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domenica 30 marzo 2014

HA RAGIONE VISCO, ECCO TUTTI I MILIARDI PERSI PER I FRENI DI CORPORAZIONI E SINDACATI

di Oscar Giannino "LEONI BLOG" 29 Marzo 2014

Non l’avesse mai detto, il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco. Citando testualmente Guido Carli nel centenario della nascita, ha indicato nelle “rigidità legislative, burocratiche, corporative, imprenditoriali, sindacali” ciò costituisce “sempre la remora principale allo sviluppo del nostro Paese”. Il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, è insorto tacciandolo di essere tra le “alte autorità che spesso parlano a vanvera”. La segretaria della Cgil, Susanna Camusso, l’ha liquidato dicendo “mi sembra un riproporre ricette che hanno già mostrato il loro fallimento”.

Invece il governatore Visco ha ragione. E se il giudizio di Carli è ancora attuale, anche se i tempi sono diversi – ai tempi di Carli il problema era l’inflazione, oggi è la stagnazione – ciò esprime una parte rilevante dell’irrisolto problema italiano. Fermiamoci alla parte che ha suscitato la polemica, quella relativa alle parti sociali, e passiamo in rassegna alcuni dei maggiori capitoli sui quali opposizioni e frenate oggettive sono venute da chi ieri ha criticato Visco. Con un’osservazione preliminare: naturalmente è sempre sbagliato generalizzare, richiamare le responsabilità dei “professionisti” della rappresentanza non significa affatto negare che esistano e che abbiano molti meriti, per esempio, migliaia di rappresentanti sindacali nei posti di lavoro che svolgono il loro compito gratuitamente e con coscienza, senza distacchi né benefici retributivi. E dare ragione a Visco non vuol dire neanche fare un calderone comune delle diverse posizioni: ovviamente la Cisl non è la Cgil, e questa non è l’USB.

Relazioni industriali. Cominciamo da quello che dovrebbe essere il mestiere primario di chi rappresenta lavoratori e imprese: non sostituire i partiti, ma occuparsi dei contratti. Sotto questo profilo, non è affatto sanata la rottura che avvenne nel 2009, alla mancata firma Cgil-Fiom del contratto dei metalmeccanici. Cisl-Uil e Cgil erano separati dalla coda polemica del rapporto preferenziale che i governi Berlusconi avevano mantenuto con le prime e non con la seconda. Solo nel 2011 e poi con l’accordo interconfederale del 31 maggio 2013 si è tornati all’unità con le associazioni d’impresa intonro alla rappresentanza delle RSU, sui requisiti maggioritari per la firma dei contratti, sulla contrattazione decentrata nella quale va incardinata la “vera” contrattazione che fa la differenza, quella per accrescere la produttività con il salario detassato e con un utilizzo di impianti – turni, orari – che metta più soldi nelle tasche sia delle imprese che dei lavoratori. Ma un pezzo della Cgil – a cominciare dalla Fiom, di qui la battaglia tra Camusso e Landini – non si è mai riconosciuta in questa svolta. A parte le multinazionali e alcune decine di grandi gruppi, la contrattazione decentrata che pure si è diffusa non ha ancora sprigionato la forza che è in grado di ottenere. E di grandi contratti in deroga aziendali rispetto a quelli nazionali – oggi perfettamente possibili, e che sarebbero utilizssimi -  dopo la Fiat che ha sbattuto la porta da Confindustria se n’è praticamente persa traccia. L’effetto? Frazioni di punto di crescita di PIl in meno. Preziosi in teoria, ma denegati dall’ideologia: quella che oggi nel Pd e nella Cgil gtorna a preferire meno lavoratori apprendisti e a tempo determinato, pur di non ammainare la bandiera di difendere a chiacchiere  il modello unico del tempo indeterminato per tutti.

Il mondo pubblico. Qui le resistenze sono fortissime e trasversali davvero, vista la forza Cisl nel settore statale. Facciamo tre soli esempi. Da 7 anni manca il rinnovo del contratto di quelli che un tempo si chiamavano autoferrotranvieri. Sotto la pressione “di base” dei sindacati autonomi, i confederali resistono a ciò che si manifesta nella realtà. Di fatto, la situazione delle aziende di trasporto pubblico locale – ogni anno circa 6 miliardi di sussidi pubblici – è totalmente divergente. Per l’eccezione Atm di Milano, in utile, ci sono disastri di dimensione europea come l’ATAC di Roma. E nella media guai seri come quelli dell’AMT di Genova – ricordate il blocco per sei giorni della città, due mesi fa, senza che alcun potere pubblico intervenisse – sono più la regola che l’eccezione. In questo settore ormai il contratto nazionale dovrebbe servire solo per la parte normativa e relativa ai diritti: solo con contratti azienda per azienda “ritagliati” sulle specifiche necessità di risanamento-efficienza delle diverse imprese, è pensabile rivedere la luce. E servono energici accorpamenti. Come nel secondo caso: l’universo delle 7700 società controllate da Comuni, Province e Regioni, che diventano quasi 30mila se sommiamo le controllate e partecipate di secondo e terzo livello. Qui l’onere è di 24 miliardi di euro l‘anno, la metà concentrato in società pubbliche che non offrono servizi ai cittadini. Il terzo settore è quello della scuola. Due giorni fa il ministro Giannini ha pronunciato in Parlamento una cifra spaventosa: sono circa 500 mila, sommando tutte le diverse tipologie, i precari della scuola. La politica ha colpe immense – avendo preferito per decenni inventarsi sottocategorie a tempo per ragioni clientelari, alle quali promettere poi stabilizzazione e cattedra in cambio di voti. Ma è il sindacato che le ha accettate, difese e sostenute.

