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martedì 25 febbraio 2014

1. SARTORI BUM! BUM!: ‘’UN GOVERNO DI INCOMPETENTI GUIDATO DA UN INCOMPETENTE’’ - 2. “NON MI PAIONO MINISTRI CON LA PREPARAZIONE E L’ESPERIENZA NECESSARIE A RISOLVERE I PROBLEMI DELL’ITALIA. IL DIFETTO DEL GOVERNO RENZI È TUTTO QUI, E NON È POCO” - 3. “HA SOLO MESSO INSIEME UNA SQUADRA PER METÀ DI UOMINI E PER METÀ DI DONNE. PUNTO” - 4. IL PROFESSORE CON UNA LUNGA CARRIERA ACCADEMICA NEGLI USA NON È STATO TANTO COLPITO DA UNA CERTA GENERICITÀ DEL PROGRAMMA ESPOSTO ALLE CAMERE (“LO SAPEVAMO GIÀ CHE È SOLO UNO CON LA CHIACCHIERA FACILE”), MA DALL’IDEA DI CONCEDERE LA CITTADINANZA AGLI STRANIERI DOPO CINQUE ANNI DI SCUOLA. “E’ LA PROPOSTA DI IUS SOLI PIÙ STUPIDA, SUPERFICIALE, AVVENTATA E SCONCERTANTE CHE ABBIA MAI ASCOLTATO” - 5. ‘’DA FIORENTINO DI RENZI POSSO SOLO DIRE CHE HA L’ACCENTO DI UN FIORENTINO RIPULITO’’ -

Conversazione con Giovanni Sartori di Francesco Bonazzi per Dagospia
‘'Un governo di incompetenti guidato da un incompetente''. Quando hai ottant'anni, sei uno dei politologi più stimati e ascoltati di tutto l'Occidente, e in più sei un uomo profondamente libero. Insomma, quando ti chiami Giovanni Sartori e sei pure fiorentino, ti puoi permettere giudizi netti come questo sul primo governo Renzi.
Il professore con una lunga carriera accademica negli Usa non è stato tanto colpito da una certa genericità del programma esposto alle Camere ("Lo sapevamo già che è solo uno con la chiacchiera facile"), ma dall'idea di concedere la cittadinanza agli stranieri dopo cinque anni di scuola. "E' la proposta di ius soli più stupida, superficiale, avventata e sconcertante che abbia mai ascoltato", dice a Dagospia. E su La Pira, grande mito di Matteuccio, apre l'armadio dei ricordi in modo quasi definitivo. Indimenticabile anche il suo primo incontro con Renzi, molto simile a uno spot.
Lorenza Foschini Giovanni Sartori e Isabella Gherardi e Claudio StrinatiLORENZA FOSCHINI GIOVANNI SARTORI E ISABELLA GHERARDI E CLAUDIO STRINATI
Professore, ancora poche ore e avremo il Renzi Uno nel pieno dei poteri. Che dice del suo giovane concittadino diventato premier?
"Ho sempre espresso i miei dubbi sulle vere capacità di quest'uomo, che è sicuramente molto bravo nel parlar svelto e con furbizia, abilissimo nella dichiarazione pubblica..."
Però?
"Però nella composizione del governo ha dimostrato poca capacità nello scegliersi i collaboratori. Sempre che non se li sia fatti imporre, ma lui dice di no. Ha solo messo insieme una squadra per metà di uomini e per metà di donne. Punto".
Per l'elevata presenza femminile ha ricevuto grandi elogi.
"Ma vanno benissimo, le donne. Il fatto è che gran parte dei suoi ministri non mi sembra competente. Non mi paiono persone con la preparazione e l'esperienza necessarie a risolvere i problemi dell'Italia. Il difetto del governo Renzi è tutto qui, e non è poco: non è competente lui e non sono competenti loro".
Giovanni Sartori e Isabella GherardiGIOVANNI SARTORI E ISABELLA GHERARDI
Ha dato un'occhiata ai progetti di Renzi?
"Guardi, mi ha colpito più che altro la sua nuova proposta sullo ius soli, anche se per ora l'ha messa in secondo piano. Come è noto, io sono contrarissimo allo ius soli, ma di tutti i progetti che sono stati tirati fuori su questa materia, quello di Renzi è il più stupido, superficiale, avventato e sconcertante che abbia mai sentito, perché prevede di concedere la cittadinanza italiana a chiunque faccia cinque anni di scuola".
E non bastano?
"Ma davvero vogliamo credere che bastino cinque anni alle elementari per fare un cittadino italiano? Per essere un cittadino italiano devo aver consapevolmente accettato il principio di separazione tra Stato e Chiese e aver rigettato il diritto teocratico o di Allah. Ma come si fa a dare la cittadinanza dopo cinque anni di scuola, senza distinguere se un bambino è islamico?"
Populismo o buonismo?
renzi e berlusconi italicumRENZI E BERLUSCONI ITALICUM
"No, è irresponsabilità grave. Perché non solo già oggi non sappiamo dove mettere gli immigrati, visto che noi italiani abbiamo ripreso a partire per l'estero alla ricerca di un lavoro, ma concediamo loro tutti i diritti, compresi quelli di voto. E un giorno saranno la maggioranza anche in questo Paese, come ho appena scritto nel mio prossimo libro".
Nel discorso di ieri al Senato, il segretario del Pd ha esposto più i titoli dei capitoli che un vero programma. E c'è chi comincia a dire che il programma di Renzi è semplicemente Renzi. Lei che ne pensa?
MARIANNA MADIA MARIA ELENA BOSCHI STEFANIA GIANNINI FEDERICA MOGHERINI IN SENATO FOTO LAPRESSEMARIANNA MADIA MARIA ELENA BOSCHI STEFANIA GIANNINI FEDERICA MOGHERINI IN SENATO FOTO LAPRESSE
"Purtroppo condivido i suoi dubbi, ma per me non sono una novità. Non è che fosse necessario aspettare il suo discorso in Parlamento per scoprire che Renzi ha la chiacchiera facile e...."
E...?
"E basta".
Ma se è così, da fiorentino a fiorentino, bischero lui o bischeri noi?
"Ho lasciato Firenze da cinquant'anni, ne ho vissuti trenta negli Stati Uniti e ora abito a Roma. Ma sono senza dubbio un fiorentino. Di Renzi posso solo dire che ha l'accento di un fiorentino ripulito. Potrebbe fare concorrenza a Grillo, un altro che sa parlare veloce e sa usare bene l'elettronica. Però a criticare sono tutti bravi, mentre tirare fuori una proposta costruttiva richiede altre doti. Comunque, per Renzi, è giusto aspettare: vediamo che cosa fa in concreto anche se, lo ripeto, questa sua trovata sullo ius soli è di una gravità assoluta perché appartiene alla categoria di errori senza rimedio".
Maria Elena Boschi e Marianna MadiaMARIA ELENA BOSCHI E MARIANNA MADIA
Contento, almeno, di alcune figure botticelliane al governo?
"Io non sono più un giovanotto e questa delle Boschi e delle Madia è una generazione che non conosco. In compenso conoscevo bene Giorgio La Pira".
Che Renzi cita sempre e quasi venera. Gli ha perfino dedicato la tesi di laurea.
"Ecco, appunto. La Pira l'ho conosciuto per vent'anni, lui insegnava a Giurisprudenza e io a Scienze politiche e mi divertiva parecchio. Era un grandissimo bluff, un gran furbacchione sul quale gira pura mitologia. Distribuiva mantelle ai poveri, ma poi ne faceva comprare 400 al Comune e se ne metteva subito un'altra. Un personaggio davvero pittoresco, non solo come sindaco".
E Renzi lo conosce?
"Ci ho parlato un paio di anni fa e lui si è fatto fotografare con me, abbracciandomi subito. Poi, fatta la foto, è partito per nuove avventure".

