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domenica 13 aprile 2014

La ricetta Friedman: dieci punti per salvare l’Italia dal baratro

Pubblicato il 6 aprile 2014 da Alan Friedman

Vorrei condividere con voi questa bella recensione di “Ammazziamo il Gattopardo”, firmata da Luca Ricolfi e pubblicata questa mattina da La Stampa. Buona lettura!
6 aprile 2014 - Strano destino, quello di Ammazziamo il Gattopardo, il libro di Alan Friedman che da settimane è nella parte alta delle classifiche di vendita. Il titolo e il risvolto di copertina ci informano che la missione del libro è presentare «un programma in dieci punti per rimettere l’Italia sul binario della crescita e dell’occupazione», sconfiggendo così il gattopardismo, quell’attitudine tipicamente italiana che ci porta a cambiare tutto perché nulla cambi davvero. Del libro, però, finora si è discusso quasi esclusivamente per la questione Napolitano (il ruolo del Presidente della Repubblica nel «cambio» Berlusconi-Monti, nel 2011), dimenticando tutto il resto.
È un peccato, perché – almeno ai miei occhi – il resto è ciò che dà al libro la sua sostanza. Sostanza letteraria, innanzitutto. I primi 7 capitoli sono essenzialmente ritratti di personaggi pubblici, da Monti e signora fino a Berlusconi, De Benedetti, Amato, Prodi e D’Alema. Questi ritratti sono straordinari, perché costruiti con una tecnica diabolica: anziché provare a penetrare nella personalità dei personaggi, fare congetture sui loro pensieri reconditi, esprimere giudizi e valutazioni più o meno soggettive sul loro operato, Friedman si limita a descriverli nel loro ambiente, come un etologo che osserva esemplari di una specie animale.
Talora il personaggio, con i suoi tic e le sue debolezze, viene fuori dall’intero capitolo, attraverso la descrizione del suo habitat: è il caso dell’esilarante capitolo su Massimo D’Alema («Lo spumante di Massimo»), che ci accompagna nella tenuta umbra del leader comunista, fra «filari di cabernet franc e pinot nero» e libri «importanti», come le memorie di Condoleezza Rice. Altre volte il personaggio viene fuori da poche pennellate: le espressioni facciali di Monti durante un’intervista, o il nervosismo dei coniugi Monti alle prese con i loro ospiti, a una cena organizzata «per incontrare e coltivare l’élite milanese». Altre volte ancora, per fissare un personaggio, basta mezza riga, come quando, parlando di «Mani Pulite» e del clima milanese del 1993, Friedman ricorda «un certo Di Pietro, all’epoca una persona che veniva presa molto sul serio». Insomma, pagine di una spietatezza volutamente leggera, talora crudeli, ma mai sarcastiche o astiose. Pagine sempre distaccate, direi quasi fredde, come si conviene a un osservatore attento dell’umanità.
Questo distacco verso i personaggi della telenovela (o commedia?) italiana Friedman lo mantiene anche nel giudizio politico, che non è mai «schierato». Friedman non nasconde né i suoi modelli (Clinton, Blair, Schroeder) né le sue simpatie (Matteo Renzi) e antipatie (Enrico Letta), ma fondamentalmente non si schiera per nessuna delle fazioni che hanno devastato l’Italia di questi anni. Persino su Napolitano il giudizio è sospeso e rimesso ai «costituzionalisti» e, quanto a Berlusconi, la volontà del giornalista di capire prevale nettamente su qualsiasi valutazione politica.
Ma il distacco viene meno, completamente meno, al momento di parlare dell’Italia e della ricetta per guarirla. Qui Friedman mette molta passione, una passione che come italiano ho riscontrato spesso (e talora ho trovato persino eccessiva), nei giornalisti-studiosi-professori anglosassoni trapiantati in Italia, da Paul Ginsborg a Bill Emmott. Friedman è convinto che l’Italia sia tuttora sull’orlo di un burrone, e che il tempo che resta a disposizione per salvarci sia pochissimo (un’affermazione probabilmente vera, ma che a me suscita una reazione di rigetto: l’ho sentito dire troppe volte, la prima da Ugo La Malfa nel 1974, esattamente 40 anni fa).