Le liberalizzazioni. Le resistenze sono state infinite. E quelle sindacali per una volta sono “concentrate”, su modalità dell’offerta di servizio da parte del pubblico che prevedano dovunque procedure di gara davvero “aperte”, superando le gestioni in house e mettendo dunque a serio rischio le piante organiche spesso pletoriche dei monopolisti pubblici, dalla raccolta rifiuti ai servizi idrici e ai trasporti. Ma la “resistenza diffusa” alle liberalizzazioni è venuta fortissimamente anche dal mondo privato. Dall’avvocatura, al notariato, ai farmacisti. Alle banche, sempre pronte a sostituire l’abbattimento delle commissioni bancarie o la gratuità della portabilità e rinegoziabilità dei mutui con nuovi oneri impropri a carico del cliente. Tra le liberalizzazioni “offuscate”, cioè attutite nell’effetto per chi paga i costi del servizio, c’è quella energetica. Abbiamo introdotto concorrenza nella generazione di energia più di altri grandi paesi europei, ma in bolletta oggi il costo dell’energia è una componente minoritaria, rispetto a fisco e sussidi. Se lo Stato ci va pesante con le tasse, tuttavia non dimentichiamo che ogni anno diamo 12 miliardi di sussidi alle rinnovabili e oltre 3 al vecchio bacino delle cosiddette “assimilabili”, quasi 4 di sussidi alle reti private, altri miliardi di sostegno ai grandi gruppi “energivori”, e a quelli che hanno sbagliato modello d’investimento e oggi hanno impianti – innanzitutto a gas – inattivi. Confindustria per prima, al cui interno tutte queste categorie sono ben rappresentate e tra i primi grandi soci finanziatori in termini di quote associative, è perennemente attraversata da scosse telluriche anche se restano sotto la superficie, tutte le volte che – come con l’attuale ministro Guidi – riaffiora la volontà di taglie i sussidi in bolletta in modo da alleviare il costo per le piccole imprese e le famiglie.
I costi impropri. Sindacati e associazioni d’impresa hanno ancora una lunga strada da percorrere, in termini di trasparenza rispetto al denaro pubblico di cui beneficiano. La questione è macroscopica per i sindacati, visto che – come ribadito nella recente inchiesta del Messaggero – si aggira sul miliardo di euro l’anno la cifra stimata annuale di fonte pubblica che affluisce nei loro bilanci – tra convenzioni dei CAF, Patronati, quota-pensioni girata dall’INPS, e via proseguendo. Non pubblicano bilanci consolidati nazionali di conto economico e patrimoniale, ma solo stringati rendiconti di cassa annuali per ogni categoria, e non per tutte. Anche per Confindustria – come per le altre 53 diverse sigle d’impresa – non c’è un vero e proprio bilancio consolidato, ma ogni Associazione territoriale e di categoria ha un proprio rendiconto. Confindustria ha tagliato in questi anni i costi centrali e sta accorpando le sue territoriali, l’esempio di Unindustria Lazio che ha superato le organizzazioni provinciali ha fatto testo. Ma che le migliaia di dipendenti del sistema “pesino” troppo in questi anni sulle tasche degli associati, è fatto confermato in molte prese di posizione di imprenditori. Moltissimoci sarebbe da dire sulle Camere di commercio a cui partecipano le associazioni datoriali: sono 105 Camere di commercio, con un’Unione italiana, 19 regionali, 19 strutture di sistema, 69 Camere arbitrali, 105 Camere di conciliazione, 27 Laboratori chimico-merceologici, 47 Borse merci e Sale di contrattazione e 9 Borse immobiliari,151 sedi distaccate per l’erogazione di servizi sul territorio, 135 Aziende speciali per la gestione di servizi promozionali e infrastrutture, 495 partecipazioni con altri soggetti pubblici e privati in infrastrutture, 9 Centri estero regionali, 74 Camere di commercio italiane all’estero, 39 Camere di commercio italo-estere. Al finanziamento proveniente dal diritto annuale versato dalle aziende imprese iscritte o annotate al registro delle imprese e con i diritti di segreteria sull´attività certificativa svolta e sulle iscrizioni in ruoli, elenchi, registri e albi tenuti ai sensi delle disposizioni vigenti, si somma quello di leggi e leggine locali di sostegno alle attività delle Camere. Basta dare un occhio all’elenco delle 19 società controllate e partecipate dalla Camera di Commercio di Roma, e alle 25 di quella di Napoli, per capire che molta pulizia andrebbe fatta.