domenica 23 febbraio 2014

IL BESTIARIO Fabio Fazio, il finto abatino col pugnale ben nascosto Il conduttore di Sanremo e di "Che tempo che fa"sembra buonista, ma è attento ai propri comodi, fazioso e pure cattivo

Fabio Fazio, il finto abatino
col pugnale ben nascosto

Lei è un’impicciona petulante, vogliosa di mettersi in mostra, con il faccino rinsecchito di chi invecchia troppo presto, le mosse che vorrebbero essere sexy e invece sono grottesche. Per di più si compiace di essere volgare. Non appena apre bocca, sparla di culi, tette, puttanaggio, porca vacca! Mi ricorda certi bar di Torino accanto al mercato dei fiori, dove in piena notte i camionisti appena arrivati dalla Liguria sfogano la stanchezza del viaggio con un serie infinita di stronzaggini. Lui ha l’aspetto, i modi e lo stile verbale dell’abatino compunto, il bravo ragazzo di famiglia che va a trovare le zie e sa che non amano le parole eccessive. Del resto a urlacchiare anche per conto suo è la partner. Sto parlando di Fabio Fazio e di Luciana Littizzetto. E mi ha colpito il giudizio sottile di Selvaggia Lucarelli su Libero: «Lucianina è l’uomo che Fazio non ha il coraggio di essere». 
Ma che uomo è Fazio? Prima di tutto non è affatto un buonista. Lui finge di arrabbiarsi se qualcuno lo definisce così. Questo Bestiario gli piacerà perché lo ritiene  l’esatto contrario dell’uomo generoso. In questo caso l’abito non fa il monaco. L’aria dimessa, l’espressione sempre dolente di chi annuncia una sciagura, il vestito strafugnato del ragazzo di provincia capitato per caso in un posto e in una funzione che non ritiene di meritare: tutto è farlocco, una messa in scena che nasconde il vero Fazio. 
In una Rai che nessuno riesce a cambiare e da sempre è frantumata in sultanati, Fazio è il più sultano di tutti. Un signore gelido, capace di muoversi senza guardare in faccia a nessuno, tanto meno al direttore generale Gubitosi e alla presidentessa Tarantola. Ritenuti, e forse non a torto, figure di passaggio. Sempre molto attento ai propri comodi e all’occorrenza anche cattivo. Con la manina avvolta nella flanella grigia e il pugnale avvelenato ben nascosto. 
Il sultanato di Fazio è Che tempo che fa e risulta uno dei più marmorei, con una durata che inizia nel 2003 e resiste ancora oggi. Sono undici anni, ma vivrà intatto nel tempo, sino a quando esisterà la Rai. Da quel trono, ben collocato nella Tre, la rete rossa, Fazio pratica una censura inflessibile. Travestita da libertà di scelta, quella che spetta a tutti i conduttori di talk show. In realtà, il pallido Fabio non sceglie, ma discrimina. 
Lui gestisce in modo autoritario il potere di promuovere libri e autori. Un regime accettabile in una tivù privata, però non alla Rai. Che è pur sempre tenuta in vita dal canone sborsato anche dai tanti che Fabio cancella perché non rispondono all’identikit che lui preferisce: quello del sinistrorso che rimpiange il vecchio Pci con tutti gli annessi e connessi, a cominciare dal disastro del comunismo italico. Non a caso il suo spin doctor, il consigliere principe di Che tempo che fa, è Michele Serra, un altro nostalgico del passato trinariciuto. 
In più di un caso, il settarismo politico di Fazio ha prodotto situazioni grottesche. È accaduto nel presentare un libro del direttore dei giornali radio Rai unificati. Un collega già redattore dell’Unità e poi condirettore di Paese sera, un quotidiano filo-Pci destinato a sparire. 
Era il maggio 2007, sotto il governo di Romano Prodi. Quella sera gli utenti della Rai ebbero sotto gli occhi un’ammucchiata tutta rossa, da far morire d’invidia i nostalgici della Germania dell’Est, polizia segreta compresa. Rete di sinistra, conduttore di sinistra, autore di sinistra in quota Ds. Un conflitto d’interessi sfacciato, fra compagnucci che si strizzavano l’occhio a vicenda. Felici di averla fatta franca per l’ennesima volta. 
