano al 4%, FdI-AN al 3,2%. Sotto il 2 per cento tutte le altre liste.
Senza dimenticare che quasi 18 milioni di elettori oggi resterebbero a casa.
Il dato più significativo, rilevato dall’Istituto Demopolis, è rappresentato dalla distanza odierna tra i primi due partiti, da sempre molto vicini negli ultimi vent’anni: 1 punto staccava FI e PDS nel ‘94 e, a parti invertite, nel ’96. Il PDL superava nel 2008 di 4 punti il PD, che sarebbe poi arrivato alla pari nel 2013 con il Movimento di Grillo.
“Oggi – sostiene il direttore di Demopolis Pietro Vento – il PD supererebbe il M5S, secondo partito, di 25 punti percentuali (44-19). Questa distanza tra le prime due forze politiche non ha precedenti nella storia del dopoguerra: il precedente più vicino – prosegue Vento – risale al 1958, quando la DC di Fanfani staccò di 20 punti il PCI di Togliatti”.
Ma a differenza di allora – spiegano i ricercatori di Demopolis – con la profonda personalizzazione dei partiti, è scomparsa anche la fedeltà del consenso. Se alle Politiche del 2008, così come nel 2001 e nel 2006, appena 1 elettore su 10 aveva votato una lista differente rispetto alla precedente consultazione, da circa due anni il voto appare sempre più mobile: alle Politiche del 2013 il 39% degli italiani ha optato per un partito diverso da quello votato alle precedenti elezioni. Alle ultime Europee, secondo il Barometro Politico dell’Istituto Demopolis, il 45% degli italiani ha fatto una scelta diversa rispetto a quella compiuta poco più di un anno prima.
Al di là della riforma del Senato e della legge elettorale, che interessano solo in parte l’opinione pubblica, la vera scommessa di Renzi e la stabilizzazione del consenso al PD, oggi senza precedenti, si giocheranno soprattutto  – conclude Pietro Vento – sulla capacità del Governo di rimettere in moto il tessuto produttivo e di rilanciare l’occupazione in Italia.
Nota informativa
L’indagine è stata condotta dall’Istituto Demopolis su un campione stratificato di 1.200 intervistati, rappresentativo dell’universo della popolazione italiana maggiorenne. Coordinamento del Barometro Politico Demopolis a cura di Pietro Vento, con la collaborazione di Giusy Montalbano e Maria Sabrina Titone. Supervisione della rilevazione demoscopica (12-14 luglio 2014) con metodologia cati-cawi di Marco E. Tabacchi.
Metodologia ed approfondimenti su www.demopolis.it

domenica 13 luglio 2014

ESCLUSIVO Expo, il memoriale di Frigerio: "Vi racconto gli affari della sinistra"

Dalla sua cella nel carcere di Opera (Milano) Gianstefano Frigerio, 74 anni e quasi cieco, continua la sua battaglia contro la carcerazione preventiva nell’ambito dell’inchiesta sull’Expo. E in un memoriale in due parti, lungo 20 pagine, inviato al procuratore meneghinoEdmondo Bruti Liberati, lancia accuse pesantissime alla sinistra e alle cooperative rosse e invia messaggi sibillini al Capo dello StatoGiorgio Napolitano. Il linguaggio è felpato, allusivo, ma la sostanza è urticante come un cespuglio di ortiche. In apertura il detenuto - accusato di associazione per delinquere con finalità di turbativa d’asta - si rivolge all’«illustre procuratore» e si affida alla «sua alta funzione di garanzia».
Quindi l’ex notabile lombardo della Dc gli chiede «umilmente la grazia» per lui «vitale» di essere interrogato. Ai convenevoli seguono le prime bordate che lasciano intravedere lo spirito combattivo di questo ex parlamentare democristiano. Frigerio non ha digerito la perquisizione inflitta al figlio: «C’è forse da aspettarsi in futuro una pioggia di avvisi di garanzia su tutti i fruitori di protezioni familistiche? Sto pensando alle generose consulenze di FinmeccanicaFerrovie, Eni a favore dei figli dei vertici del Paese». Qui il riferimento neppure tanto velato è agli eredi del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Ma non solo a loro. «Sto pensando a molti rampolli dell’alta burocrazia o forze dell’ordine o magistratura che hanno trovato un futuro nelle grandi banche o nelle grandi istituzioni finanziarie». A fianco alla parola «magistratura» si intravede, cancellato, l’aggettivo «milanese».
I riferimenti a Napolitano ritornano quando elenca gli argomenti dei suoi colloqui con l’imprenditore piddino Primo Greganti, altro componente della presunta «cupola dei tre vecchietti al bar» degli appalti per Expo 2015 (il terzo membro è l’ex senatore Luigi Grillo). «Con Greganti io parlavo solo di politica; del presente di cui era molto scontento (la linea di Renzi gli era indigesta) (…) e soprattutto del passato con grande nostalgia. Emergevano allora i ricordi dei miei rapporti molto solidi e duraturi con Gianni Cervetti (uno dei leader, assieme a Napolitano dei miglioristi)».
Quei miglioristi del Partito comunista che ai tempi di Tangentopoli finirono nel mirino dei pm milanesi. «Con Greganti parlavamo spesso delle paure dentro il Pci di un colpo di Stato, dei finanziamenti da Mosca, dei rapporti con gli altri Paesi comunisti, delle tensioni dei miglioristi (in particolare Napolitano) con Berlinguer, della vicinanza dei miglioristi a Craxi (giunta Tognoli) e dopo le elezioni dell’’83 con Berlusconi». Manda bigliettini Frigerio, molto in alto. Fa intendere, allude. Quasi a dire: Enrico Berlinguer, il santino della sinistra e dei grillini, era molto diverso da Napolitano, re Giorgio era più in sintonia con Silvio Berlusconi.