Insomma siamo seri: è veramente difficile, dare torto al governatore Visco.





domenica 23 marzo 2014

Il mio ricordo di Berlinguer, il "santo" rosso

23 marzo 2014

IL BESTIARIO

"liberoquotidiano.it"

Mi ha sbalordito l’ondata di culto quasi religioso che ha accolto il film di Walter Veltroni su Enrico Berlinguer. Una folla di vip si è inchinata davanti all’ombra del segretario del Pci come si usa fare con i santi. E dopo l’inchino si prega, si chiede una grazia, si piange commossi. Ma Berlinguer era davvero un santo? No, era un leader politico di prima fila, nonostante i molti errori compiuti e l’handicap di non aver mai battuto il partito avversario, la Balena bianca democristiana. E penso che, almeno per me, l’unico modo per rendergli giustizia, senza inutili piaggerie, sia quello di ricordarlo in due o tre casi che ho vissuto anch’io.
La prima volta che intervistai Berlinguer era il giugno 1976, vigilia elettorale. Lavoravo per il Corriere della sera e mi presentai alle Botteghe oscure con un quaderno, una biro e un elenco di domande. Mi accolse Tonino Tatò, l’assistente, l’angelo custode, il suor Pasqualino di re Enrico, sempre all’erta. Era l’opposto del principale: un incrocio tra il centurione e il barbiere di lusso, aitante e sboccato. Mi accolse a muso duro: «Hai scritto sul partito delle formidabili stronzate! Chi te le ha raccontate tutte ’ste balle su Enrico che ho letto nella tua inchiesta sul Pci?».
Cominciò a scorrere le mie domande alla velocità del suono. Poi emise il primo giudizio: «Cazzo!». Non gli piaceva la domanda su Dubcek, il leader cecoslovacco messo a terra dai carri armati sovietici nel 1968: «Lascia perdere Dubcek, porta jella!». E meno che mai quella sulla Nato: «Che c’entra la Nato con l’obbligo di sconfiggere ’sti cazzo di democristiani?».
Invece Berlinguer rispose a tutte le mie domande, e a proposito della Nato disse di sentirsi più sicuro in Occidente che sotto il Patto di Varsavia. Mi diede un’intervista coraggiosa, anche se conosceva più di tutti il peso dell’Unione sovietica. Infatti il testo del nostro colloquio (cinque ore di lavoro, compreso il lungo controllo della prima stesura, e le tantissime Turmac fumate dal segretario) venne subito inviato all’ambasciata sovietica di Roma. Nella persona di Enrico Smirnov, il primo segretario, un funzionario intelligente che parlava alla perfezione l’italiano.
Che cosa accadde dopo quel secondo controllo, lo compresi quando l’intervista apparve la stessa mattina sul Corriere e l’Unità. Nel testo pubblicato dal quotidiano comunista erano scomparse tutte le domande e le risposte sulla Nato, proprio quelle che stavano provocando un dibattito alla grande sul «Nato-comunismo» di Berlinguer. Allora telefonai al direttore dell’Unità, Luca Pavolini, e gli chiesi conto della censura. Replicò con una risata: «Pensi davvero che un povero direttore possa censurare il segretario generale del Pci?». Compresi che domande e risposte erano state sbianchettate per ordine di re Enrico e su richiesta dell’ambasciata dell’Urss. Certe eresie non potevano apparire sul giornale ufficiale del partito, una specie di Vangelo intoccabile.
Rispetto all’Urss, anche Berlinguer poteva godere appena di una sovranità limitata. Persino quando azzardò il famoso strappo, dichiarando che la forza propulsiva del comunismo sovietico si era esaurita, non gli fu possibile mutare campo per incontrarsi con i socialdemocratici europei. Del resto aveva ingaggiato una guerra all’ultimo sangue con il leader dei socialisti italiani, Bettino Craxi. Il nemico vero del Pci non era la Dc, ma il segretario del Psi. Ed è una favola che li dividesse la questione morale. Anche il Pci si finanziava con le tangenti, poiché i generosi contributi di Mosca non bastavano mai.
Craxi era considerato un nemico perché insidiava la forza politica dei comunisti. In una nota riservata del 1978, scritta da Tatò per Berlinguer, veniva dipinto così: «Un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un figuro moralmente miserevole e squallido, del tutto estraneo alla classe operaia».
Nel 1984, quando Craxi diventò presidente del Consiglio e presentò un decreto legge sulla scala mobile, diretto a far calare l’inflazione, con una riduzione molto modesta dei salari, contro il leader del Psi Berlinguer scatenò una guerra senza quartiere. Il segretario del Pci, di solito molto misurato nel parlare, arrivò a dire: «L’ostinazione di Craxi nel tenere in piedi quel decreto rasenta i limiti di un atto osceno in luogo pubblico». E il 20 febbraio di quell’anno, quattro mesi prima di morire, sparò una raffica di accuse contro il segretario socialista: non tollera il Parlamento, pratica metodi autoritari, il suo decreto è un attentato a una delle libertà irrinunciabili della democrazia repubblicana. Morale: Craxi cerca una crisi politico istituzionale che può essere di proporzioni impensabili.
Più di una volta ho visto Berlinguer scherzare col fuoco. Era accaduto anche nell’ottobre 1980, quando la Triplice sindacale decise di bloccare la Fiat Mirafiori. Il segretario del Pci non era per niente d’accordo con il blocco: lo considerava una battaglia perduta. E non aveva nessuna voglia di muoversi dalle Botteghe oscure per correre a Torino. Poi si convinse che non andarci avrebbe leso la sua immagine di capo supremo della sinistra.
Si presentò al cancello 5 di Mirafiori, avendo a fianco l’inseparabile Tatò, più che mai aitante, e uno scheletrico Piero Fassino, che allora era il funzionario del Pci torinese incaricato di seguire le fabbriche. E regalò ai blocchisti qualche parola che a molti cronisti, me compreso, sembrarono davvero incaute: «Se si arriverà all’occupazione della Fiat, dovremo organizzare un grande movimento di solidarietà in tutta l’Italia. Esistono esperienze di un passato non più vicino, ma che il Pci non ha dimenticato. Noi metteremo al servizio della classe operaia il nostro impegno politico, organizzativo e di idee».
La promessa ebbe un seguito che mi venne raccontato dal leader della Cgil, Luciano Lama. Lui non voleva l’occupazione della Fiat e chiese a Berlinguer: «Credi di aver fatto bene ad andare al cancello di Mirafiori?». Con una smorfia di fastidio, re Enrico rispose: «In questo momento bisogna spendere tutto e dare ai lavoratori la prova che noi siamo con loro. E poi guarda che io non ho detto che loro dovevano occupare la Fiat. Ho soltanto sostenuto che, se l’avessero fatto, il Pci sarebbe stato con gli operai».
Però Lama era un romagnolo e non accettava di essere preso in giro dal segretario del suo partito. Gli replicò: «Caro Berlinguer, la differenza c’è. Ma per chi ti ha ascoltato quel giorno davanti alla Fiat non è poi così grande». Berlinguer non aprì bocca. E offrì a Lama soltanto il proprio aspetto: una figura smilza, da adolescente che non ha mai giocato a pallone, le spallucce un tantino incassate, la schiena già curva, un viso più vecchio dei suoi 58 anni, un pallore grigio da fatica, occhiaie, rughe, una barba da fine giornata pressoché bianca, il solito vestito un po’ informe, la cravatta rossiccia annodata alla meglio.
Se fosse ancora in vita, oggi Berlinguer avrebbe 92 anni. A Matteo Renzi non servirebbe rottamarlo. Del resto, i giovani di oggi non sanno più chi sia questo politico sardo che si è trovato al centro di mille tempeste. Per fortuna, esistono ancora i vecchi cronisti, come il sottoscritto. Veltroni dovrebbe ringraziarci uno per uno poiché diamo un senso alla sua nuova vita da regista di documentari.