Ma in altri casi, lo spettacolo si rivelò penoso. Sempre a spese nostre, Fazio aveva invitato Pietro Ingrao affinché presentasse l’autobiografia: Volevo la luna, pubblicata da Einaudi. In preda a un vuoto di memoria, il vecchio capo comunista, sostenne che il Pci aveva preso aspre distanze dall’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956, parteggiando per gli insorti di Budapest. 
Non era vero. Ma Fazio e il pubblico invitato nello studio di Che tempo che fa, si guardarono bene dall’obiettare. Che importanza aveva un grossolano falso storico a proposito di un evento di cui nessuno si rammentava più? Quella di Budapest era stata una tragedia che aveva fatto migliaia di morti. Ma nella basilica fazista, immersa nel silenzio delle cerimonie religiose, non ci fu nemmeno un mormorio, un colpo di tosse, un’occhiata di imbarazzo. 
Come mai? Edmondo Berselli, un intellettuale libero e un uomo speciale, purtroppo scomparso anzitempo, lo spiegò così sull’Espresso: «Nessuno osò obiettare nulla, perché in quel momento si stava celebrando l’apoteosi senescente, ma non senile, di un comunismo impossibile, l’utopia del grande sogno, l’assalto al cielo. E quindi tanto peggio per i fatti se i fatti interrompono le emozioni». 
Ma Fazio sa pure essere un vero paraculo, per dirla alla Littizzetto. Nel fare zapping con il telecomando, capitai su Che tempo che fa. E sorpresi il compagno Fabio che stava facendo lingua in bocca con un destrone collaudato, Gianfranco Fini. E dopo il bacio a luci rosse, ecco un dialogo che va dipinto come un cicì e ciciò. Dalle mie parti si dice così di due comari che se la contano amabilmente. 
Mi domandai che libro avesse mai scritto Fini, in quel momento presidente della Camera dei deputati. Più che un libro era un fascicoletto messo insieme da qualcuno dei suoi assistenti a Montecitorio. Ma in realtà il motivo nascosto era un altro. Con il suo fiuto infallibile, il compagno Fabio aveva annusato che il camerata Gianfranco si stava riciclando. E sarebbe presto diventato l’avversario numero uno di Silvio Berlusconi. 
Ecco svelato il cruccio vero dell’abatino di Che tempo che fa. È quello di non essere in grado di uccidere, moralmente, il diabolico Cavaliere. Il suo consigliere e ispiratore Michele Serra deve averlo indottrinato nel modo giusto. Forse ripetendogli, due, dieci e cento volte, quello che aveva spiegato a Luca Telese in un’intervista per Il Fatto: «Berlusconi e il berlusconismo sono una forma estrema di individualismo amorale, di spregio per le regole, di superficialità puerile. Anche se Berlusconi finisse, l’humus che lo ha fatto prosperare rimarrebbe». 
Una bella coppia di sinistri disperati, reduci da troppe sconfitte politiche. Serra dichiarò che, in quel momento almeno, la sua speranza era Nichi Vendola. E Fazio? Mistero, forse sperava soltanto in se stesso. E ha avuto ragione. Per un motivo che Aldo Grasso, il numero uno dei critici televisivi, ha spiegato a proposito di un altro spettacolo di Fabio, il Vieni via con me, condotto insieme a Roberto Saviano. Ma è una ragione che si adatta pure a Che tempo che fa. 
«È una cerimonia religiosa, una messa, una funzione liturgica. L’officiante è Fazio, lui trasferisce sui fedeli quell’aura di senso di colpa che gli trasfigura il volto. La doglianza gli dà potere. Mostrarsi vulnerabile (i ricchi contratti non gli impediscono di piangere sempre miseria) è la sua garanzia di invincibilità, tra un Alleluja e una via Crucis». 
Grasso ha capito tutto. Ci terremo Fabio e Lucianina per molti anni. O almeno sino a quando resterà in vita la Rai e anche dopo. Grazie a Dio sono abbastanza anziano per non vederli incanutirsi sul palco di Sanremo, la brutta copia dei vecchietti di un famoso cioccolato. 
di Giampaolo Pansa