Secondo Friedman ormai «siamo a un minuto dalla mezzanotte per le sorti dell’economia e della società italiane». Ma che fare nel minuto che ci resta, prima che la mezzanotte ci precipiti nel suo abisso? La «Ricetta» di Friedman, cui sono dedicate le 70 pagine del capitolo 9, è fatta di 10 punti, per lo più articolati in obiettivi quantitativi precisi. La ricetta merita di essere discussa, e questo non tanto per la sua visione generale, che è quella di una sinistra moderna e liberale, quanto perché prende posizione in modo piuttosto preciso su alcuni punti che, anche fra gli studiosi di quel ceppo politico (sempre minoritario in Italia, ma ora rincuorato dall’affermazione di Renzi), sono sempre risultati controversi. Mi riferisco a tre questioni.
Primo: opportunità di un’imposta patrimoniale. Sì, risponde Friedman, ma solo se temporanea, leggera, limitata alla ricchezza finanziaria e, soprattutto, successiva all’attuazione delle riforme strutturali, altrimenti diventa un alibi per non farle.
Secondo: se e come abbattere il debito pubblico. Sì, il debito va abbattuto di 400 miliardi con un piano di dismissioni e valorizzazione del patrimonio pubblico, a un ritmo di 50 miliardi l’anno per 8 anni, fino a scendere sotto il 100% nel rapporto debito-Pil.
Terzo: se e quando rinegoziare i vincoli europei. Anche questo si può fare, ma solo dopo aver cominciato a ridurre il debito pubblico (l’esatto contrario di quel che sta facendo Renzi).
È convincente la Ricetta complessiva di Friedman? Difficile entrare nel merito senza un’analisi di ciascuno dei 10 punti di cui si compone. Qui vorrei solo dire che, a mio modesto parere, Friedman – forse proprio perché è americano e in Italia si è trovato benissimo – è un po’ troppo benevolo con noi. Le cose che Friedman immagina, temo che i politici italiani non le faranno mai, e non perché non funzionerebbero ma perché gli elettori non lo consentirebbero. La Ricetta, in altre parole, è sostanzialmente giusta ma difficile da digerire, specie là dove prevede tagli draconiani alla spesa pubblica (32 miliardi a partire dal 3° anno, più o meno quel che immagina di fare il commissario Cottarelli).
Dobbiamo concluderne che la ricetta è inservibile? Niente affatto. Per quel che capisco della società italiana, la ricetta di Friedman è così giusta e sensata che, per cominciare a raddrizzare la situazione, basterebbe fare la metà delle cose che lui immagina, una sorta di «FFF2 rule»: Fai Friedman Fratto 2 (ma fallo davvero). C’è un piccolo problema, però. La Ricetta prevede un presupposto politico cruciale, che oggi è venuto del tutto a mancare: «A mio avviso, scrive Friedman, l’Italia non potrà intraprendere un vero programma di cambiamento e rinascita finché non si saranno tenute le prossime elezioni politiche (…). Una cura radicale per il Paese implica un programma di cinque anni di vera stabilità, basata su un voto popolare».
Già, forse questo è il nodo. La Ricetta di Friedman, che molto si occupa del presunto sgambetto di Napolitano a Berlusconi nel 2011, nulla dice né potrebbe dire dell’effettivo sgambetto di Renzi a Letta nel 2013: il libro, infatti, è andato in stampa pochi giorni prima che Renzi facesse cadere il governo Letta, allontanando così, nessuno sa di quanto, il momento del ritorno alle urne.
Così il dubbio resta. La Ricetta è buona, Friedman lascia capire che Renzi potrebbe essere l’uomo giusto, ma proprio Renzi ha fatto venire meno il presupposto decisivo per applicarla. Gli italiani, a quanto pare, sono ancora in attesa di un cuoco che abbia le carte in regola per applicare la Ricetta di cui avrebbero bisogno.