di Giampaolo Pansa

Caso Moro, la confessione dell'ex poliziotto: "A Via Fani, due agenti dei servizi sulla Honda che bloccò il traffico per sostenere l'azione delle Br"

Il giallo del rapimento di Moro su HuffPost

Gli ingredienti di un giallo ci sono tutti: la confessione post mortem, l'indagine di un poliziotto, la distruzione delle prove e la magistratura - quella romana - che comunque indaga: fine. Ma non è così se si parla del caso Moro. "Tutto è partito da una lettera anonima scritta dall'uomo che era sul sellino posteriore dell'Honda in via Fani. Diede riscontri per arrivare all'altro, quello che guidava la moto".

Enrico Rossi, ispettore di Ps in pensione, racconta all'ANSA la sua inchiesta passeggiando sulle colline di Torino, a due passi da Superga. Spiega con puntiglio e gentilezza sabauda che, secondo colui che inviò la lettera anonima - che si qualificava come uno dei due sulla moto - gli agenti avevano il compito di "proteggere le Br da disturbi di qualsiasi genere. Dipendevano dal colonnello del Sismi Camillo Guglielmi che era in via Fani la mattina del 16 marzo 1978".


Tutta l'inchiesta è nata da una lettera anonima inviata a un quotidiano nell'ottobre 2009. Eccola: "Quando riceverete questa lettera, saranno trascorsi almeno sei mesi dalla mia morte come da mie disposizioni. Ho passato la vita nel rimorso di quanto ho fatto e di quanto non ho fatto e cioè raccontare la verità su certi fatti. Ora è tardi,il cancro mi sta divorando e non voglio che mio figlio sappia. La mattina del 16 marzo ero su di una moto e operavo alle dipendenze del colonnello Guglielmi, con me alla guida della moto un altro uomo proveniente come me da Torino; il nostro compito era quello di proteggere le Br nella loro azione da disturbi di qualsiasi genere. Io non credo che voi giornalisti non sappiate come veramente andarono le cose ma nel caso fosse così, provate a parlare con chi guidava la moto, è possibile che voglia farlo, da allora non ci siamo più parlati, anche se ho avuto modo di incontralo ultimamente...".

L'anonimo forniva elementi per rintracciare il guidatore della Honda: il nome di una donna e di un negozio di Torino.
"Tanto io posso dire, sta a voi decidere se saperne di più". Il quotidiano all'epoca passò alla questura la lettera per i dovuti riscontri. A Rossi, che ha sempre lavorato nell'antiterrorismo, la lettera arriva sul tavolo nel febbraio 2011 in modo casuale.
Non è protocollata e non sono stati fatti accertamenti, ma ci vuole poco a identificare il presunto guidatore della Honda di via Fani che secondo un testimone ritenuto molto credibile era a volto scoperto e aveva tratti del viso che ricordavano Eduardo De Filippo. "Non so bene perchè ma questa inchiesta trova subito ostacoli. Chiedo di fare riscontri ma non sono accontentato.
L'uomo su cui indago ha, regolarmente registrate, due pistole.

Una è molto particolare: una Drulov cecoslovacca; pistola da specialisti a canna molto lunga, di precisione. Assomiglia ad una mitraglietta". "Per non lasciare cadere tutto nel solito nulla predispongo un controllo amministrativo nell'abitazione.
L'uomo si è separato legalmente. Parlo con lui al telefono e mi indica dove è la prima pistola, una Beretta, ma nulla mi dice della seconda. Allora l'accertamento amministrativo diventa perquisizione e in cantina, in un armadio, ricordo, trovammo la pistola Drulov poggiata accanto o sopra una copia dell'edizione straordinaria cellofanata de La Repubblica del 16 marzo". Il titolo era: "Aldo Moro rapito dalle Brigate Rosse".