giovedì 13 febbraio 2014

L’impresa di fare impresa in Italia: non solo tasse, la mazzata vera arriva dall’Inps

 Fatto Quotidiano > Economia > L’impresa...

Secondo la Banca mondiale siamo 90esimi su 189 in quanto a facilità con cui si avvia un'attività. Partita Iva, ditta individuale o srl semplificata? Gli ostacoli non finiscono mai. E l'istituto previdenziale pretende subito tremila euro anche da chi non ha incassato nulla

L’impresa di fare impresa in Italia: non solo tasse, la mazzata vera arriva dall’Inps
Da oggi faccio il consulente. O è meglio aprire una ditta individuale?
Meglio provare con un business semplice, semplice, come progettare app per cellulari. Con le giuste competenze, l’investimento iniziale è minimo: basta un computer. Ma dopo averlo acquistato, iniziano subito i grattacapi. Davanti si hanno tre soluzioni, spiega Michaela Marcarini, consigliere dell’ordine dei commercialisti di Milano. La meno complicata è aprire una partita Iva in qualità di professionista o consulente software. Non costa quasi nulla se si fa tutto da soli, mentre se ci si rivolge a un professionista vanno via 100-200 euro, a cui se ne aggiungeranno altri 300-400 a fine anno per la dichiarazione dei redditi. Finché si è under 35, e in ogni caso per i primi 5 anni, si ha diritto a un regime fiscale agevolato, quello dei minimi: su quanto si incassa, una volta sottratti i costi, si paga al Fisco solo il 5% e non si fattura l’Iva. Ma attenzione, l’attività deve essere nuova, non la prosecuzione di un lavoro svolto in precedenza, anche da dipendente. E i compensi ricevuti non devono superare i 30mila euro all’anno. Altrimenti sul reddito si paga l’Irpef in base agli scaglioni progressivi: un’aliquota del 23% per incassi inferiori ai 15mila euro, per poi salire di aliquota in aliquota al 43% che scatta dopo i 75mila euro. E, se le cose vanno oltre le aspettative, fino al 46% con il contributo di solidarietà sopra i 300mila euro. Ma anche se si ha diritto al regime dei minimi, a tagliare le gambe è il regime previdenziale. All’Inps, se non si hanno posizioni pensionistiche aperte con altre casse, va infatti versato il 27,72% del reddito.
Il regime dei minimi si può applicare anche a chi sceglie una soluzione un po’ meno semplice, quella di dare alla propria attività la forma di una ditta individuale. In questo caso ci si deve dotare di Pec e iscriversi alla Camera di commercio: in tutto fanno circa 150 euro quando si parte e poi, a regime, 200 euro all’anno. Ci sono poi gli onorari del commercialista: intorno ai 200 euro per l’avvio delle attività e 600-700 euro all’anno per la tenuta della contabilità. Anche in questo caso, se non si ha diritto al regime dei minimi, anziché il 5% al Fisco si versa l’Irpef in base alle aliquote a scaglioni. E pure per la ditta individuale, il vero macigno rischiano di essere i contributi previdenziali e assistenziali: l’aliquota supera il 22%, più vantaggiosa di quella per professionisti e consulenti, ma questa volta c’è da versare un minimo di 3.300-3.400 euro, anche se non si è incassato nulla. Quindi occhio a creare la propria ditta. Se le cose vanno male, alla fine dell’anno finisce che si hanno meno soldi di quando si è partiti.
La pensione è lontana, ma già taglia le gambe“Il regime fiscale dei minimi è piuttosto vantaggioso per l’avvio di un’attività – commenta Marcarini – Ma quello che fa saltare tutto è il regime previdenziale. Le aliquote Inps sono così alte perché dettate dall’esigenza di incassare. Ai giovani invece dovrebbero essere garantite agevolazioni sui contributi, come è stato fatto per il regime fiscale. L’Inps potrebbe così attirare più contribuenti, che nei primi anni non costano al sistema pensionistico”. Secondo Marina Calderone, presidente dell’Ordine dei consulenti del lavoro, c’è poi un altro vantaggio: “L’agevolazione che si accollerebbe lo Stato – spiega – potrebbe rivelarsi minore di quanto si possa pensare, perché il giovane non risulterebbe più disoccupato e quindi non usufruirebbe più di alcune prestazioni assistenziali, con conseguenti risparmi per le casse pubbliche”. In ogni caso, fa notare Calderone, i versamenti all’Inps “non sono imposte o tasse, ma contributi cui discende una specifica prestazione nel caso di pensione. Si tenga conto che ciò deriva da un principio costituzionale”.
La srl? Semplificata solo a parole, con burocrazia e banche
