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venerdì 30 maggio 2014

Terremoto alle cave, mancano decine di milioni dalla tassa marmi


domenica 25 maggio 2014

Perché non è vero che la Tasi è più cara dell’Imu


23/05/2014

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Un errore grossolano nei calcoli della Uil sulla Tasi rende i dati totalmente inattendibili
Flickr / Ondablv

Flickr / Ondablv

  
Parole chiave: 
TASI / IMU / STIME UIL / TASSE / COMUNI / FERRARA
Argomenti: 
RIFORME FISCO E TRIBUTI
Il 20 maggio il Servizio Politiche Territoriali della Uil (diretto da Luigi Veltro) ha diffuso uno studio in cui prendeva in esame i 32 capoluoghi di provincia che, a quella data, avevano già deliberato le aliquote e i regolamenti della Tasi, il nuovo tributo comunale che, di fatto, sostituisce sull’abitazione principale l’Imu. Lo studio identifica in particolare 12 Comuni (tra cui Milano, Genova, La Spezia, Ferrara, Siracusa e altri) in cui il costo medio pro-capite della Tasi sull’abitazione principale sarà più alto rispetto al costo medio dell’Imu pagata nel 2012.[1]
Nei due giorni seguenti i risultati di questo studio hanno avuto enorme risalto su quasi tutti i media nazionali; lo stesso Presidente del Consiglio è stato più volte interrogato in merito, con l’accusa di veder parzialmente vanificato il famigerato bonus di 80 euro mensili previsto dal Dl n.66/2014. Giornali, televisioni, siti di informazione hanno lungamente ripreso la notizia, che in molti casi ha costituito il titolo di apertura.
Beh, lo studio della Uil è viziato da un grave e banale errore aritmetico che inficia completamente tutti i risultati.
Per illustrare l’errore, prendiamo ad esempio il caso del Comune di Ferrara ma - poiché la metodologia utilizzata è uniforme - analogo errore sembra essere stato commesso per ciascuno dei 32 Comuni capoluogo. Lo studio riporta i seguenti dati:
comune-ferrara-tasi
Secondo la Uil, quindi, l’amministrazione comunale di Ferrara avrebbe incrementato il costo medio del tributo sull’abitazione principale di 60 euro.
Per calcolare il costo medio Imu 2012 lo studio si basa su dati di consuntivo e quindi non soggetti a dubbio. Correttamente, divide l’incasso totale come risultante dal bilancio (14.003.991 euro) per il numero di contribuenti intestatari di abitazione principale (56.576). Il risultato è 247,52, arrotondato a 248 euro.
Per il 2014 la Uil non fa un ragionamento analogo (dividendo cioè l’importo previsto a bilancio preventivo 2014 per il numero di contribuenti, cosa che avrebbe subito reso chiaro l’errore), ma preferisce calcolarsi l’imposta netta ricostruendo il percorso:
rendita catastale media > base imponibile > imposta lorda > detrazione > imposta netta
Per calcolare il tributo sulla prima casa (Imu e Tasi funzionano esattamente allo stesso modo), si parte dalla rendita catastale, così come decisa dall’Agenzia del Territorio[2], vale a dire una stima del flusso di reddito che l’immobile avrebbe se immesso sul mercato (e determinato dal prodotto tra la consistenza dell’unità immobiliare e la tariffa d’estimo).
Per passare alla base imponibile del tributo, si aumenta la rendita del 5% e la si moltiplica per 160, una misura adottata dal decreto “Salva Italia” di Monti con il duplice scopo di adeguare le rendite a valori più prossimi a quelli di mercato e, forse soprattutto, assicurare un consistente incasso allo Stato.
Successivamente, come per tutti i tributi, si moltiplica la base imponibile per l’aliquota, ottenendo l’imposta lorda. Alla quale, per arrivare all’imposta netta che il contribuente deve corrispondere, si sottrae la detrazione. Ai tempi dell’Imu la detrazione era semplice: 200 euro per tutti, più 50 euro per ogni figlio convivente under 26, fino ad un massimo di quattro. Il regime Tasi è diverso: spariscono le detrazioni per i figli (o meglio, se un Comune le vuole mantenere, se le deve pagare!), e all’ente locale viene lasciata completa discrezionalità anche per il disegno della detrazione principale. Discrezionalità limitata, in quanto i Comuni hanno un evidente e stringente vincolo di bilancio: visto che il governo non prevede alcun trasferimento compensativo, il gettito Tasi prima casa non deve essere inferiore al gettito Imu prima casa, a meno di non dover intervenire altrove con aumenti di tassazione o tagli di spesa.
Case di Finale Ligure (Vittorio Zunino Celotto/Getty Images)