"Nel frattempo - continua Rossi - erano arrivati i carabinieri non si sa bene chiamati da chi. Consegno le due pistole e gli oggetti sequestrati alla Digos di Cuneo. Chiedo subito di interrogare l'uomo che all'epoca vive in Toscana.
Autorizzazione negata. Chiedo di periziare le due pistole.

Negato. Ho qualche 'incomprensione' nel mio ufficio. La situazione si 'congela' e non si fa nessun altro passo, che io sappia".
"Capisco che è meglio che me ne vada e nell'agosto del 2012 vado in pensione a 56 anni. Tempo dopo, una 'voce amica' di cui mi fido - dice l'ex poliziotto - m'informa che l'uomo su cui indagavo è morto dopo l'estate del 2012 e che le due armi sono state distrutte senza effettuare le perizie balistiche che avevo consigliato di fare. Ho aspettato mesi. I fatti sono più importanti delle persone e per questo decido di raccontare l'inchiesta 'incompiuta'".

Rossi ricorda, sequestrò una foto, che quell'uomo aveva un viso allungato, simile a quello di De Filippo: "Sì, gli assomigliava".
Fin qui l'ex ispettore, che rimarca di parlare senza alcun risentimento personale ma solo perchè "quella è stata un'occasione persa. E bisogna parlare per rispetto dei morti".

Il signore su cui indagava Rossi è effettivamente morto - ha accertato l'ANSA - nel settembre del 2012 in Toscana. Le pistole sembrerebbero essere state effettivamente distrutte, ma il fascicolo che contiene tutta la storia dei due presunti passeggeri della Honda è stato trasferito da Torino a Roma dove è tuttora aperta un'inchiesta della magistratura sul caso Moro.

mercoledì 19 marzo 2014

Anche il mercato dell'oro è manipolato. 5 banche finiscono nella bufera

ECONOMIA  "affaritaliani.it"



Mercoledì, 19 marzo 2014 - 17:04:00

Mercati finanziari ancora manipolati. Dopo lo scandalo del tasso d'interesse interbancario Libor, ad essere finito nel mirino delle autorità ora è il fixing dell'oro che negli ultimi 4 mesi è tornato a correre, superando i 1.350 dollari l'oncia. Nel giro di pochi giorni, infatti, è già salito a due il numero di azioni giudiziarie intentate negli Stati Uniti contro le cinque banche coinvolte nella definizione del benchmark, un riferimento utilizzato in un mercato da oltre 20mila miliardi di dollari.
Gli istituti bancari finiti sul bancone degli imputati sono Barclays, Bank of Nova Scotia, Deutsche Bank, Hsbc e Société Générale con l'accusa di manipolare il prezzo dell'oro al fixing di Londra, valore che determina il corso del lingotto utilizzato dai produttori, dalle gioiellerie e dalle banche centrali. Il Wall Street Journal ha diffuso la notizia che è stata depositata una seconda causa che ambisce a diventare class action e questa volta a farsene promotore è una società, anziché un singolo investitore: si tratta diAis Capital Management, società del Connecticut con circa 400 milioni di dollari in gestione a fine 2013 e diversi fondi specializzati in materie prime. I termini della denuncia sono identici a quelli già presentati la settimana scorsa da Kevin Maher, residente a New York: dal 2004 Barclays, Bank of Nova Scotia, Deutsche Bank, Hsbc e Société Générale avrebbero cospirato per manovrare a proprio vantaggio il fixing. Un'ipotesi "priva di merito e da cui ci difenderemo con vigore" ha ribattuto Deutsche Bank, che due mesi fa ha annunciato l'uscita dal gruppo delle banche del fixing. Repliche dello stesso tenore sono arrivate anche da SocGen e Scotiabank.
A dare impulso alle azioni giudiziarie sembra aver contribuito in modo decisivo la recente anticipazione dei risultati di una ricerca di due studiosi americani: Rosa Abrantes Metz, docente della Stern School of Business dell'Università di New York, già nota per aver sollevato perplessità sul Libor, prima dello scandalo sulla sua manipolazione, e il marito Albert Merzmanaging director di Moody's.
Lo studio, ancora in corso, ha evidenziato reazioni "insolite" sul mercato dell'oro in corrispondenza del fixing pomeridiano, intorno alle 16 ora italiana: osservazioni già fatte da altri ricercatori ma che spingono i Merz a dire che "la struttura del benchmark certamente favorisce la collusione e la manipolazione" e che "è probabile che possa esserci collaborazione tra i partecipanti", ossia le banche che due volte al giono in conference call partecipano al fixing.

giovedì 6 marzo 2014

Oscar Farinetti: "Matteo Renzi ha tre mesi di tempo. Gli italiani? Sono tacchini non sanno venderle le proprie idee"

Ilaria Betti, L'Huffington Post  |  Pubblicato:   |  Aggiornato: 06/03/2014 13:01 CET

“Sapete chi ha inventato il marketing? L’ha inventato la gallina, che fa l’uovo e dice coccodè. Noi italiani, invece, siamo tutti dei tacchini: produciamo veri e propri tesori ma non siamo capaci di venderci. E senza dire coccodè nessuno verrà mai a raccogliere il nostro uovo”. Il fondatore di Eataly, Oscar Farinetti, invitato all’Università Carlo Bo di Urbino per parlare ai giovani del “coraggio di intraprendere”, parla ad Huffpost. Sarà il nuovo premier a trasformarci in galline? “Per ora l’esordio di Renzi è positivo ma lo giudicheremo nei prossimi tre mesi, non nei prossimi tre anni. Concedergli tempo non significa concedergli anni".