Terza soluzione, la srl semplificata con statuto standard e capitale sociale che può essere anche di un solo euro. Adatta soprattutto se non si è da soli, ma con uno o più soci. “E se il fatturato supera almeno i 20-30mila euro, altrimenti non conviene”, spiega Marcarini. Il notaio per l’atto di costituzione è gratuito. Ma tutto il resto rischia di essere un salasso già al nastro di partenza: circa 750 euro tra Pec, imposta di registro, diritti camerali e altri balzelli, bollatura di libri e registri sociali. Costi che poi a regime superano i 500 euro all’anno. Sui ricavi, una volta sottratti i costi, si paga il 27,5% di Ires. E poi va aggiunta l’Irap, con un’aliquota ordinaria del 3,9%. Sono rimasti degli utili dopo le imposte? Meglio pensarci due volte a distribuirli, visto che sopra ci si pagherebbe ancora fino al 20% di tasse. Se poi la srl non ha dipendenti, il socio unico o uno dei soci dovrà essere considerato operativo. A lui toccherà quindi versare oltre il 22% del reddito a Inps e Inail, anche qui con un versamento minimo di 3.300-3.400 euro.
Per la srl semplificata salgono anche le spese dal commercialista. Per partire ci vogliono tre o quattro incontri e subito arriva una parcella da 300 euro. Per tenere la contabilità, poi, si pagano ogni anno dai 3mila euro in su. Come mai così tanto? “In Italia ci sono tutta una serie di adempimenti che all’estero non ci sono – spiega Fabrizio Panella dello studio Panella e associati di Milano – La tenuta della contabilità ordinaria, obbligatoria anche in caso di srl semplificate, è particolarmente onerosa, con cinque o sei tra libri sociali e registri contabili e fiscali da tenere aggiornati. E lo spesometro, che tiene traccia di tutti i soggetti da cui si compra o a cui si vende qualcosa, è uno strumento in principio utile considerati gli alti livelli di evasione. Ma è stato implementato in modo delirante, con mille proroghe ed eccezioni che lo rendono estremamente complicato da gestire per un non addetto ai lavori”. Se poi si aggiungono tutte le dichiarazioni fiscali da compilare (Ires, Irap, Iva, 770), il modello Intrastat se si fanno scambi commerciali con i Paesi Ue, i versamenti Iva, contributivi e previdenziali da fare ogni mese o trimestre, e tutte le imposte a cui stare dietro qualora si sia aperto un ufficio, come Tari, Tasi e Imu, si capisce perché da noi sia impossibile gestire in autonomia la propria società e si debba per forza ricorrere al commercialista.
Le srl semplificate, insomma, al di là del nome di semplificato hanno ben poco. Il governo Montile ha introdotte nel 2012 perché contribuissero al rilancio dell’economia. Ma che abbiano stentato a decollare, i notai lo hanno denunciato quasi subito. In gran parte soffocate da oneri fiscali e contributivi, burocrazia. E dalla difficoltà di reperire finanziamenti. Perché la stretta al credito non è uno slogan, ma la serie di ‘no’ che si sente sbattere in faccia chiunque vada in banca a chiedere un prestito per partire. E non c’è business plan che tenga, come racconta Fabio Pallaro, 35 anni, che insieme a un amico ha da poco aperto un locale a Milano: “All’inizio abbiamo cercato un prestito in banca. Ma ci hanno spiegato che per ottenerlo, senza proprietà come eravamo, avremmo dovuto immobilizzare noi stessi come garanzia una cifra analoga a quella del prestito”. Un paradosso.
Fare impresa? Un’impresa, parola della Banca mondiale
Aprire una propria impresa in Italia è dunque impresa ardua. Nel rapporto Doing business 2014 laBanca mondiale ha messo il nostro Paese al 90esimo posto su 189 per la facilità con cui si avvia un’attività: da noi servono in media sei giorni e sei procedure, un bel po’ in più della mezza giornata necessaria per una sola procedura in Nuova Zelanda, il Paese in cui la partenza è più facile e veloce. Tale indicatore, insieme ad altri nove, contribuisce a formare la classifica complessiva della facilità di fare business, che ci vede al 65esimo posto, dopo il Rwanda (32esimo), l’Armenia(37esima), il Botswana (56esimo), solo per fare qualche esempio, e appena due posizioni prima del Ghana. I nostri punti deboli? Tasse, burocrazia e accesso al credito anche secondo la Banca mondiale. Per il pagamento di imposte siamo addirittura in 138esima posizione: i 15 versamenti che in media si fanno ogni anno portano via a un’azienda 269 ore, con un prelievo totale del 65,8% dei profitti. E per l’indicatore “ottenere credito”? 109esimi. Anche qui messi male.

sabato 8 febbraio 2014

Jobs Act, cosa non va Il piano Renzi è poco praticabile. Meglio ascoltare chi chiede meno stato, come Marcorè