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Il problema è che nel primo passo di questo percorso (rendita catastale media) il Servizio Politiche Territoriali della Uil commette un banale e grave errore: utilizza la media semplice (anziché la media ponderata, come sarebbe corretto) tra le varie categorie catastali, pesando allo stesso modo categorie in cui – ad esempio – ci sono solo 1.000 immobili e quelle in cui ve ne sono 50.000. Il risultato, ovviamente, non può essere in alcun modo rappresentativo della rendita media presente in quel Comune. E poiché tutti i calcoli successivi sono basati su quel dato, tutti i risultati sono completamente falsati.
In pratica, è come se in un gruppo ci fossero 1.000 persone con i capelli mori e 20.000 con i capelli biondi. Gli individui con i capelli mori sono, in media, alti due metri. I biondi invece sono, in  media, alti 1 metro e mezzo. Nessuna persona sana di mente si sognerebbe di dire che l’altezza media complessiva è 1,75 metri (cioè la media semplice tra 1,5 e 2) perché mentre i mori sono soltanto 1000, i biondi sono venti volte di più. Ebbene, incredibilmente invece è proprio quello che fa la Uil nel suo studio. A posto di biondi e mori abbiamo le categorie catastali, e a posto dell’altezza la rendita catastale.
Vediamo in dettaglio che conseguenze ha avuto questa madornale svista sul dato del Comune di Ferrara.
Poiché lo studio è diretto agli immobili adibiti ad abitazione principale, l’analisi della Uil prende in esame i seguenti immobili e le seguenti rendite catastali medie:
categoria-catastale
Lo studio della Uil dichiara che, di conseguenza, nel Comune di Ferrara vi è una rendita catastale media di 737,50 euro, che però è la media semplice tra le quattro rendite medie di cui sopra.
In realtà, ovviamente, va presa la media ponderata (in quanto le quattro categorie hanno consistenza diversa). Se lo scopo è, infatti, individuare una misura media della rendita catastale in cittànon si può pesare allo stesso modo la categoria A7 (che ha solo 4.028 immobili) e la A3 (che ne ha 46.261).
La media ponderata si calcola pesando ciascuna rendita per un coefficiente (quest’ultimo pari al numero di unità immobiliari in quella categoria diviso il numero totale):
(17.929/ 75.870) *883 + (46.261 / 75.870)*591+ (7.652/75.870)*265+ (4.028/75.870)*1212 661,05 euro
Questa differenza (tra la rendita media dichiarata dalla Uil e quella invece veritiera) inficia tutta l’analisi, infatti, su una rendita media di 661,50, ecco i calcoli giusti. Per quanto riguarda il 2012:
rendite-castali-tasi-netta
Quindi, applicando il ragionamento medio (con la media ponderata però!) otteniamo un costo medio per contribuente di 244,22 euro.  Un dato non molto distante da quello (confermato proprio dalla Uil) effettivamente pagato dai ferraresi nel 2012, e cioè circa 248 euro. Questo quindi è il termine di paragone per quanto concerne quello che è stato pagato nel 2012.
Per quanto riguarda il 2014, facciamo un ragionamento analogo. Partiamo sempre dalla rendita catastale media ponderata (661,05) e quindi dalla base imponibile media ponderata del tributo (= rendita catastale * 1,05 *160 = 111.056). Solo che stavolta la moltiplichiamo per l’aliquota Tasi (3,3 per mille) e otteniamo l’imposta lorda.
Alla quale però va sottratta la detrazione, che nel Comune di Ferrara abbiamo disegnato in maniera personalizzata in modo tale che ogni contribuente pagasse 5 euro in meno rispetto a quello che pagava con l’Imu 2012.
La formula per la detrazione, che si trova nella delibera approvata dal Consiglio Comunale di Ferrara il 28 aprile scorso, è la seguente:
Detrazione =  200 – (rendita catastale * 0,1176) + 5
Quindi:
rendite-castali-tasi
La Tasi che ogni ferrarese pagherà, dunque, sarà in media (ponderata, quindi corretta) 239,21 e non i 308 dichiarati dallo studio della UIil. La differenza sta appunto nel fatto che hanno usato la media sbagliata.
come si può verificare, la Tasi 2014 (=239,21 euro) è inferiore all’Imu pagata nel 2012 (=247,52 euro) di circa 8,31 euro.
Nelle ore seguenti la pubblicazione dello studio, il Comune di Ferrara - di concerto con gli altri Comuni vittime di tale errore - hanno a lungo tentato di segnalare la questione ai media nazionali, anche preannunciando azioni legali. Ma, incredibilmente, nessun quotidiano (con la lodevole eccezione de Il Sole 24 Ore) sembra considerare la cosa importante.
A mio personale parere invece siamo in presenza di un fatto molto grave. Per due giorni una parte rilevante del dibattito pubblico del Paese (a poche ore da elezioni europee e amministrative, che tra l’altro coinvolgono alcune delle città ingiustamente accusate di aver elevato la pressione fiscale) è stato basato su dati completamente sbagliati che, perlomeno nel caso del Comune di Ferrara, dipingono una situazione esattamente opposta a quella reale. Ciononostante, nessuno dei mezzi di informazione ha finora ritenuto opportuno rettificare, né il dibattito politico (inerente il presunto e conseguentemente indebolimento del bonus Irpef concesso dal governo Renzi) ne è sembrato tenere in alcun modo conto.
Matteo Renzi