E Greganti, il compagno G. delle tangenti rosse, l’uomo del conto Gabbietta, ora in carcere per l’Expo? «Mantiene tuttora forti collegamenti col mondo delle coop, coi leader del vecchio Pci (Fassino, D’Alema, Bersani, Moretti ecc.) e coi giovani turchi (Barca, Orlando, Fassina ecc.) e con numerose realtà internazionali (Cuba, Cina, Vietnam)». Sorpresa: l’”uomo nero” della sinistra avrebbe tuttora legami stretti con tre ex segretari di Pds-Ds-Pd, con l’amministratore delegato di Finmeccanica Mauro Moretti, con l’ex viceministro dell’Economia Stefano Fassina, con l’ex ministro della Coesione territoriale Fabrizio Barca e con il Guardasigilli Andrea Orlando.
Ovviamente sono tutte affermazioni senza riscontri o rilievi penali, ma potenzialmente di grande valenza politica. Frigerio entra anche nel merito delle accuse a lui rivolte e in particolare al presunto interesse della “cupola” a mantenere al suo posto Giuseppe Nucci, l’ex ad della Sogin. Nucci doveva “turbare” la gara europea per la centrale di Saluggia (Vercelli)? Ecco la perfida chiosa: «Il responsabile unico della procedura era l’ingegner Cittadini (collaboratore strettissimo e fidato di Nucci), molto legato a Bersani» e nonostante Grillo abbia presentato Nucci a Gianni Letta, Bersani e ad altri politici, alla fine Enrico Letta alla Sogin «nominò il suo amico Casale».

Frigerio scrive anche che il grande progetto della Città della salute non era sponsorizzato solo dall’ex governatore lombardo Roberto Formigoni: «Tutta l’elìte politica milanese, a cominciare dal sindaco (Giuliano Pisapia ndr) era favorevole a collocare la città della salute sull’area del Cerba del professor Umberto Veronesi, favorendo anche Mediobanca e Ligresti».
Nel memoriale del “vecchietto” terribile c’è spazio pure per Angelo Paris, il manager Expo finito agli arresti domiciliari, che Frigerio sostiene di aver messo in contatto con «il fratello dell’autorevolissimosegretario generale del Quirinale». «Paris era convinto che si stesse saldando un legame del tutto privilegiato tra Sala e il Pd: questo mi fu ampiamente confermato da Greganti. Del resto nel mondo politico di sinistra prendeva sempre più forza la candidatura di Sala a sindaco (di Milano ndr)». Per Frigerio tutte le gare per l’Expo hanno visto «una semplificazione delle procedure», «un’ansiosa corsa contro il tempo», con «ben 4 direttive in tal senso dal governo Letta-Lupi e Renzi-Lupi».
La conseguenza? «Una giungla di fantasiose procedure anomale con tutti i poteri decisionali nella mani di Giuseppe Sala (l’ad di Expo spa,ndr)». Ma la “deregulation” dei governi di sinistra avrebbe avuto «un altro risultato riassuntivo evidente». Quale? «Il trionfo delle coop rosse». Che si sarebbero spartite la torta con il mondo vicino a Comunione e Liberazione: «In queste grandi opere si era realizzata una saldatura profonda tra le coop rosse e le imprese della Compagnia delle opere». Per Frigerio «solo la gara per la piastra (la più contestata dai pm ndr) era coerente con le normative europee».