Luca Ricolfi



Sono ben contento che Matteo Renzi e Silvio Berlusconi stiano, finalmente, riuscendo a cambiare le regole del gioco politico: legge elettorale, ruolo del Senato, titolo V della Costituzione. Anzi, io aggiungerei un quarto punto:snellimento dei regolamenti parlamentari. Se l’Italia è un Paese ingovernabile per chiunque, non è solo perché la abitano gli italiani (pare che Benito Mussolini dicesse: "Governare gli italiani non è difficile, è inutile"), ma perché le regole entro cui qualsiasi governo è tenuto a muoversi sono diventate del tutto obsolete e controproducenti.
Quel che temo, però, è che l’attenzione mediatica riservata alla disfida sulla legge elettorale, con annessi dibattiti e talk show, faccia passare nel dimenticatoio il tema di cui anto animatamente si discuteva fino a due settimane fa, e cioè il problema del lavoro. Renzi lo aveva posto giustamente in cima alla sua agenda, annunciando l’imminente presentazione di un disegno di legge sul lavoro, chiamato un po’ pretenziosamente (e provincialmente) prima "Job act", poi non si sa bene perché ridenominato "Jobs act". All’inizio del mese di gennaio, il segretario del Pd aveva fatto trapelare qualche informazione sui contenuti, sollecitando reazioni e commenti, e promettendo di "chiudere con la nostra proposta" il 16 gennaio, alla riunione della direzione del partito.
Invece niente. Il 16 gennaio non è stato proposto alcun progetto preciso, ed è invece cominciata la sarabanda sulla legge elettorale, sull’eventuale incontro con Berlusconi, e via discutendo. A quanto pare la politica degli annunci non è un’esclusiva del criticatissimo premier Enrico Letta. Eppure il tema è fondamentale. Un sondaggio di pochi giorni fa dell’Ipsos certifica quel che molti avvertono senza bisogno di sondaggi. E cioè che, nella testa degli italiani, i problemi del mercato del lavoro vengono molto prima dei problemi che appassionano i politici di professione, ovvero legge elettorale e riforme istituzionali.
Ma che cosa si può fare per creare nuovi posti di lavoro? Su questo punto le idee che da anni circolano in Italia sono sempre più o meno le stesse. Attenuare o abolire l’articolo 18, prevedere un contratto di lavoro unico a tutele crescenti, ridurre il cuneo fiscale, alleggerire l’Irap, estendere il sussidio di disoccupazione a tutte le categorie di lavoratori. E poi la solita (giustissima) nenia antiburocratica: ridurre e semplificare gli adempimenti.
Personalmente, sono molto perplesso sull’efficacia e/o la praticabilità di questo pacchetto di misure. Alcune appaiono impraticabili per l’ostilità dei sindacati e della sinistra Pd, al punto che su di esse lo stesso Renzi ha ritenuto di dover fare parziale marcia indietro (è il caso del Codice semplificato del lavoro di Pietro Ichino). Altre costano tantissimo e non si sa dove prendere i soldi (sussidio di disoccupazione universale). Altre possono essere efficaci solo se attuate in misura massiccia, e possono essere attuate in misura massiccia solo aumentando il deficit pubblico (è il caso di uno sgravio sostanzioso dei contributi sociali). In breve mi pare che si sia di fronte a quello che chiamerei il "problema della coperta". Se si tira la coperta da un lato per sostenere i consumi non si riesce a tirarla dall’altro lato, quello degli sgravi alle imprese. E viceversa. Perché per ridurre le tasse bisogna ridurre la spesa pubblica, ma se si riduce la spesa pubblica è difficile sostenere i consumi. Insomma un dilemma senza soluzione.
Una via per uscire dal vicolo cieco, però, ci sarebbe. La chiamerò filosofia NM, e spiegherò poi perché. Anziché chiederci che cosa lo Stato potrebbe fare per noi, spostando risorse di qui e di là, potremmo capovolgere il problema e chiederci che cosa potremmo fare noi se lo Stato non ci mettesse i bastoni fra le ruote. E la risposta è: tantissimo. Se solo lo Stato permettesse ai privati di sottoscrivere nuovi patti senza pretendere una tangente su ogni contratto (sotto forma di imposte, tasse, bolli e balzelli di ogni tipo), noi potremmo produrre più Pil. Producendo più Pil la torta da dividere sarebbe più grande, e lo Stato stesso ci potrebbe guadagnare qualcosa. Anziché affrontare ogni problema cercando di "trovare" le risorse,dovremmo cominciare a pensare che un Paese fermo da vent’anni come l’Italia le risorse dovrebbe cominciare a "liberarle". È questo il succo della filosofia che chiamo NM, dalle iniziali dell’attore Neri Marcorè, che in una recente intervista a Sette ha dichiarato: "Facendo (la trasmissione, ndr) Per un pugno di libri ho incontrato centinaia di ragazzi ultravitali e talentuosi. Beh, la politica troppo spesso in Italia è una diga, piazzata di traverso tra i progetti dei cittadini e la loro realizzazione". Difficile, in così poche parole, scattare una migliore istantanea dell’Italia di oggi. Ecco, si tratta di rimuovere quella diga. Di far indietreggiare lo Stato, anziché invocarne l’assistenza. Ma come si fa?
Una strada potrebbe essere questa: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione di stipulare, per almeno 4 anni, contratti completamente esentasse nei quali il costo complessivo del lavoro non ecceda il 20 per cento della busta paga (guadagno 1.000 euro al mese, ne costo 1.200 all’impresa che mi assume), destinando tale 20 per cento in più a una polizza pensionistica, interamente riscattabile dal lavoratore in qualsiasi momento. Questa semplice libertà basterebbe a generare centinaia di migliaia di posti di lavoro, che attualmente non vengono creati non già per paura dell’articolo 18, ma semplicemente perché il costo del lavoro è insostenibile.
Sento già l’obiezione: perché lo Stato non dovrebbe partecipare al banchetto? La mia risposta è che lo Stato ha già banchettato fin troppo, e che persino così, con una proposta liberale come la mia, finirebbe per aumentare il suo gettito. Una frazione del valore aggiunto creato dai nuovi posti di lavoro andrebbe comunque allo Stato, sia attraverso le imposte che gravano sull’impresa (Ires e Irap), sia attraverso le imposte che gravano sui consumi (Iva), sia attraverso le tariffe pagate alla Pubblica amministrazione dai nuovi percettori di reddito (ticket vari), sia attraverso l’emersione di posti di lavoro ora in nero.
C’è una sola eventualità nella quale lo Stato ci perderebbe, quella in cui la maggior parte dei posti di lavoro attivati con il nuovo tipo di contratto fossero posti di lavoro che si sarebbero creati comunque. Ma basta un po’ di conoscenza dell’universo produttivo, credo, per rendersi conto che è un’eventualità del tutto inverosimile. Le imprese disposte a spendere 100 per un nuovo lavoratore, ma indisponibili a spendere 150 o 200 (come avviene con la normativa attuale) sono tantissime. Si tratta solo di lasciare loro la libertà di farlo.