sabato 12 aprile 2014

SENTENZA STORICA Banche, i correntisti non devono pagare se vanno in rosso

Libero - www.liberoquotidiano.it
11 Aprile 2014
La commissione di massimo scoperto è stata vietata per legge nel 2009, ma molte banche, inclusa Banca Intesa, l'hanno reintrodotta anche sui conti senza fido, chiamandola in altro modo: commissione per scoperto di conto. Il Tribunale di Torino ha confermato che questa clausola è nulla e che nessuna commissione poteva essere richiesta ai consumatori in questi casi. La commissione illegittimamente addebitata deve essere restituita ai correntisti". Così l'associazione Altroconsumo annuncia la decisione del Tribunale di Torino in merito a una class action promossa in nome di 104 consumatori, proprio contro Ca' de Sass, colpevole di aver fatto pagare una commissione ai correntisti che sono andati "in rosso" sul proprio c/c.
La sentenza - Insomma la sentenza avrà effetti rivoluzionari nel rapporto tra banche e consumatori. Per il Tribunale torinese sei degli aderenti hanno diritto a un rimborso, una minima parte rispetto ai sottoscrittori: l'adesione della stragrande maggioranza non è stata ritenuta valida perché le firme relative non sono state autenticate da un notaio. Motivo per cui Altroconsumo parla di "vittoria amara". Ma di fatto il verdetto è già una vittoria per i consumatori. Per il presidente dell'associazione, Paolo Martinello, si tratta comunque di "una sentenza che nel merito stabilisce un precedente importante". E' la "prima pronuncia sulle nuove commissioni, quelle reintrodotte da alcuni istituti dopo che una legge del 2009 le aveva abolite".
Pioggia di richieste - Per Martinello si aprono dunque possibilità importanti per i consumatori che si sono visti addebitare questi costi illegittimi, anche se i limiti alla normativa della class action italiana non la rendono immediatamente eseguibile per tutti. "I 98 esclusi da questo provvedimento, ma anche tutti gli altri consumatori che si trovano in situazioni simili, la potranno comunque invocare nei lorocasi personali, sia contro Intesa Sanpaolo che contro altri istituti che si siano comportati in maniera simile, e richiedere la restituzione delle commissioni pagate".
Come chiedere il risarcimento - Altroconsumo invita infatti "i risparmiatori a utilizzare lo strumento che il Giudice mette a disposizione, avendo ammesso che la clausola in oggetto (quella sul pagamento delle commissioni per scoperto di conto o simili, a seconda delle denominazioni, ndr) è nulla: tutti i potenziali consumatori interessati presentino richiesta di rimborso con un reclamo scritto; se la risposta non è soddisfacente o non arriva entro 30 giorni far seguire un ricorso all'Arbitro bancario finanziario". E' facile prevedere una pioggia di richieste di risarcimento. E ora le banche tremano...

venerdì 11 aprile 2014

IL LATO ROSSO(O)SCURO DELLA RESISTENZA: LA STORIA DEI PARTIGIANI INNAMORATI TORTURATI DAI FASCISTI E UCCISI DAI LORO COMPAGNI NEL SILENZIO COLPEVOLE DI TUTTI I LEADER DEL PCI


Nel libro della Mirella Serri la tragedia del comandante partigiano Luigi Canali e della staffetta Giuseppina Tuissi uccisi perché in dissenso con la fucilazione della Petacci e del Duce e perché sapevano che l’oro di Dongo era finito nelle mani dei dirigenti comunisti – Solo 60 anni dopo Ciampi, su spinta di Veltroni, restituirà l’onore di combattenti ai due partigiani…