Come facciamo a tornare galline?

"Attraverso il buon esempio, attraverso persone grandi che ricoprano ruoli chiave, che invece di lamentarsi cerchino soluzioni, che diano il buon esempio. Siamo il Paese più lamentoso del mondo ma è da dilettanti lamentarsi, è da grandi cercare soluzioni. Basta dire ‘Piove, governo ladro!'"

Pensa che Matteo Renzi sia la persona più giusta per trasformarci in galline? Come vede il suo esordio?

“Per ora l’esordio di Renzi è positivo ma lo giudicheremo nei prossimi tre mesi, non nei prossimi tre anni. Concedergli tempo non significa concedergli anni. Nelson Mandela ha cambiato il Sud Africa in sei mesi, due Papi hanno cambiato la chiesa con due sole mosse geniali. Io ho fiducia. E sono contro la nuova categoria che si è creata, quella degli impossibilisti. Quelli che dicono: 'ah, è impossibile', 'ah, non si può fare', 'ah, dove prende i soldi'. Sono gli stessi che da trent’anni fanno politica e dicono che è impossibile perché vogliono giustificare il fatto che loro non hanno fatto un tubo. Ci proviamo. Come in una sana famiglia. Una sana famiglia, quando mancano i soldi, dice ‘continuo a mangiare ma spendo meno nel vestire, spendo meno nel viaggiare ma riscaldo la casa'. Noi dobbiamo fare lo stesso”.

Ma oltre a risparmiare bisogna anche investire. Quali sono i progetti futuri di Eataly?

“Abbiamo in programma l’apertura di un nuovo Eataly a Roma, a Piazza della Repubblica, sotto l’hotel Boscolo. Volevamo aprire anche in centro, visto che l’Eataly attuale si trova un po’ fuori mano. Il 18 marzo, invece, apriremo a Milano. Ci saranno cinque giorni di inaugurazione proprio per ricordare le “cinque giornate di Milano” del 1848. Conoscere la storia e le nostre radici è importante per valorizzare quello che abbiamo”

Lei che ripropone lo slogan “L’ottimismo è il profumo della vita” del poeta Tonino Guerra, crede ancora in questa affermazione?

"Ottimismo non significa pensare che vada sempre tutto bene ma pensare che tutto si possa risolvere. È sempre l'ottimismo che mi fa dire che questa generazione di italiani viventi è la peggiore della storia d'Italia. Solo 4 generazioni fa abbiamo fatto il Risorgimento, 16 generazioni fa il Rinascimento, 72 generazioni fa abbiamo inventato tutto. Adesso siamo qua. È arrivato il momento di cambiare. Ma per riuscire a cambiare bisogna imparare di nuovo a raccontare noi stessi, a farci conoscere nel mondo. Uno dei miei slogan preferiti è: ‘Think local, act global’, pensare locale ma agire globale. Perché a nord di Parma quando c’è la nebbia corrono a fare il culatello? Siamo uno dei paesi più ricchi di biodiversità al mondo: le Marche hanno più specie vegetali del Regno Unito. Allora approfondiamo questa meraviglia e raccontiamola al mondo. Tutti all'estero vogliono l'Italia: è incredibile quanta poca stima si abbia di noi nel mondo e quanta stima si abbia, invece, del Made in Italy”.

Pensa che la “Grande Bellezza” che abbiamo in Italia ci salverà?

"Certo che ci salverà, non c'è dubbio - afferma Farinetti – abbiamo i paesaggi, la pasta, il parmigiano, il design, l'industria manifatturiera, le scarpe più belle del mondo. Quindi ce la faremo. Ma è importante anche sviluppare una coscienza civica. Deve diventare figo comportarsi bene. Uno che non paga le tasse deve diventare uno che non cucca più. Dobbiamo lavorarci. Ma in fretta. Non servono anni per cambiare tutto”.


martedì 4 marzo 2014

APPELLO Ricostruiamo l’Italia con una nuova Costituzione Scrivere una nuova Costituzione, dove i diritti individuali vengano prima di quelli dello Stato

Per riattizzare il magma delle speranze legate alla creazione del Partito che Non C’è, affidiamo al procelloso mare della rete questo messaggio sigillato nella bottiglia de Linkiesta contenente una proposta volutamente brutale.
Abbiamo di fronte un minuscolo, rarissimo spiraglio. A un certo punto un sistema di latrocinio saldamente multipartisan, di corruttele diffuse e di bande criminali riciclate in politica, collassa perché i ladri aumentano e gli onesti non riescono più a mantenerli. E quindi o i ladri si rassegnano a lavorare (eventualità altamente improbabile) o si produce uno scontro prima a bassa intensità poi deflagrante dove le fedeltà tribali si rimescolano in modo tumultuoso e i feudi elettorali si sgretolano. Grillo è parte di questo processo, ma lo sono per esempio, in misura e per motivi diversi, anche i dementi che propugnano il ritorno alla lira o chi punta le fiches (la s NON è un errore di stampa) sul quid di Alfano.
Però per comprendere come infilare un nodoso paletto nello spiraglio e sfruttare l’effetto leva, bisogna bonificare i neuroni da alcune illusioni. Vediamo se ci riesce di distillare in pochi punti una lezione di Brutal Politik per aspiranti avanguardie del Partito Liberale di Massa.
Secondo la ricerca Adult Literacy and Life Skills, in Italia l’80% del campione tra i 16 ed i 65 anni non riesce a decifrare le istruzioni per sistemare il sellino di una bicicletta. La metà, dopo aver letto la frase «Se la pianta è esposta a temperature di 12°-14° perde le foglie e non fiorisce più», non riesce a coglierne le implicazioni pratiche per la cura del suddetto vegetale. L’80% non sa interpretare un grafico o una tabella. Il rapporto completo lo trovate qui, mentre altri commenti sono qui e qui.
La stragrande maggioranza non riesce a leggere un articolo di giornale semplice (men che meno su argomenti politici). Un articolo di economia per la quasi totalità degli elettori (e dei giornalisti) potrebbe essere scritto in sanscrito e avrebbe lo stesso grado di comprensibilità.
Se siete scettici, fate la prova non con la commessa della pasticceria, ma con un professore di biologia. Il nostro mondo è un catino irrilevante rispetto al mare elettorale. In Italia la maggioranza della popolazione con più di 15 anni ha ottenuto a malapena la licenza media. A questi dati di fatto si aggiungono altre considerazioni ugualmente poco esaltanti.