venerdì 7 febbraio 2014

Ecco perché non si investe in Italia

Ecco perché non si investe in Italia

“I dieci comandamenti del correntista”. Ecco il decalogo contro “l’usura bancaria”

Pubblichiamo un estratto dal libro "La rivolta del correntista" di Mario Bortoletto: le regole d'oro utili ai "cittadini onesti vessati dalle banche". Che fare? Conservare tutte le comunicazioni, fare attenzione alle commissioni. E diffidare dei consulenti...
“I dieci comandamenti del correntista”. Ecco il decalogo contro “l’usura bancaria”
Voglio che la mia battaglia diventi la battaglia di altri cittadini onesti vessati dalle banche. A chi mi cerca o mi scrive spiego come fare per difendersi dalle banche e non farsi fregare. Mi chiamano dalla Sicilia, dal Sud in generale, dal Nord e dal Centro Italia. Mi rendo conto che il problema e diffuso ovunque. L’usura bancaria è un fenomeno dilagante. Molte persone mi raccontano che quando entrano in banca cominciano a tremar loro le gambe. Hanno paura dei direttori, dei funzionari, molto spesso temono persino gli impiegati. Ci sono passato anche io, ricordo benissimo quella spiacevole sensazione. Ora, invece, non mi spaventa più nessuno. So che gli istituti attaccano per difendersi, perche sanno che molto spesso hanno torto e dunque giocano d’anticipo. Cambieranno atteggiamento solo quando dall’altra parte i correntisti conosceranno la verità. Io mi batto per questo. Ho iniziato solo per difendere i miei interessi, il mio lavoro e la mia famiglia. Oggi sono vicepresidente nazionale dell’associazione ≪Il delitto di usura≫, che raccoglie e sostiene senza scopo di lucro le tante vittime dell’usura e dell’estorsione bancaria. Io dico di non scoraggiarsi e di tenere duro. C’e stata Caporetto ma poi e arrivata Vittorio Veneto. Basta un po’ di tenacia e qualche regola da seguire con attenzione.
Mario Bortoletto
Ilfattoquotidiano.it ha realizzato un sunto dei dieci comandamenti pubblicati sul libro “La rivolta del correntista” (ed. Chiarelettere).
Regola numero 1: Conservate sempre tutta la documentazione bancaria, i contratti, gli estratti conto, gli scalari trimestrali o semestrali. Fate attenzione alle cosiddette «variazioni unilaterali»
Quando avviate un rapporto con un istituto di credito ricordatevi di conservare ogni documento, sia il contratto stipulato sia le lettere che ricevete a casa. Fate molta attenzione al contratto, accertatevi che riporti la firma del funzionario responsabile dell’istituto, altrimenti e carta straccia. Se avete buttato via o smarrito la documentazione bancaria non disperate, fatene nuovamente richiesta al vostro istituto che ha l’obbligo di recuperarla con funzione retroattiva fino a dieci anni.
Regola numero 2Fatevi fare una perizia econometrica. È il vostro tesoretto
Con tutta la documentazione in vostro possesso e possibile fare un’analisi del conto corrente. L’analisi si chiama perizia econometrica e va affidata a professionisti seri e specializzati altrimenti e solo una perdita di tempo e di denaro. La perizia e l’unica tutela del correntista.
Regola numero 3Fate attenzione a tutti i costi e a tutte le spese che contribuiscono a determinare il tasso soglia
Il tasso soglia non e altro che il tasso massimo di interesse che un istituto può applicare al correntista. Oltre questo limite la banca e in usura.
Regola numero 4Se siete in difficoltà valutate con molta attenzione le cosiddette agevolazioni che il vostro istituto vi propone
Molte banche offrono ai clienti in difficolta quelle che io chiamo ≪agevolazioni pelose≫. Ad esempio, se un correntista e esposto per 50.000 euro sul conto corrente e non riesce a rientrare, dalla banca consigliano di trasformare quel debito in un mutuo ipotecario, cosi da poter dilazionare il pagamento usufruendo di un tasso d’interesse più vantaggioso. Spesso, pero, con questa operazione le banche traggono un doppio vantaggio. Il primo e quello di trasformare un proprio credito, che resta invariato, da chirografario, ovvero privo di garanzie, a ipotecario. Il secondo, molto piu subdolo, e quello di appropriarsi di somme frutto dell’indebito.