Marcello Sorgi per ‘La Stampa'
MUSSOLINI ULTIMA IMMAGINE DA VIVOMUSSOLINI ULTIMA IMMAGINE DA VIVO
Un amore partigiano, forte, disperato, come può esserlo una passione nata nei giorni più tragici della guerra. E un destino terribile, finire vittima della brutalità del fascismo morente, e della violenza irrazionale dei partigiani. La storia di «Neri» e «Gianna», nomi di battaglia del comandante partigiano Luigi Canali della Cinquantaduesima brigata che catturò Mussolini e Claretta Petacci, e della staffetta, «collegatrice», Giuseppina Tuissi, rivive in un saggio di Mirella Serri («Un amore partigiano», pagg. 215, Longanesi, € 16,40), in cui lo spessore dei sentimenti e il rigore dell'analisi storica si fondono in un duro atto d'accusa delle responsabilità della classe dirigente, da Togliatti a Longo alla prima fila dei capi del Pci clandestino, che guidarono la lotta di Liberazione.
Siamo nell'inverno '44-'45, ultimi mesi della seconda guerra mondiale, in quel fazzoletto di terra attorno a Como in cui Mussolini e la Repubblica di Salò vivono la loro agonia, circondati dalla stretta sorveglianza nazista delle SS e dalla Resistenza dei partigiani clandestini, in un clima di tensione, sospetti e doppi giochi che a un certo punto non consente davvero a nessuno di fidarsi di nessuno.
Luigi Canali, impiegato già a sedici anni della Società Funicolare Como-Brunate, è un campione atletico, collezionista di medaglie, alto, forte, attraente, gran lettore di Marx, Proudhon, Turati, figlio di un'operaia di una filanda, e presto sposato a un'impiegata della sua stessa ditta, Giovanna Martinelli, che se ne innamora, ma senza condividerne la passione politica e il gusto della clandestinità.
MIRELLA SERRI UN AMORE PARTIGIANOMIRELLA SERRI UN AMORE PARTIGIANO
Giuseppina Tuissi, una maschiaccia che faceva a botte con i fascistelli in erba, è nata in una famiglia antifascista e fa l'operaia alla Borletti. Ai primi scioperi è in prima linea. Presto si fa strada nel movimento partigiano: Gianna, questo il suo nome di battaglia, va e viene in bicicletta dalle linee della guerriglia ai rifugi segreti, per portare ordini e informazioni. L'incontro con Neri, che sta per diventare comandante di una brigata partigiana, è scritto nel destino. Vanno a vivere insieme, continuando a svolgere ciascuno i suoi compiti e a correre rischi, cambiando continuamente nascondigli, dividendo spazi angusti e rari momenti di intimità, aggravati da stanchezza e disagi.
LUIGI CANALILUIGI CANALI
Il racconto dell'autrice si svolge su piani diversi. C'è, appunto, quello della guerra di Liberazione, sullo sfondo della quale Serri descrive, con acri e sapienti pennellate, la nascita di una burocrazia di partito conformista e stalinista, che ha in odio la coppia clandestina, il coraggio e il gusto dell'avventura, l'amore per i sogni e per la libertà sopra ogni cosa. E c'è, nelle stesse pagine, nell'area di pochi chilometri di Valtellina, fatta di frazioni come Grandola o Dongo, dove il Duce verrà catturato, una mirabile descrizione degli ultimi giorni di Mussolini, chiuso nella Villa Feltrinelli di Gargnano, raggiunto da un'estenuata Claretta Petacci.
Il Duce è nevrotico, pallido, tormentato dall'ulcera, insofferente alla stretta sorveglianza dei tedeschi, che manifestamente non si fidano più di lui. Eppure, nei momenti in cui è in compagnia dell'amante, non rinuncia alla sua intrinseca volgarità: la intrattiene sulle passioni sessuali delle donne francesi per gli uomini di colore, sulle differenze tra «l'uccello ben piantato» degli italiani, e quello inutilmente lungo e pendulo degli africani.
Parlano, litigano, Claretta è gelosa e Benito inutilmente bulimico di tradimenti. Un giorno una segretaria si rivolge al Duce, dicendosi disciplinatamente «a disposizione», e quello ne approfitta possedendola prima che la malcapitata abbia modo di rendersene conto.
È nella stretta tra il fascismo decadente di Salò e il nuovo potere nascente dei partigiani che preparano l'insurrezione che i due «irregolari» protagonisti verranno stritolati.
GIUSEPPINA TUISSIGIUSEPPINA TUISSI
Arrestati dai repubblichini, vengono sottoposti a torture che Serri ricostruisce nelle pagine più crude del racconto: schiaffi, pugni, calci, frustate, ustioni, umiliazioni personali e violenze sessuali imposte a Gianna dai soldati, fino a un espediente di fronte al quale tutti i prigionieri prima o poi si arrendono: la reclusione in un armadio collegato a una cantina piena di topi e scarafaggi affamati, che non lasciano scampo. Neri riuscirà a fuggire; Gianna, ridotta allo stremo, qualcosa dovrà dire. Alla fine entrambi riconquisteranno la libertà - e Neri anche il suo posto di comando della brigata -, ma non la fiducia dei loro compagni, che anzi li terranno a distanza, imprigionandoli in una rete di maldicenze, e arrivando a pronunciare contro di loro, alla fine di un processo staliniano, una condanna a morte come «traditori».
L'epilogo grottesco della vicenda, a cavallo dei giorni della cattura e dell'esecuzione di Mussolini e della Petacci, e della selvaggia esposizione dei cadaveri a Piazzale Loreto, vedrà Neri e Gianna - scampati ai fascisti, perfino riabilitati al punto da poter prendere parte alla cattura del Duce e della sua amante -, giustiziati, uno dopo l'altro, dagli stessi comunisti, in forza della condanna precedentemente subita, e solo formalmente annullata dopo il 25 aprile, la Liberazione e la conclusione della guerra.
Pagano così, non solo la palese ingiustizia dei sospetti che avevano subìto, mentre, sopportavano le torture del regime. Ma anche il dissenso espresso sulla procedura sommaria che ha portato alla fucilazione della Petacci, oltre che di Mussolini, senza uno straccio di processo, né alcuna considerazione dell'evidente divario di responsabilità tra l'una e l'altro. Su Gianna, pesa anche la scomoda coincidenza che l'ha portata ad essere testimone della razzìa dell'oro di Dongo, il tesoro che il Duce e i suoi ufficiali in fuga portavano con sé, di cui i dirigenti comunisti di Como decisero inopinatamente di appropriarsi.
Nel silenzio colpevole di Togliatti, Longo e di tutti i leader del Pci della storia della Prima Repubblica, ci vorranno più di sessant'anni prima che il Presidente Ciampi, su spinta di Veltroni, restituisca l'onore di combattenti al comandante Luigi Canali e alla staffetta Giuseppina Tuissi, i partigiani innamorati, torturati dai fascisti e uccisi dai loro compagni.