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Un caso del genere è sintomatico di una situazione problematica per molti aspetti. In primo luogo per la professionalità del centro studi che ha commesso quest’errore, e che finora non si è sognato neanche lontanamente di rettificare. Gli errori capitano a tutti (per quanto conti, anche chi scrive ne ha commessi tanti, e in tutte le dimensioni), ma è inaccettabile che non vengano riconosciuti, specialmente se così madornali ed evidenti. In secondo luogo per i mezzi di informazione che ormai ritengono sufficiente citare la fonte, piuttosto che controllarla. Infine - ma è senza dubbio l’aspetto più importante - per la qualità del dibattito pubblico. Una democrazia che discute sulla base di informazioni false e fuorvianti non potrà mai essere in grado né di discutere bene, né tantomeno di decidere bene. E di buona discussione e buona decisione abbiamo invece molto bisogno.
€€€€€€€
[1] Come si ricorderà, nel 2013 l’IMU sull’abitazione principale (e su altre fattispecie minori) non si è pagata, con l’eccezione del 40% della maggiorazione comunale laddove presente (la cosiddetta “mini-IMU”.
[2] Ora confluita nell’Agenzia delle Entrate.

sabato 24 maggio 2014

IL PIANO Giorgio Napolitano, così a Londra e New York lo vogliono detronizzare

da "liberoquotidiano.it"
24 maggio 2014

L'ultima indiscrezione sul complotto del 2011: la vendetta del Cavaliere sulla Merkel
Complotto contro Berlusconi, l'ultima voce: volevano colpire la Merkel
L'attacco di Mario Giordano a Napolitano: "Davvero nel 2011 non sapevi nulla?"Caso Geithner, Mario Giordano contro Napolitano: "Ha parlato di tutto ma del complotto contro Berlusconi non sapeva?"
Il Quirinale se ne frega del comlotto. Re Giorgio: "Ecco perché Silvio si è dimesso"Caso Geithner, il Colle: "Berlusconi lasciò liberamente e responsabilmente per eventi italiani. Napolitano non partecipò a quegli incontri"

Giorgio Napolitano, così a Londra e New York lo vogliono detronizzare
Luigi Mazzella è vicepresidente vicario della Corte Costituzionale. Ma è stato anche ministro (della Funzione Pubblica nell’ultimo governo Berlusconi) oltre che autore di numerosi articoli e saggi di politica. Lunedì festeggerà 82 anni e da poco è uscito il suo «Euro crash, cinquanta ipotesi di incerto futuro» (Armando Curcio Editore, 367 pp, 18,9 euro), sotto forma di intervista raccolta dallo scrittore ed editore Sandro Gros-Pietro. Dal titolo viene da pensare che sia il solito volume sulle sfide che l’euro e l’Unione europea ci impongono. In realtà è una delle più lucide guide per un politico per portare l’Italia gli italiani fuori dalla crisi. Il mondo occidentale sta andando verso la de-industrializzazione. L’eurozona continentale cerca di resistere, difendendo un manifatturiero ormai non più competitivo e posti di lavoro anacronistici. Il primo mondo, come lo chiama Mazzella, ovvero Gran Bretagna e Stati Uniti hanno tracciato la via, attraverso un percorso iniziato con le riforme di Margaret Thatcher e Ronald Reagan: il futuro è del terziario, dei servizi e dell’industria (oltre che dell’agricoltura) d’eccellenza. Chi si oppone - la sinistra in primis - si vedrà espulso dalla scena politica.

LA RIVOLUZIONE ANGLOSASSONE
Viene da chiedersi: ma allora è vero che il mondo è guidato da una sorta di Spectre internazionale? No, sostiene il vicepresidente della Consulta, perché il potere della finanza è figlio di un accumulo della ricchezza da parte di imprenditori tradizionali, i quali hanno puntato su altre attività (banche, assicurazioni, tecnologia, grande distribuzione, etc…) per continuare a guadagnare. Questo fenomeno, partito negli Usa e a Londra, sta tentando di rivoluzionare la vecchia Europa. Come? Qui entra in campo la politica.