1) I liberali (nel senso politico) e i liberisti (nel senso economico) in Italia sono stati, sono e saranno un’infima minoranza. Minoranza litigiosa, confusa, tendenzialmente inconcludente, con molte ubbie, pochi sensori nella realtà, sensibilissima, al momento del voto, alle sirene del “meno peggio” e al cialtronismo da naso turato.

2) L’elettore italiano medio è un incrollabile conformista. Blatera al bar di onestà (soprattutto altrui), ma in cuor suo disprezza le minoranze, specialmente quelle legalitarie ed idealistiche che ritiene una banda di fessi ciarlieri distanti anni luce dal proprio vivere quotidiano e soprattutto dai suoi interessi inconfessabili retti da due assi cartesiani: la circonvenzione del prossimo e la piaggeria al potente. Chi non entra in questo diagramma è, politicamente parlando, cibo per cani.

3) L'italiano medio è pervaso dalla voglia di sentirsi parte di una massa, un po’ perché fare dei distinguo richiede impegno intellettuale, un po’ perché sin dal catechismo gli viene inculcata l’importanza di essere parte di un gregge belante. Persino il giovanile ribellismo viene incanalato nell’idea di far parte di un popolo con interessi comuni e nobili. Come se non bastasse, chi ha il diritto di voto percepisce un centesimo dei messaggi che si cerca di trasmettergli e decide in base ad impressioni nebulose legate alla personalità e all’oratoria. Provate a chiedere al vostro carrozziere cosa ha ritenuto in testa dei concetti sbraitati la sera prima a Ballarò.

4) Come già Leopardi osservava, gli Italiani fanno fatica a immaginare che un leader politico sia qualcosa di più e di meglio di un capo fazione, uno che rappresenta interessi, diremmo oggi, tribali o corporativi. Quindi finché si sente parte di quella tribù o corporazione, difficilmente cambia voto indipendentemente dai risultati di governo, dalla qualità della leadership o dalla moralità del capo. Le alternative sono percepite, in ogni caso, come assolutamente simili o, spesso, peggiori. Semplicemente il prodotto di altri interessi inconfessabili come i propri, ma con essi in contrasto.

5) Per questo in un’eterna sindrome di Stoccolma l’italiano bestemmia contro i ladri, disprezza i politici a parole, ma poi li vota e li continua a votare perché il conformismo masochistico è un impulso irrefrenabile come la puntura per lo scorpione in groppa alla rana natante. Appena apposta la croce sulla scheda ricomincia a bestemmiare contro quelli che ha appena scelto, arso dal fuoco dell’Indignazione, tanto sacro quanto sterile.