Tre buoni motivi per promuovere il Def

10/04/2014

Stime rigorose, piano riforme dettagliato e giuste coperture lo rendono un buon Documento




C’è parecchia acidità, nei primi giudizi sul Def di Renzi. Non li condivido. Il che non significa che non restino criticità. Né che vada tutto bene. E tanto meno che sia il migliore dei mondi possibili, soprattutto per chi è liberale e vorrebbe da anni una svolta energica a suon di meno spesa e meno tasse. Però una svolta c’è comunque, e prevale sui punti ancora non strutturalmente chiari.
Secondo me va riconosciuto. L’accoppiata Def-Piano nazionale delle riforme di Renzi e Padoan è comunque una rottura rispetto al passato. Per almeno tre ragioni. La prima riguarda la forma. La seconda la cautela, cioè la serietà, nelle proiezioni. La terza, a differenza di quanto stamane rilevino molti osservatori “acidi”, riguarda anche e proprio il punto che tanti interrogativi aveva suscitato a fronte delle molte promesse, cioè le coperture finanzarie.

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La forma, innanzitutto. Padoan ha fatto una scelta essenziale: è il dettagliato e organico piano delle riforme, il vero architrave dell’azione che si ripromette il governo, e che illustrerà in Europa per un cambio anche delle regole cooperative di convergenza, durante il semestre europeo. Fino ad oggi, ad avere la prevalenza erano le tabelle del Def, su deficit e debito pubblico che si faticava a fronteggiare se non con nuove tasse. Ora il Def è invece giustamente ancillare e conseguente, rispetto a ciò che rappresenta la priorità: cioè le riforme. Una novità conseguente a tale impostazione è altrettanto importante: questa volta non siamo all’annuncio di una manovra fatta soprattutto di imposte e accise. Siamo a un’antimanovra, anzi, perché il più viene da importanti tagli strutturali e permanenti alla spesa che vengono confermati in quasi 5 miliardi nel 2014, e via aggiungendo di anno in anno fino ai 32 miliardi complessivi nel 2016. Come vengono anche confermati gli importanti incassi da cessioni pubbliche,12 miliardi ogni anno a cominciare da quello in corso (è ovvio che noi vorremmo la cessione del controllo e che non ci sarà invece, ma questo appunto non è un governo liberale, e siamo già ad aprile, bisogna il governo metta il turbo se vuole quegli incassi…).
Secondo, va dato atto al governo che, questa volta, si è attenuto a un apprezzabile rigore nella stima degli andamenti economico-finanziari. La vecchia tradizione dei Def raccontava scenari mirabolanti, tassi di crescita stellari e deficit puntualmente sottovalutati. Una prassi che ci ha abbondantemente compromessi nei fori internazionali e in Europa. Ora basta, invece. Ci si atterrà rigorosamente al 2,6% di deficit sul Pil nel 2014, senza venir meno agli impegni europei, e con una stima di crescita limata verso il basso allo 0,8%. Glieffetti della pur impressionante lista di riforme sono contenuti in un realistico più 0,3% di Pil quest’anno,  e sommando gli effetti fino al 2018 si resta entro un pur sperabile più 2,1%. Si scrive correttamente che il debito pubblico continuerà ad aumentare fino a fine 2015, per andare incontro a un modesto rientro del meno 1,8% solo nei 3 anni succesivi. Idem dicasi sulla disoccupazione: non si bara promettendo discese significatrive, impossibili a breve. Padoan si è solo - en passant - limitato a un’osservazione marginale sul fatto che l’andamento del Pil nominale non aiuta a ridurre il debito, per causa dell’inflazione troppo bassa: perché questo attiene alla svolta attesa nelle politiche di intervento della Bce sui mercati, e ha fatto bene Padoan a citare l’argomento senza farne una richiesta esplicita. Quel che conta è che i numeri “pubblici” dell’Italia, questa volta, appaiono più realistici del solito.
Matteo Renzi e Pier Carlo Padoan presentano il Def, l’8 aprile 2014 (FILIPPO MONTEFORTE/AFP/Getty Images)