I tycoon anglosassoni puntano sulle forze politiche che mantengono «in stato di fibrillazione la vita parlamentare e amministrativa». Parlamenti ed esecutivi «incapaci e inefficienti sono preferiti a governanti e deputati che sfornano provvedimenti abborracciati nell’intento di ritardare il processo di de-industrializzazione». Ai boss di New York piace anche il movimentismo, ma alla fine è destinato a spegnersi, quindi meglio il tradizionale moderato. Tipo Matteo Renzi. Il premier però ha un problema: nel suo partito ci sono troppi ex comunisti. Soprattutto c’è un cordone ombelicale con la Cgil: «la Trimurti italiana è invidiata da tutte le organizzazioni sindacali dell’Occidente intero, per il peso che riesce a esercitare sulla vita politica italiana». E poi ci sono i «giudici, così sensibili ai problemi sociali, che utilizzano le norme dello statuto dei lavoratori in modo tanto rigoroso da imporre ai datori di lavoro di riprendere in fabbrica i lavoratori ingiustamente licenziati, anche dopo averli abbondantemente risarciti».

La sfida di Renzi - che è già andato all’attacco di Cgil e Confindustria - è insomma molto difficile, mentre è apparentemente più facile in Francia - almeno agli occhi della grande finanza che parla inglese - per Marine Le Pen. Il modello statalista transalpino però non è flessibile. Serve qualcosa in più dunque per trasformare Italia e Francia. Ecco spiegato «l’attacco» partito dalle centrali del potere mondiale «a Hollande e Napolitano. Entrambi, infatti sono ritenuti epigoni di quella politica di sinistra sconfitta dalla storia, ma tuttora in grado di contrastare e di frapporre ostacoli all’Europa continentale, al processo di de-industrializzazione».

In particolare in Italia la situazione è ancora più complicata dalla crisi del centrodestra. E allora, sostiene Mazzella, i big di New York e Londra hanno due modi per «detronizzare» l’inquilino del Quirinale: a) «determinare l’attacco decisivo al berlusconismo inteso non tanto come movimento politico, ma come ultimo baluardo contro l’egemonia di tipo monopolistico dell’informazione, ritenuta necessaria per il dominio completo, almeno in Occidente, del cosiddetto primo mondo e sperare che la diaspora moderata porti benefici elettorali a Grillo (con il solo fine di destabilizzare le istituzioni)». b) «cambiare rotta e puntare sui leader di tutte le forze moderate disponibili e portare a compimento l’opera di disintegrazione della sinistra euro-continentale».

UN PROGRAMMA IN DIECI PUNTI
Che fare? Occorre «un programma di rinascita», precedeuto da una legge elettorale «proporzionale» e ritrovare uno spirito «costituente». E, subito dopo, e attuare dieci punti subito, in modo da far uscire l’Italia da una crisi politica, economica e valoriale, in sintonia con la direzione che sta prendendo il «primo mondo». Ecco i punti: 1) «Favorire e non ostacolare le misure che possono consentire nell’eurozona il passaggio dalla società industriale a quella dei servizi e dei manufatti eccellenti». 2) «Disciplinare i flussi immigratori italiani in modo da consentire un’utilizzazione di nuova manodopera esclusivamente nei settori in crescita». 3) Far conoscere ai boss di New York e Londra che siamo «favorevoli alla de-industrializzazione». 4) «Favorire lo sviluppo di imprese volte alla creazione di prodotti di assoluta eccellenza». 5) «Agevolare la delocalizzazione». 6) Aprire le porte a «grandi catene alberghiere, mondialmente collegate. Creare grandi resort soprattutto al Centro-Sud». 7) «Realizzare infrastrutture», ma non la Tav (legata a interessi industriali), bensì «strade che valorizzino località amene o ricche di bellezze artistiche, archeologiche, architettoniche, storiche». 8) «Promuovere a livello europeo l’uguaglianza e l’omogeneizzazione del trattamento economico e dello statuto giuridico dei dipendenti pubblici». 9) «Privatizzare», ad esempio, «la giustizia civile e amministrativa attraverso la mediazione conciliativa e l’arbitrato». Ma anche «l’insegnamento scolastico, escluso quello dell’obbligo», con sgravi fiscali, e «il sistema assistenziale e previdenziale». 10) «Ridare forza al principio della separazione dei poteri».

di Giuliano Zulin

venerdì 23 maggio 2014

“THE ITALIAN DISASTER” - L’ANOMALIA ITALIANA NON È BERLUSCONI, MA NAPOLITANO! UN SAGGIO INGLESE FA A PEZZI RE GIORGIO (IL TESTO INTEGRALE)