Alla fine il detenuto invia un messaggio in bottiglia alla procura e le ricorda che nel 2010 il ministro Giulio Tremonti aveva mandato gli ispettori in Lombardia a studiare «i sovracosti per l’Erario dei project financing» per le grandi opere. Al termine dell’ispezione «Tremonti mandò i fascicoli dell’indagine ministeriale in procura. (…) Come mai ora è calato l’oblio e tutti soffrono di vistosi vuoti di memoria?». Quesito interessante a cui qualcuno, forse, dovrà dare una risposta. Insieme con i saluti, Frigerio chiede a Bruti Liberati di «segretareintegralmente» il contenuto della suo j’accuse «per evitare gli slogan roboanti e ad effetto dei media reali e virtuali». La Procura ha preferito non farlo.
di Giacomo Amadori
da "liberoquotidiano.it"


venerdì 11 luglio 2014

L'ODISSEA GIUDIZIARIA Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato"

Nicola Izzo

Nicola Izzo
In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

intervista di Giacomo Amadori

da "www.liberoquotidiano.it"

giovedì 10 luglio 2014

“Il Papa? Non crede in Dio!”

da "il Giornale.it"

di Francesco Sala

La prima domanda la fa Villaggio: “Lei quanti anni ha?” Rispondo: “Quaranta”. Villaggio: “Pensi che una volta a quarant’anni si era a metà strada, oggi voi iniziate la strada! Anche perché è aumentato il numero dei vecchi che non mollano. L’Italia si è trasformata, da Paese ricco a Paese povero. I quarantenni hanno difficoltà notevoli. Mi faccia pure le domande”.

Un episodio OFF della sua carriera?

Le interessa il racconto di quando Fabrizio De André per scommessa si mangiò un topo? Di notte, da ragazzi, andavamo a casa di uno che era paralizzato e che noi chiamavamo benevolmente “il paralitico”. Si andava da questo signore che aveva una porta-finestra che dava su un giardinetto fetido. Notte di tregenda. Io, Fabrizio e Gigi Rizzi, l’unico benestante. C’erano anche due ragazze bruttine. L’unico che aveva delle belle donne era Gigi Rizzi che era anche l’unico con dei soldi, si figuri era stato con la Bardot! Sentiamo un raspìo alla porta-finestra in legno…Vediamo un gatto nero che si erge sulle zampe, si alza e vomita un grosso topo. Urla di orrore dei presenti. Fabrizio, aveva una sua caratteristica, quella per vanità di stupire tutti, e  fa alla compagnia: “Questo topo, se mi date ventimila lire, me lo mangio!” e Rizzi: ” Te li dò  io!” Fabrizio: “Metti i soldi sul tavolo!” Gigi Rizzi tira fuori un lenzuolo di banconote e le mette sul tavolo. De André respirando come un sub, di colpo… senza rulli di tamburi perché non c’erano… si abbassa, morsica la coda del topo e la succhia come uno spaghetto cinese. Poi dice:” Non lo mangio tutto perché non ho appetito!” Applauso. Con le ventimila lire della scommessa ci invita a cena in un posto poco raccomandabile, frequentato da portuali e prostitute chiamato “Il Ragno verde” e ordina un piatto di fagioli con le cotiche. Vomitò. Il topo l’ha digerito, le fagiolane con le cotiche, no!

Mi racconta una serata al Derby di Milano invece? Chi era l’animatore del gruppo?

Chi aveva formato il clima comico portato al paradosso era Enzo Jannacci. C’eranoCochi e Renato, il povero Felice Andreasi, il bravo Lino Toffolo e altri minori. Jannacci quando mi ha visto per caso alla televisione, mi è venuto ad aspettare alla fine delle registrazioni e mi ha detto: “Ti do ventimila lire a serata!” Io avevo cominciato a lavorare con Maurizio Costanzo e prendevo mille lire a sera. Jannacci ha detto fino alla fine che gli dovevo duecentomila lire. Ci divertivamo a raccontare cose strabilianti. Al Derby si rideva dei paradossi di Cochi e Renato. Io presentavo con un tono afflitto: “Adesso, presenterò un numero ripugnante!” e questo faceva ridere. La televisione si toglieva finalmente la maschera della bontà, del perbenismo.

Chi sono stati i suoi maestri?