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Terzo, le coperture. Ecco il punto su cui non condivido le letture critiche che stamane si sprecano. Dove i conti non tornavano, il governo ci ha riservato sorprese, ma più positive che negative. Quanto mancava alla copertura delle detrazioni Irpef verrà innazitutto dall’aumento del prelievo sulle plusvalenze realizzate dalle banche azioniste di Bankitalia. A mio giudizio una misura giusta, che sana fondate obiezioni – anche europee – al vantaggio che si era determinato per gli istituti di credito attraverso la frettolosa rivalutazione delle quote decisa a fine dicembre dal governo Letta. Una misura ancor più giusta perché purtroppo è confermata l’aliquota al 26% sui piccolo risparmiatori. Inoltre, la stima nelle coperture del miliardo aggiuntivo di incassi IVA, generato dal pagamento dei debiti commerciali alle imprese, è significativamente assai meno incredibile di quanto non lo fossero i 2-3-4 miliardi che in parlamento suono risuonati in questi ultimi mesi, da parte di Brunetta e non solo. Si dirà: ma il miliardo dalle banche e quello sull’Iva sono una tantum. Corretto. Ed è che qui la vera differenza che mi persuade e che va difesa. Renzi è andato avanti come un treno sui tagli alla spesa e alla dirigenza pubblica.
L’anno prossimo, le coperture da una tantum 2014 che vengono meno verranno sostituite da tagli di spesa aggiuntivi: questo è l’impegno su cui inchiodare Renzi se venisse meno al suo rispetto. Ma è una discontinuità, rispetto ai continui aumenti di tasse generali del passato. Prescrivere un limite da 239mila euro lordi, quelli attribuiti al Capo dello Stato, come retribuzione veramente invalicabile fuori dalle società quotate pubbliche, per direttori generali e capi di gabinetto che oggi incassano anche 70 mila euro in più l’anno, o per magistrati che alla Corte costituzionale arrivano a lambire il mezzo milione, è una svolta. Sulla quale bisognerà sorvegliare, perché com’è noto il diavolo sta nei dettagli, e a scrivere i decreti attuativi saranno coloro i cui stipendi devono scendere.
Scendiamo ora per li rami delle diverse riforme, con considerazioni iper sintetiche. Della conferma degli 80 euro mensili in più al mese per chi sta sotto i 25 mila euro lordi di reddito si è detto, ma la novità è che la settimana prossima il governo dirà entro che misura e come estendere (e finanziare) l’iniezione di reddito anche ai cosiddetti “incapienti”, che non ne beneficerebbero attraverso detrazioni Irpef visto che sono sotto la soglia dalla quale si inizia a pagare l’imposta.
Purtroppo, invece, la discesa dell’Irap per le imprese non è andata oltre quanto Renzi aveva detto negli ultimi giorni limitando l’obiettivo iniziale, cioè un meno 5% quest’anno e meno 10% dal 2015, finanziata con le entrate aggiuntive dovute al ritocco al 26% dell’aliquota su risparmio e titoli esclusi quelli pubblici. Questo è – come ho più volte scritto e argomentato – un aggravio sbagliato e regressivo, la vera grande e brutta macchia del PNR. Mentre molto promettente è la parte di semplificazione fiscale, attuativa della delega votata in Parlamento: vedremo se davvero il governo riuscirà a modificare criteri organizzativi e adempimenti richiesti dall’Agenzia delle Entrate.
Quanto alla vera iniezione di liquidità per le imprese, il pagamento di tutta la parte restante del debito commerciale pubblico dovuto alle imprese fornitrici, il lungo paragrafo esplicativo fa capire che ancora un rilevante problema tecnico c’è, tra Tesoro e Cdp: ma l’impegno è ribadito. Come quello alla riduzione del 10% della bolletta energetica, tagliando costi impropri oggi sussidiati in bolletta.
Sul lavoro, è per intero rispiegata la somma del decreto Poletti già emanato sul tempo indeterminato e apprendistato – senza concessioni a richieste di modifiche – e della delega che darà corpo al Jobs Act. E a proposito di Pa, è confermata – purtroppo – la discutibile proposta della “staffetta generazionale” lanciata dal ministro Madia: vedremo se Renzi davvero si esporrà ai fischi che i lavoratori privati riserverebbero giustamente ai prepensionamenti in deroga a favore dei dipendenti pubblici, o se si limiterò ad aprire qualche finestra nel blocco del turnover pubblico.