Assodato questo non idilliaco quadretto è perfettamente inutile, per un partito che voglia rimescolare l’offerta politica, andare alla ricerca di consensi sulla base di un programma di serie riforme economiche o di dotte proposte. Prima di raccogliere un seguito significativo passerebbero decenni nella migliore delle ipotesi. Per la gente comune i dieci (o cinquanta) punti di qualsivoglia natura si situano ad un livello di interesse di gran lunga inferiore alla farfalla di Belen.
Hic et nunc occorre una proposta dirompente che scardini il tavolo, che miri alla giugulare del mercato politico-mafioso, allo strato bituminoso del conformismo, ai riflessi condizionati delle fedeltà di gregge e disattivi l'HAL 9000 del sistema putrescente: in altre parole va messa in discussione la Costituzione per “resettare” il sistema.
Non intendiamo una riforma costituzionale. Intendiamo l’azzeramento tout court della Carta da sostituire con un testo completamente nuovo di 100 articoli (al massimo) che ridisegni dalle fondamenta la Repubblica. Gettiamo alle ortiche la mistificazione della “Costituzione più bella del mondo” che a causa di un oscuro e maligno sortilegio non si riesce ad “attuare” (cosa significhi in pratica rimane un mistero glorioso). Asserire che in 65 anni non è stato possibile attuare una Costituzione equivale ipso facto ad un’incontrovertibile certificazione di fallimento.
Si può discutere in punta di diritto e di forchetta se sia la Costituzione o alcuni dei suoi articoli ad affossare la Nazione. Dal nostro punto di vista esiste un problema gigantesco: la Costituzione è impostata per un sistema parlamentare con rappresentanza proporzionale. Nel momento in cui si è passati ad un sistema maggioritario chi vince prende tutto. Ma TUTTO sul serio: Parlamento, Commissioni, Governo, Presidente della Repubblica, Corte Costituzionale, Autorità di Garanzia, Rai, Consiglio di Stato, CSM. Quelli che salgono sui tetti per difendere la Carta non si rendono conto di aver scampato un incubo per un duplice colpo di fortuna.
Tutte le volte che Berlusconi ha stravinto il Presidente della Repubblica era della parte avversa e quindi c’è stato un argine istituzionale al suo strapotere. Se la scadenza del mandato di Ciampi fosse stata qualche mese più tardi Berlusconi sarebbe stato Presidente della Repubblica e non avrebbe avuto nessun problema a imporre il suo regime. Esattamente come Mussolini impose il fascismo a Statuto Albertino vigente senza colpo ferire e senza strappi costituzionali di sorta.
Insomma la Costituzione attuale non pone alcun contrappeso a chi vince le elezioni. Per di più da tre elezioni si vota con una legge incostituzionale e nessuno ha potuto impedirlo. E sarà esattamente la stessa situazione con l’Italicum. I cittadini inoltre non hanno alcun mezzo per arginare l’ingerenza del Leviatano statale. Non possono sollevare questioni di costituzionalità e non possono controllare assolutamente nulla. Che dire del referendum abrogativo? Esercitato più volte e calpestato costantemente come nel caso della responsabilità civile dei magistrati (1987), la privatizzazione della Rai (1995), il finanziamento pubblico ai partiti (1978) e via dicendo.
Il sistema giudiziario è affidato a guerre per bande di magistrati politicizzati sotto la cupola del CSM, mentre la burocrazia è riserva esclusiva di una casta di legulei cooptati e verso cui il cittadino è mero servo della gleba. Autonomie territoriali o istituzioni legate al territorio che possano influenzare il governo centrale sono inesistenti. La materia fiscale tra Agenzie delle Entrate, Commissioni Tributarie ed Equitalia si riassume nel principio “paga e taci se vuoi evitare guai peggiori”. Non esiste limite alla pretesa fiscale dello Stato che rappresenta l’essenza stessa di ogni Costituzione dalla Magna Charta in poi.
Il testo degli articoli della Costituzione, a cominciare dal primo, sono un guazzabuglio di frasi magniloquenti, retoriche, fumose e vacue che non conferiscono alcuna certezza del diritto, non solidificano alcun principio e pertanto sono interpretabili a comando. Ma la cosa peggiore è che le violazioni dei principi costituzionali anche laddove sono chiari, ad esempio nel vincolo al pareggio di bilancio, non comportano alcuna sanzione.
Se vogliamo davvero cogliere lo spiraglio è imperativo alzare il livello della posta e procedere su un sentiero di rottura radicale. La gente ormai non percepisce più nella cacofonia di ricette una via d’uscita. Il colpo di spugna e la rigenerazione del sistema dalle fondamenta deve diventare l’ariete comunicativo per sfondare le barriere che ci impediscono di raggiungere il nostro bacino elettorale naturale. Proviamo ad operare su tre direttrici:

1) Stiliamo un manifesto i cui sottoscrittori dichiarino di non riconoscersi più nella Costituzione vigente da cui è scaturito un sistema incancrenito, malavitoso e irrimediabile.

2) Convochiamo un’ Assemblea Costituente sull’esempio del Terzo Stato nel 1789 aperta a tutti in rete, redigiamo una Costituzione dal basso, collezionando le proposte e gestendo il dibattito su Liquid Feedback.

3) Una volta redatto il testo raccogliamo le firme di chi vuole unirsi a questa insurrezione legale per seppellire la Prima Repubblica. Se il numero di aderenti volasse verso le centinaia di migliaia, allora avremmo cominciato a dare una prospettiva a chi vuole riforme davvero incisive, ma non trova dove veicolare il proprio impegno e la propria lucida rabbia.

In questo modo la crosta di guano del conformismo nel nostro bacino elettorale naturale si sfalderebbe di fronte ad un ribaltamento epocale che mettesse gli interessi del ceto medio produttivo al centro dell’azione politica. In questo modo chi non va a votare perché disprezza il sistema troverebbe un alveo di partecipazione concreta. In questo modo si taglierebbe il nodo gordiano delle mille riforme impossibili. Tra l’altro ci distingueremmo dalle vacue proteste dei grillini che salgono sui tetti per difendere la Costituzione, ponendo in luce senza mezzi termini che sono i tipici utili idioti, degli inconsci Dudu a lingua penzula intenti a preservare il meccanismo perverso della casta.
I principi della Nuova Costituzione intendiamo proporli nel dettaglio, ma vorremmo fissare quattro punti che ne costituiscano i caposaldi:

a) i diritti individuali non possono essere sacrificati in nessun caso alle pretese dello Stato;
b) la quota di reddito che lo stato preleva a cittadini ed imprese deve situarsi intorno al 25% del PIL senza mai superare il 30%;
c) ogni spesa pubblica va certificata e rendicontata istantaneamente su un sito internet accessibile a tutti;
d) lo stato non può in alcun modo interferire nella sfera delle scelte individuali, siano esse religiose, sessuali, politiche, economiche o di altra natura.
Ci piacerebbe che l’Articolo 1 suonasse pressapoco così:
La Repubblica Italiana è costituita per volontà di donne e uomini liberi, i cui diritti individuali e naturali sono inviolabili e immuni da coercizioni di soggetti pubblici o entità collettive.

Fabio Scacciavillani, Franco Bocchini, Giuseppe Bottacin, Maria Piera D’Alessandro, Roberto Furlan