Nessuno. Io e Fabrizio De André eravamo cresciuti assieme. Si usava l’arma del paradosso, dell’antiretorica, lo stesso linguaggio usato poi al Derby. Io dicevo: “Signore e signori, sono in grande imbarazzo, non so che cazzo fare!” Il Derby era un piccolo trionfo per me. In Televisione poi, non c’era lo share di adesso. L’unica trasmissione era quella.

Maurizio Costanzo ha dichiarato in un’intervista qui al giornaleOFF: “Il merito di Villaggio è quello di aver creato due personaggi, Fantozzi e Fracchia, che sono dentro ognuno di noi”. La domanda è: come si troverebbero oggi con Facebook e gli sms?

Non è un fatto di condizione sociale. È un fatto di età. È successo che negli ultimi 15 anni che l’arrivo dei telefonini ha cambiato la nostra vita totalmente. Una volta c’erano i telefoni a muro, neri, attaccati alla parete, con la rotella. Fracchia e Fantozzisarebbero tagliati fuori. Io ho 81 anni e sono fuori dai messaggini, dai telefonini, che non so usare. Non so scrivere i messaggi! Fracchia e Fantozzi appartengono a un’altra era. La diagnosi? Quelli della mia età hanno un cervello strutturato in maniera diversa. Il vostro cervello giovane, è plastico, si adatta alle esigenze. Il nostro, quello degli ottantenni, si è dedicato soprattutto alla memoria.
Avevamo una memoria prodigiosa, facevamo le gare a memorizzare i numeri di telefono. Oggi c’è la rubrica sul telefonino.

Questa è anche l’epoca della distrazione. Le capita di osservare la gente che cena in un ristorante? Tutti attaccati al telefonino…

Ma questo è un disagio. Quasi tutte le ragazze di oggi sono un po’ maleducate. Quasi tutte. Certe, anche fascinose, importanti, mentre stai parlando con loro, tengono sotto il tavolo il telefonino. E tu: “Ma cosa fai?” e loro: “Niente!”
Oggi si usa il cervello in un’altra maniera. Se domandi a questa ragazza cosa fanno la sera in televisione, lei tira fuori il telefonino e ti risponde. Credo che l’uso di quello che lei chiama social network sia invece una vera e propria setta.

“Viviamo in una sottile dittatura, strisciante, subdola, quella del pensiero unico”. Lo ha detto lei ricordando Pasolini…

È così. Prima c’erano meno dittature. Adesso vedi il campionato mondiale di calcio? I capelli dei calciatori. Una volta avevano dei capelli umani, poi sono arrivati i capelloni..adesso sono rasati, soprattutto i neri. C’è una dittatura nel modo di vestire: gli occhiali, le scarpe, ma soprattutto i capelli. È una dittatura occulta, che ti impone dei comportamenti e tu li subisci. Non è pericolosa.

C’è stata in Italia un’egemonia culturale della Sinistra? Per decenni qualcuno ci diceva cosa leggere, cosa andare a vedere, quale spettacolo era “in” e quale “out”. Un personaggio ha avuto il coraggio di gridare contro la Corazzata Potëmkin..!

Fantozzi!! Fantozzi era un’esplosione! Perché ha avuto quella fortuna enorme? Perché finalmente criticava questa imposizione: doversi travestire da tutti.
La Sinistra pensava di predicare libertà invece predicavano una cultura modificata dagli intellettuali che erano, bada bene, tutti travestiti da estrema sinistra. Questa è l’epoca del cambiamento e allora, bisogna sperare che un certo tipo di passato(fascismo e stalinismo) non ritorni. C’è stata una manipolazione della Cultura. L’atteggiamento che avevano era: “Tu sei vecchio, obsoleto e sei purtroppo un con ser va to re… Te lo dicevano anche con un certo tono.

Nell’ultimo film di Veltroni si chiede a un gruppo di ragazzi: “Chi è Enrico Berlinguer?” Le risposte sono agghiaccianti e ricordano il suo geniale libretto “Come farsi una cultura mostruosa”…

Berlinguer chi era? Una ballerina?

Ai ragazzi non interessa più la Storia?

Ai giovani non interessa la Storia perché non ci credono più

Viviamo in tempi di consenso unico e dolciastro secondo lei? Oggi bisogna proprio piacere a tutti?