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Però è anche vero che nei paragrafi di alcune riforme si colgono elementi mai prima visti. Si parla di separazione verticale totale delle diverse attività della holding Ferrovie dello Stato. Si esprime l’intenzione di dotarsi degli strumenti – vedi il riformato Titolo Quinto della Costituzione – per ridisegnare profondamente l’intero oceano delle 7700 società pubbliche controllate dalle autonomie. Senza escludere nessuna “vacca sacra”, dall’acqua all’energia al trasporto pubblico locale.
Ovviamente, un’ importanza fondamentale nell’elenco di riforme è attribuita a quelle istituzionali, a cominciare da quella del Senato. Padoan ha giustamente insistito. in Europa la nostra richiesta di prenderci un anno in più per azzerare il deficit in cambio di riforme che alzano il prodotto potenziale – la famosa “clausola delle riforme”- avrà più ascolto quanto più energicamente cambiamo le nostre istituzioni e la Pa.
È proprio così. È un governo non liberale ma di sinistra realista e alieno da tentazioni antieuropeiste, quello guidato da Renzi. E se una debolezza essenziale ha il suo piano di riforme è che richiede un passo bersaglieresco, per essere adottato nei tempi e nei modi in cui il governo ieri l’ha definito. Ma a questo punto è del Pd,  il problema. Se una parte del partito di Renzi pensa davvero che sia un disegno autoritario da bloccare, allora inizi pure a frenare come ha cominciato a fare sulla riforma del Senato. Poi non si lamenti, però, se le urne premiano Grillo.
Articolo originariamente pubblicato su Leoni Blog




martedì 8 aprile 2014

Lenin accese la scintilla Stalin bruciò ogni cosa Togliatti raccolse le ceneri

ilGiornale.it Cultura

Nuove carte provano la continuità politica tra Mosca e il comunismo italiano. Stessa logica, stessi tragici effetti