1. IL SAGGIO INTEGRALE DI PERRY ANDERSON: "THE ITALIAN DISASTER"
Dalla "London Review of Books"
da "DAGOSPIA.COM"

2. THE LONDON REVIEW OF BOOKS: "NAPOLITANO, ANOMALIA ITALIANA"
Caterina Soffici per "il Fatto Quotidiano"
NAPOLITANO E TESTA BERLUSCONINAPOLITANO E TESTA BERLUSCONI
La vera anomalia italiana? Giorgio Napolitano. Sull'ultimo numero della prestigiosa London Review of Books, lo storico britannico Perry Anderson analizza la crisi europea in un lungo saggio dal titolo: The Italian Disaster. Non c'è bisogno di traduzione ed è interessante che per parlare del futuro dell'Europa e delle falle nel sistema della democrazia del vecchio continente, si parli del disastro italiano, raccontato con la secchezza degli storici inglesi: una sequenza di fatti, date, pochi commenti e molti argomenti.
Quello che Denis Mack Smith ha fatto con i suoi saggi sul Risorgimento e la nascita del fascismo, Anderson, storico di formazione marxista, lo fa con gli anni recenti della storia patria. Secondo Anderson è il capo dello Stato la vera minaccia della democrazia italiana. Visto in patria come il salvatore, "la roccia su cui fondare la nuova Repubblica", Napolitano è invece una vera pericolosa anomalia, un politico che ha costruito tutta la carriera su un principio: stare sempre dalla parte del vincitore.
Così da studente aderisce al Gruppo Universitario Fascista, poi diventa comunista tutto d'un pezzo: nel 1956 plaude l'intervento sovietico in Ungheria, nel 1964 si felicita per l'espulsione di Solgenitsyn, sostenendo che "solo i folli e i faziosi possono davvero credere allo spettro dello stalinismo". Fedele alla linea del più forte, vota sì all'espulsione del Gruppo del Manifesto per i fatti di Cecoslovacchia e negli anni Settanta diventa "il comunista favorito di Kissinger", perché il nuovo potere da coltivare sono ora gli Stati Uniti.
BERLUSCONI BERTINOTTI MARINI NAPOLITANOBERLUSCONI BERTINOTTI MARINI NAPOLITANO
Gli Usa e Craxi sono i nuovi fari di Napolitano e dei miglioristi (la corrente era finanziata con i soldi della Fininvest) e nel 1996 il nostro diventa ministro degli Interni (per la prima volta uno di sinistra), garantendo agli avversari che "non avrebbe tirato fuori scheletri dall'armadio".Ma il meglio Napolitano lo dà da presidente della Repubblica: nel 2008 firma del lodo Alfano, che "garantisce a Berlusconi come primo ministro e a lui stesso come presidente l'immunità giudiziaria", dichiarato poi incostituzionale e trasformato nel 2010 nel "legittimo impedimento", anch'esso dichiarato incostituzionale nel 2011.
E poi una gragnuola di fatti: il mancato scioglimento delle Camere nel 2008, l'entrata in guerra contro la Libia del 2011 (scavalcando costituzione, senza voto parlamentare, violando un trattato di non aggressione), le trame con Monti e Passera per sostituire Berlusconi, modo - secondo Anderson - "completamente incostituzionale".
MONTI NAPOLITANOMONTI NAPOLITANO
Per non parlare della vicenda della ri-elezione al secondo mandato ("a 87 anni, battuto solo da Mugabe, Peres e dal moribondo re saudita") e delle ultime vicende, con il siluramento del governo Letta. Napolitano, che dovrebbe essere "il guardiano imparziale dell'ordine parlamentare e non interferire con le sue decisione", scrive lo storico britannico, rompe ogni regola. "La corruzione negli affari, nella burocrazia e nella politica tipiche dell'Italia sono adesso aggravate dalla corruzione costituzionale".
QUIRINALE CERIMONIA PER LO SCAMBIO DI AUGURI CON LE ALTE CARICHE DELLO STATO NAPOLITANO LETTA BOLDRINI GRASSOQUIRINALE CERIMONIA PER LO SCAMBIO DI AUGURI CON LE ALTE CARICHE DELLO STATO NAPOLITANO LETTA BOLDRINI GRASSOperry andersonPERRY ANDERSON
E poi il caso Mancino e la richiesta di impeachment contro il presidente da parte di Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso, e l'invocazione della totale immunità nella trattativa Stato-mafia, che Anderson definisce "Nixon-style", termine che evoca scandali come il Watergate. Ma gli esiti italiani sono stati diversi, come ben sappiamo.

