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sabato 8 febbraio 2014

Jobs Act, cosa non va Il piano Renzi è poco praticabile. Meglio ascoltare chi chiede meno stato, come Marcorè

Luca Ricolfi



Sono ben contento che Matteo Renzi e Silvio Berlusconi stiano, finalmente, riuscendo a cambiare le regole del gioco politico: legge elettorale, ruolo del Senato, titolo V della Costituzione. Anzi, io aggiungerei un quarto punto:snellimento dei regolamenti parlamentari. Se l’Italia è un Paese ingovernabile per chiunque, non è solo perché la abitano gli italiani (pare che Benito Mussolini dicesse: "Governare gli italiani non è difficile, è inutile"), ma perché le regole entro cui qualsiasi governo è tenuto a muoversi sono diventate del tutto obsolete e controproducenti.
Quel che temo, però, è che l’attenzione mediatica riservata alla disfida sulla legge elettorale, con annessi dibattiti e talk show, faccia passare nel dimenticatoio il tema di cui anto animatamente si discuteva fino a due settimane fa, e cioè il problema del lavoro. Renzi lo aveva posto giustamente in cima alla sua agenda, annunciando l’imminente presentazione di un disegno di legge sul lavoro, chiamato un po’ pretenziosamente (e provincialmente) prima "Job act", poi non si sa bene perché ridenominato "Jobs act". All’inizio del mese di gennaio, il segretario del Pd aveva fatto trapelare qualche informazione sui contenuti, sollecitando reazioni e commenti, e promettendo di "chiudere con la nostra proposta" il 16 gennaio, alla riunione della direzione del partito.
Invece niente. Il 16 gennaio non è stato proposto alcun progetto preciso, ed è invece cominciata la sarabanda sulla legge elettorale, sull’eventuale incontro con Berlusconi, e via discutendo. A quanto pare la politica degli annunci non è un’esclusiva del criticatissimo premier Enrico Letta. Eppure il tema è fondamentale. Un sondaggio di pochi giorni fa dell’Ipsos certifica quel che molti avvertono senza bisogno di sondaggi. E cioè che, nella testa degli italiani, i problemi del mercato del lavoro vengono molto prima dei problemi che appassionano i politici di professione, ovvero legge elettorale e riforme istituzionali.
Ma che cosa si può fare per creare nuovi posti di lavoro? Su questo punto le idee che da anni circolano in Italia sono sempre più o meno le stesse. Attenuare o abolire l’articolo 18, prevedere un contratto di lavoro unico a tutele crescenti, ridurre il cuneo fiscale, alleggerire l’Irap, estendere il sussidio di disoccupazione a tutte le categorie di lavoratori. E poi la solita (giustissima) nenia antiburocratica: ridurre e semplificare gli adempimenti.
Personalmente, sono molto perplesso sull’efficacia e/o la praticabilità di questo pacchetto di misure. Alcune appaiono impraticabili per l’ostilità dei sindacati e della sinistra Pd, al punto che su di esse lo stesso Renzi ha ritenuto di dover fare parziale marcia indietro (è il caso del Codice semplificato del lavoro di Pietro Ichino). Altre costano tantissimo e non si sa dove prendere i soldi (sussidio di disoccupazione universale). Altre possono essere efficaci solo se attuate in misura massiccia, e possono essere attuate in misura massiccia solo aumentando il deficit pubblico (è il caso di uno sgravio sostanzioso dei contributi sociali). In breve mi pare che si sia di fronte a quello che chiamerei il "problema della coperta". Se si tira la coperta da un lato per sostenere i consumi non si riesce a tirarla dall’altro lato, quello degli sgravi alle imprese. E viceversa. Perché per ridurre le tasse bisogna ridurre la spesa pubblica, ma se si riduce la spesa pubblica è difficile sostenere i consumi. Insomma un dilemma senza soluzione.
Una via per uscire dal vicolo cieco, però, ci sarebbe. La chiamerò filosofia NM, e spiegherò poi perché. Anziché chiederci che cosa lo Stato potrebbe fare per noi, spostando risorse di qui e di là, potremmo capovolgere il problema e chiederci che cosa potremmo fare noi se lo Stato non ci mettesse i bastoni fra le ruote. E la risposta è: tantissimo. Se solo lo Stato permettesse ai privati di sottoscrivere nuovi patti senza pretendere una tangente su ogni contratto (sotto forma di imposte, tasse, bolli e balzelli di ogni tipo), noi potremmo produrre più Pil. Producendo più Pil la torta da dividere sarebbe più grande, e lo Stato stesso ci potrebbe guadagnare qualcosa. Anziché affrontare ogni problema cercando di "trovare" le risorse,dovremmo cominciare a pensare che un Paese fermo da vent’anni come l’Italia le risorse dovrebbe cominciare a "liberarle". È questo il succo della filosofia che chiamo NM, dalle iniziali dell’attore Neri Marcorè, che in una recente intervista a Sette ha dichiarato: "Facendo (la trasmissione, ndr) Per un pugno di libri ho incontrato centinaia di ragazzi ultravitali e talentuosi. Beh, la politica troppo spesso in Italia è una diga, piazzata di traverso tra i progetti dei cittadini e la loro realizzazione". Difficile, in così poche parole, scattare una migliore istantanea dell’Italia di oggi. Ecco, si tratta di rimuovere quella diga. Di far indietreggiare lo Stato, anziché invocarne l’assistenza. Ma come si fa?
Una strada potrebbe essere questa: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione di stipulare, per almeno 4 anni, contratti completamente esentasse nei quali il costo complessivo del lavoro non ecceda il 20 per cento della busta paga (guadagno 1.000 euro al mese, ne costo 1.200 all’impresa che mi assume), destinando tale 20 per cento in più a una polizza pensionistica, interamente riscattabile dal lavoratore in qualsiasi momento. Questa semplice libertà basterebbe a generare centinaia di migliaia di posti di lavoro, che attualmente non vengono creati non già per paura dell’articolo 18, ma semplicemente perché il costo del lavoro è insostenibile.
Sento già l’obiezione: perché lo Stato non dovrebbe partecipare al banchetto? La mia risposta è che lo Stato ha già banchettato fin troppo, e che persino così, con una proposta liberale come la mia, finirebbe per aumentare il suo gettito. Una frazione del valore aggiunto creato dai nuovi posti di lavoro andrebbe comunque allo Stato, sia attraverso le imposte che gravano sull’impresa (Ires e Irap), sia attraverso le imposte che gravano sui consumi (Iva), sia attraverso le tariffe pagate alla Pubblica amministrazione dai nuovi percettori di reddito (ticket vari), sia attraverso l’emersione di posti di lavoro ora in nero.
C’è una sola eventualità nella quale lo Stato ci perderebbe, quella in cui la maggior parte dei posti di lavoro attivati con il nuovo tipo di contratto fossero posti di lavoro che si sarebbero creati comunque. Ma basta un po’ di conoscenza dell’universo produttivo, credo, per rendersi conto che è un’eventualità del tutto inverosimile. Le imprese disposte a spendere 100 per un nuovo lavoratore, ma indisponibili a spendere 150 o 200 (come avviene con la normativa attuale) sono tantissime. Si tratta solo di lasciare loro la libertà di farlo.

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