Sulla storia dei legami e dei contrasti fra il comunismo sovietico e il comunismo italiano esiste una vasta e varia bibliografia, ma quest'ultimo libro di Giancarlo Lehener (con Francesco Bigazzi), Lenin, Stalin, Togliatti.
La dissoluzione del socialismo italiano (Mondadori, pagg. 360, euro 19), è particolarmente istruttivo perché mette in luce l'implacabile logica che sottende l'intera vicenda; logica che trascende la volontà dei singoli uomini. C'è infatti una linea di continuità politica che, senza alcuna degenerazione, inesorabilmente da Lenin, attraverso Stalin, giunge a Togliatti. Essa porterà nel secondo dopoguerra - data la preminenza dei comunisti sui socialisti - a recidere le possibilità riformatrici, e concrete, del socialismo italiano.
Il libro prende le mosse dalle tappe fondamentali che portarono un piccolo gruppo di rivoluzionari di professione - Lenin, Trotskij, Stalin e pochi altri - alla fortunata conquista del potere con il golpe dell'ottobre 1917. Come è noto in Russia esistevano allora circa 140 milioni di persone, ma il putsch bolscevico che fece cadere Kerenskij - lo ha ripetutamente ammesso Trotskij - fu attuato da 25mila militanti. Ciò spiega perché fin da subito vennero poste in atto le direttive criminali per annientare ogni forma di opposizione, di destra e di sinistra: così nel 1918 con l'abolizione dell'Assemblea costituente; così nel 1921 a Krondstad, con i marinai insorti, decimati a centinaia su ordine di Trotsky; così, nello stesso periodo, in Ucraina con il movimento contadino machnovista. Scrive Lehener: «Dal 1918 al 1922 una statistica per difetto dà la cifra di 250mila persone assassinate dai cekisti (la polizia segreta)». La sistematica distruzione di ogni opposizione è la prova più evidente della scarsa adesione al regime da parte della popolazione: infatti perché usare tanto terrore, se vi fosse stato un vero consenso al comunismo? Non dimentichiamo che fra il 1935 e il 1941, si deve registrare l'arresto di milioni di persone, di cui almeno sette milioni uccise. Nella fase più acuta del Grande Terrore (1937-1938) furono assassinate 690mila persone, mentre un milione 800mila vennero deportate.
Il mito della rivoluzione d'ottobre infiammò comunque fin dall'inizio il movimento operaio e socialista europeo. In Italia diede il via alla rottura fra la componente riformista e quella massimalista, culminata nella drammatica scissione di Livorno del 1921, che portò alla nascita del partito comunista. Come sottolinea Lehener, la conseguenza di questo «errore irrecuperabile» fu l'indebolimento generale delle forze democratiche, e ciò, ovviamente, favorì la vittoria del fascismo. Con l'adesione alla Terza Internazionale, il cui ruolo consisterà nell'essere un mero organo esecutivo delle decisioni prese dal Kremlino, i comunisti italiani, come del resto i comunisti di qualsiasi altro Paese, vennero sottoposti ai diktat di Mosca. L'ascesa di Stalin comportò l'abbandono definitivo di ogni progetto di rivoluzione mondiale, sostituito con l'idea del «socialismo in un solo Paese». Di qui l'ovvia sudditanza del partito all'Unione Sovietica, che generò un contrasto inevitabile al proprio interno circa la linea da tenere di fronte alla nuova situazione acuitasi con l'avvento al potere del dittatore georgiano; contrasto mosso dalla logica dell'epurazione, come è confermato dal conflitto fratricida scatenatosi fra i suoi maggiori esponenti, Gramsci, Togliatti, Bordiga, Tasca, Grieco, Silone, Tresso, Leonetti, Secchia, Ravazzoli, Terracini e altri (con reciproche accuse di tradimento e conseguenti isolamenti, criminalizzazioni ed espulsioni). Inoltre i comunisti italiani, pervasi sempre più dal loro settarismo, attivarono una cieca ostilità contro coloro che non si piegavano alle direttive del Komintern, in modo particolare contro le forze socialdemocratiche, i cui militanti, bollati come «socialfascisti» e «socialtraditori», erano considerati i veri ostacoli della rivoluzione proletaria e spesso ritenuti più pericolosi degli stessi nemici borghesi, compresi i fascisti. La profonda convinzione, del tutto fantastica, del crollo imminente del capitalismo, specialmente dopo il 1929, fu causa di ulteriori settarismi, uniti a un senso di superiorità verso l'intero fronte progressista, dovuta alla certezza di possedere - grazie all'infallibilità del marxismo-leninismo - la conoscenza del processo storico.
Dalla preziosa e inedita documentazione raccolta da Francesco Bigazzi si evince l'impressionante clima di terrore instaurato dallo stalinismo. Tutti coloro che si erano rifugiati nell'Urss - gran parte furono uccisi o scomparvero nei Gulag - finirono per spiarsi l'uno con l'altro, e con ciò diventarono zelanti esecutori delle direttive staliniste, compresa la delazione di compagni, per non cadere nelle sgrinfie della polizia politica. Una tragedia immane che non ha prodotto nulla di buono.