lunedì 12 maggio 2014

Vi racconto io chi è il compagno G e cinquant’anni di mazzette rosse

Non so quale sarà la sorte di Primo Greganti nella sua vicenda giudiziaria odierna. Ma vorrei dire una parola in difesa del «compagno G.». Dalla prima Tangentopoli ha ereditato non soltanto una serie di fotografie di se stesso che oggi stanno su tutti i media. Il lascito più pesante è la convinzione che fosse un cacciatore solitario di mazzette a proprio favore. Avvalorata anche dal silenzio di Greganti che, da militante disposto al sacrificio, rifiutava con tenacia di mettere nei guai il proprio partito, il Pci diventato Pds. In realtà il compagno G. è sempre stato una pulce. Chi incassava le tangenti, in pratica chi rubava, erano le Botteghe oscure. Come dimostrerà la storia seguente.
La storia ha un protagonista ben più forte di Greganti: Eugenio Cefis, il successore di Enrico Mattei alla guida dell’Eni. Cefis era un friulano di Cividale, classe 1921, un pezzo d’uomo alto un metro e novanta. Nel corso della guerra civile, da partigiano autonomo aveva tenuto testa alle bande comuniste di Cino Moscatelli. Era un manager che amava il segreto, l’oscurità, il silenzio. Una regola di vita che mantenne sempre, tranne in un caso. Quando nell’aprile 1993, durante la Tangentopoli numero uno, venne interrogato come testimone dal sostituto procuratore Pier Luigi Maria Dell’Osso. Sentite che cosa raccontò.
L'affare russo - Si era tra la fine degli anni Cinquanta e l’alba dei Sessanta. L’Eni disponeva di un’ottima rete per la distribuzione del metano, ma stava esaurendo le riserve di gas della Pianura Padana. Mattei incontrò a Roma il vicepresidente sovietico Aleksej Kosygin e apprese che l’Urss possedeva una sterminata quantità di metano, disponibile in Siberia. Mattei dichiarò di essere pronto ad acquistarne una parte, da immettere sul mercato italiano.
La trattativa risultò molto complessa e durò qualche anno. Per concluderla, Cefis, succeduto a Mattei nel 1962, si disse pronto a versare una tangente al Pci. L’accordo fu raggiunto nel dicembre 1969. Alle Botteghe Oscure venne riconosciuta una mazzetta colossale: oltre dodici milioni di dollari, come contributo dell’Eni per il buon esito dell’intesa. Poiché il contratto di fornitura del gas aveva una durata ventennale, la tangente fu pagata a rate. Un milione e duecentomila dollari alla firma dell’accordo, il resto in versamenti trimestrali. Il tutto passava per un conto svizzero indicato da Amerigo Terenzi, un burocrate dal pugno di ferro che governava la stampa comunista in Italia.
È inutile aggiungere che l’Eni di Mattei e poi di Cefis pagava quasi tutti i partiti, a cominciare dalla Dc, dal Pci e dal Psi. La regola seguita da entrambi i presidenti dell’ente petrolifero aveva quattro punti cardine. Primo: erano i partiti a dover chiedere la mazzetta. Secondo: dovevano domandarla almeno tre volte e l’Eni aveva l’obbligo di rispondere sempre no. Terzo: quando l’Eni si decideva a darla, non poteva superare il 25-30 per cento della cifra richiesta. Quarto: comunque la somma doveva essere proporzionata all’aiuto che il gruppo Eni aveva ricevuto da quel partito.
La testimonianza di Cefis basterebbe da sola a smentire tutte le favole sul Pci immacolato. I militanti comunisti ci tenevano molto all’immagine illibata del Partitone rosso. Era un riflesso della vantata diversità genetica del Pci, tanto cara a Berlinguer. Anche Re Enrico sapeva tutto delle tangenti incassate dal suo partito. Però sosteneva che le mazzette rosse erano ben altra cosa dalle mazzette ricevute dalle altre parrocchie. Per un motivo che i militanti più scafati ti spiegavano persino nella più periferica tra le Feste dell’Unità.