È vero. Renzi ad esempio deve piacere a tutti perché è un politico. Deve fare grandi numeri. Temo che anche il Papa, che parla come Papa Giovanni, che è un bacia bambini; appena vede un bambino, lo punta e lo va a baciare. Il Papa e Renzi sono il trionfo dell’ovvio. Questo Papa si affaccia alla finestra e dice: “Buon pranzo!” Dice cose ovvie! Renzi e il Papa non possono essere completamente normali e buoni. Il politico si maschera da buono perché cerca il consenso. I grandi buoni oggi si vergognano della loro bontà.

Anche il Papa?

Temo di sì. Temo che il Papa non creda in Dio!

Come, scusi?

È molto difficile per un uomo di cultura credere in Dio. Come si fa a credere alla verginità di Maria? È impossibile! L’universo è fatto di miliardi di miliardi di galassie che si allontanano tra loro alla velocità della luce. L’idea dell’uomo solo nell’Universo spaventa moltissimo.

Cosa ha capito degli Italiani?

Gli italiani sono come sono io: pigri, poveri, soprattutto poveri di interessi. Ci siamo spenti nel dominio borbonico. Abbiamo creato la Mafia. Abbiamo esportato Cosa Nostra. Questa è la nostra fama. La cultura tedesca invece è stata straordinaria e paradossale: Kant e Goethe hanno convissuto con Hitler. La Germania è sempre paradossale e io l’ho usata nel mio repertorio comico.

La mediocrità nel mondo dello spettacolo oggi sembra la regola. Anzi, è richiesta…

Questa è la Televisione! I numeri, i grandi numeri portano a questo. Torniamo ai capelli di Balotelli. I barbieri sono disperati perché i ragazzini vogliono i capelli alla Balotelli. Una certa mediocrità arriva dovunque. Se usi il linguaggio di Pasolini non riusciresti ad avere i grandi numeri, forse non vai da nessuna parte.

Un ricordo di Berlusconi. Lei lo ha conosciuto sulle navi, è così?

Berlusconi era credibile, non era mediocre. Lui indubbiamente aveva il senso della conquista dei favori della gente. Era nato con l’idea di fare fortuna nella vita. Diceva: “Ragazzi, qui perdiamo tempo!”, a me e a Fabrizio quando lavoravamo sulle navi diceva: “Noi dobbiamo affittare un capannone vicino Milano e fare noi una televisione privata!”. Io e Fabrizio ci facevamo segno col dito sulla tempia: “Questo è pazzo!”

Poi l’ha fatto!

Lui ha regalato agli italiani la televisione privata che non costa nulla a differenza di quella pubblica dove si paga il canone. Ha regalato una televisione mediocre, diciamo la verità. La televisione statale cercava di fare concorrenza a Berlusconi abbassando il livello. L’ha resa più banale.

Pubblicità!

Oggi però la pubblicità potrebbe rappresentare il cinema più evoluto, più brillante, fatto meglio. Ci sono spot pubblicitari che sono geniali. Si rimpiange ancora Carosello!

Oggi Villaggio, invidia qualcuno?

Ho sempre evitato di frequentare la gente di grande successo, perché sentivo che c’era la voglia cattiva di esibirlo, questo successo. Appena ho avuto fortuna nella vita , ho cominciato a fare l’invidiato. Andavo al Caffè della Pace, dietro Piazza Navona, da solo. Fingevo di non ricordarmi i cognomi, li storpiavo, cioè facevo l’invidiato. Tornavo a casa la sera quasi cantando!

Il successo rende stronzi?

Perché mi fa questa domanda? Allora devo pensare che lei mi annovera… I grandi uomini non hanno bisogno di essere stronzi. Einstein non era stronzo! Io sono completamente guarito dall’invidia.

C’è qualche deficiente che ogni tanto, su internet, lancia la notizia della sua morte. Porta bene, lo sa? Allunga la vita!

Se allungassero la vita, queste dichiarazioni le farei io.

Come immagina il suo funerale?

Ho deciso di non farlo. Ho un timore: che Benigni non venga. Veltroni mi ha detto che parlerà e anche Francesco Rutelli. Gli amici non ci sono più. Gassman a parlare era l’ideale e poi c’era Fellini. Giancarlo Giannini ho paura che non venga e quindi il funerale non lo faccio. Vengono solo quelli che non sanno dove cazzo andare. Consiglio finale ai nonni: cercate di diventare ricchi se non volete essere abbandonati sull’autostrada!

Ultima domanda: un sogno di Paolo Villaggio?

Un viaggio in Transiberiana di ventisei giorni con Ugo Tognazzi. Tognazzi diceva la verità, non era premeditato. Un vero amico.