Il motivo era che le tangenti pretese dalle Botteghe Oscure e dalle tante federazioni provinciali avevano uno scopo ben diverso da quelle agguantate dai partiti borghesi. Queste servivano a finanziare una politica che avversava il proletariato, la classe operaia e gli ultimi della scala sociale. Invece le tangenti incassate dal Pci erano il carburante necessario per far avanzare la democrazia e favorire l’avvento di una società più giusta. Detto in modo più esplicito: anche noi comunisti pratichiamo la corruzione politica, però a fin di bene.
Infine su tutto il sistema imperava un principio confermato da un libro di Gianni Cervetti, «L’oro di Mosca», pubblicato nel 1993 da Baldini & Castoldi. L’autore non era un signore qualunque. Cervetti, che in settembre compirà 81 anni, all’epoca di Berlinguer era membro della segreteria nazionale del Pci, il responsabile del settore amministrativo e finanziario. Ascoltate che cosa racconta a proposito di uno scandalo edilizio emerso nel 1975 a Parma, quando la città era governata dalle sinistre, con il Pci in prima fila.
Secondo Cervetti, il commento di Berlinguer fu il seguente: «Occorre ammettere che noi comunisti ci distinguiamo dagli altri partiti non perché rifiutiamo finanziamenti deprecabili. Siamo diversi perché, nel ricorrervi, il disinteresse dei nostri compagni è stato assoluto».
Il problema, dunque, non era il fango della corruzione politica, un cancro destinato a diventare incurabile, tanto che ci perseguita ancora oggi, a vent’anni da Tangentopoli e a quarantacinque dalla gigantesca mazzetta pagata dall’Eni al Pci per il gas siberiano. A salvare la coscienza del Bottegone erano le mani nette dei compagni impegnati nel lavoro sporco su quel fronte. Un lavoro diventato sempre più massiccio con il crescere degli apparati dei partiti e dei costi generali della politica.
Anno dopo anno, tutti i segmenti della Casta, da quelli grandi ai più piccoli, cominciarono a mangiare alla stessa greppia. La loro voracità non conosceva più freni. Al punto che le aziende, dalle maxi alle medie, arrivarono a offrire tangenti senza che venissero richieste. Le regole di comportamento esposte da Mattei e da Cefis per l’Eni finirono nel guardaroba dei cani. Le imprese consideravano le mazzette un costo fisso, indispensabile per concludere un affare od ottenere una commessa, un appalto, una fornitura. Nessuno era più in grado di resistere alle pressioni della Casta. Neppure la Fiat, la Montedison, la stessa Eni.
Il santo rosso - Adesso qualche anima bella si domanda come sia nata l’antipolitica che domina la scena pubblica italiana. L’origine sta nella devastante crescita della corruzione pubblica. Nell’osservare il baratro che sta inghiottendo la Casta dei partiti, mi domando come mai un tribuno pericoloso quale è Beppe Grillo abbia tardato così tanto a farsi strada. Un giorno qualcuno ci spiegherà che i suoi sponsor non sono soltanto i partiti di oggi, ma anche quelli di ieri. Compreso il Partitone rosso guidato da Berlinguer, un santo da vivo e da morto, messo sull’altare dall’ultimo celebrante, il candido Walter Veltroni. In questa guerra civile tra i tanti corrotti e i pochi onesti, il compagno Greganti era davvero soltanto una pulce. Gli avevo parlato a lungo nel 1993, per due volte, quando era appena uscito dal carcere di San Vittore, dopo tre mesi di cella. I nostri colloqui li pubblicammo sull’Espresso di Claudio Rinaldi. Greganti mi parve un soldato di ferro al servizio di un’ideale politico e del super comando installato al Bottegone.
Allora il Compagno G aveva 49 anni. Oggi deve stare sui settanta. Si sarà rimesso in pista come consulente delle cooperative rosse interessate ai padiglioni dell’Expo, quelli dei cinesi. Così sento dire, però non so altro. Credo che la Procura milanese non caverà molto da un tipo duro come lui. Comunque non resta che aspettare e vedere.
di Giampaolo Pansa

venerdì 9 maggio 2014

‘’LE CATENE DELLA SINISTRA’’



‘’LE CATENE DELLA SINISTRA’’ - L’AMMANETTAMENTO ALLE TOGHE ROSSE È INIZIATA CON TANGENTOPOLI E DECOLLATO CON L’ASCESA DEL BANANA - QUANTE SONO LE EX TOGHE, DA DI PIETRO A VIOLANTE DA FINOCCHIARO A EMILIANO DA CASSON A CAROFIGLIO, FINITE SUI BANCHI DELLA SINISTRA

Il rapporto tra sinistra e toghe parte con la nascita di “Magistratura democratica”, nel clima del '68, che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di “costruire un rapporto costante con le forze politiche di sinistra” e poi cresce con la “questione morale” come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure)…

Paolo Bracalini per "il Giornale"
LE CATENE DELLA SINISTRA - CLAUDIO CERASALE CATENE DELLA SINISTRA - CLAUDIO CERASA
«Ha cominciato a chiamarmi l'Anm. «Non sappiamo con chi parlare al Pd. Per favore, abbiamo bisogno della Ferranti alla Giustizia». E io ho risposto obbedisco ai magistrati, mica al Pd». La richiesta dell'Associazione nazionale magistrati, rivelata (e poi smentita, come da prassi) dal catto-dem Beppe Fioroni nei primi giorni del governo Letta, è stata accontentata.
Alla presidenza della commissione Giustizia della Camera siede proprio lei, Donatella Ferranti, ex magistrato, e di una corrente non a caso, Md (Magistratura democratica), le toghe di sinistra. L'interlocutore più gradito all'Anm, a costo di un'invasione di campo plateale. Che però non sorprende perché conferma un dato storico, l'alleanza tra sinistra e magistratura italiana.
Un «ammanettamento» che ha radici lontane, dalla nascita di Md - nel clima del '68 - che nella sua assemblea nazionale si assegna il compito di «costruire un rapporto costante e articolato con le forze politiche di sinistra», alla «questione morale» come bandiera del Pci di Berlinguer (delegata poi alle Procure), al pool di Mani pulite che opera già come un'unità politica.
ANTONIO DI PIETROANTONIO DI PIETRO
Un processo ricostruito da Claudio Cerasa nel suo Le catene della sinistra, facendo parlare i testimoni di questa mutazione genetica (doppia: dei giudici e della sinistra). Racconta Sergio D'Angelo, ex magistrato schierato con Pci e poi Ds, a lungo in Md da cui poi ha preso le distanze: «Dopo Tangentopoli la politica ha iniziato a guardare al magistrato come ad una guida spirituale.
E i magistrati di sinistra, che esercitano un'egemonia culturale nel mondo delle procure, hanno sposato la causa della rivoluzione politica». Una minoranza («un settimo sui 9mila magistrati in servizio», dice D'Angelo) diventata maggioranza culturale dentro la corporazione, al punto da dominarla e influenzarne anche le sentenze.
Anna FinocchiaroANNA FINOCCHIARO
Ammette un altro magistrato, Francesco Misiani: «Non posso negare che nelle mie decisioni da giudice non abbia influito, e molto, la mia ideologia».
Ma quando scatta l'ammanettamento tra sinistra e toghe? Cerasa lo domanda a due magistrati di un'importante Procura, che per riservatezza non si svelano. Ma rispondono e indicano due tappe.
La prima, Tangentopoli: «Lì molti di noi si sono convinti di avere una missione salvifica, di dover non solo combattere la corruzione ma di redimere l'Italia. E la sinistra si illude di poter prendere il potere con la magistratura». Il secondo, Berlusconi: «Assegnare alla magistratura il compito di eliminare Berlusconi - racconta uno dei due pm - ha dato alla magistratura un potere enorme che forse neanche la magistratura intendeva ottenere.
Ma di fatto, da quando Berlusconi è in campo, bisogna riconoscere che la magistratura di sinistra è diventata un azionista importante, per non dire prioritario, dell'universo del centrosinistra».
La saldatura è visibile dappertutto. Nelle carriere politiche di molti pm d'assalto, a cominciare da quelli del famoso pool.
gianrico carofiglioGIANRICO CAROFIGLIO
Di Pietro ministro del governo Prodi, Gerardo D'Ambrosio senatore del Pd, Borrelli supporter della segreteria Veltroni. «Ma il mondo di centrosinistra è pieno di magistrati che una volta poggiata la toga all'attaccapanni si sono buttati in politica» ricorda Cerasa. I nomi più noti: Anna Finocchiaro, Luciano Violante, Michele Emiliano, Pietro Grasso, ma pure i senatori Casson, Carofiglio e Maritati, la deputata Pd Lo Moro e poi la Ferranti.
Gianrico Carofiglio e Walter VeltroniGIANRICO CAROFIGLIO E WALTER VELTRONI
Magistrato è anche un consigliere Rai indicato dal Pd, Gherardo Colombo, anche lui ex pool. Proprio il Colombo che anni fa sulla rivista Questione Giustizia teorizzò la missione politica della magistratura. «Ritengo - scriveva l'ex pm - impraticabile una prospettiva di "ritorno alla terzietà" (per la magistratura, ndr), che risulterebbe soltanto apparente».
Il giudice insomma, riassume Cerasa «ha il compito, quando necessario, di sostituirsi all'opposizione parlamentare». Il magistrato diventa militante, e la sinistra si consegna - manette ai polsi - alla sudditanza verso le Procure. Chi ha analizzato a fondo questo fenomeno è Violante, che da ex magistrato ha conosciuto entrambi i percorsi e il loro intreccio pericoloso.
Francesco MisianiFRANCESCO MISIANIANTONIO DI PIETRO SAVERIO BORRELLI GERARDO DAMBROSIOANTONIO DI PIETRO SAVERIO BORRELLI GERARDO DAMBROSIO
Il margine di libertà che i pm più schierati politicamente hanno per orientare un'inchiesta è enorme, dice Violante intervistato nel libro. I cardini sono due: l'obbligatorietà dell'azione penale (che diventa «uno scudo per giustificare indagini spericolate, fragili, ma efficaci sul piano politico») e poi «il controllo di legalità», cioè la funzione di ricerca del reato, di controllo della legalità, che spetta «alla polizia, allo Stato, alla politica».
L'effetto è la sinistra che si ammanetta da sola al giustizialismo, la politica che si consegna alle Procure. Ai magistrati, aggiunge l'ex presidente della Camera, che «non ne rispondono a nessuno».
LA DOPPIA STRETTA DI MANO TRA GHERARDO COLOMBO E LUISA TODINI BENEDETTA TOBAGI E ANTONIO PILATILA DOPPIA STRETTA DI MANO TRA GHERARDO COLOMBO E LUISA TODINI BENEDETTA TOBAGI E ANTONIO PILATI