Regola numero 5: Occhio all’anatocismo bancario
L’anatocismo bancario, cioè la capitalizzazione degli interessi passivi è illegittimo. L’anatocismo fa si che il correntista sia gravato da un debito via via maggiore, che va a generare un incremento degli interessi passivi, determinando un ostacolo per il cliente a ritornare in attivo. La parola deriva dal greco: anà, cioe ≪di nuovo≫, e tokòs, che significa ≪interesse≫. Per anatocismo s’intende la capitalizzazione degli interessi affinché questi stessi interessi siano produttivi di altri interessi.
Regola numero 6Tenete sempre sotto controllo le commissioni di massimo scoperto
Altra fregatura per il correntista sono le commissioni di massimo scoperto. Un onere che viene addebitato al cliente in base all’effettivo utilizzo del denaro e che, come tale, incide sul calcolo del costo del denaro stesso.
Regola numero 7Attenti ai giochi sulle valute
La valuta tecnicamente e il giorno in cui una somma di denaro depositata o prelevata comincia a produrre interessi attivi o passivi. Esiste la valuta effettiva, che corrisponde al momento in cui la banca acquista o perde la disponibilita del denaro, e la valuta bancaria, cioè quella con cui l’istituto di credito concretamente sottrae o aggiunge un certo numero di giorni a quella effettiva. Molto spesso le rimesse effettuate dal correntista vengono contabilizzate come se l’operazione fosse stata effettuata un certo numero di giorni dopo la data effettiva di esecuzione dell’operazione. Le operazioni a debito per il cliente, invece, vengono contabilizzate prima della data di effettiva esecuzione. Nel primo caso, il correntista perde giorni utili per la maturazione degli interessi attivi, nel secondo caso la banca incrementa i giorni utili per la maturazione degli interessi passivi a carico del debitore.
Regola numero 8: Non abbiate paura della Centrale rischi
Essere inserito nel database bancario dei ≪cattivi pagatori≫ per un imprenditore equivale alla morte civile: si fa fatica a ottenere credito da altri istituti. Capita che gli istituti segnalino il correntista senza avvisarlo, ma questo comportamento va contro la legge e deve essere contestato.
Regola numero 9Occhio alle provvidenze pubbliche, possono salvarvi la vita (imprenditoriale)
Nel caso in cui dovessero ravvisarsi fatti di usura o di estorsione, una volta denunciati alla magistratura, la vittima potrebbe accedere alle cosiddette provvidenze premiali. Al fine di far emergere tali gravissimi delitti, infatti, e stato messo a disposizione, presso il ministero degli Interni, un Fondo di solidarietà, deputato a far tornare la vittima nell’economia legale.
Regola numero 10Diffidate dei consulenti
Fate attenzione alle decine di societa di consulenza che si propongono come aiuto al correntista. Hanno parcelle che arrivano anche a 25.000 euro, piu una percentuale fino al 25-30 per cento su quello che recuperano.

Così il Pci scatenò il terrore per impadronirsi del Paese

In "Bella ciao" Giampaolo Pansa racconta la strategia delle Brigate Garibaldi per sterminare i fascisti. E non solo


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Pubblichiamo, per gentile concessione dell'editore, un estratto da Bella Ciao. Controstoria della Resistenza (Rizzoli, pagg. 430, euro 19,90; in libreria dal 12 febbraio) di Giampaolo Pansa. Nel saggio Pansa ricostruisce con dovizia di particolari il ruolo del PCI all'interno della guerra civile che ha insanguinato l'Italia dall'8 settembre del '43 sino al 25 aprile del '45 (anche se in molti casi le violenze si sono trascinate ben oltre).

Il giornalista documenta come i comunisti si battessero per obiettivi ben diversi da quelli di chi lottava per la democrazia. La guerra contro tedeschi e fascisti era soltanto il primo tempo di una rivoluzione destinata a fondare una dittatura filosovietica. Pansa racconta come i capi delle brigate Garibaldi abbiano tentato di realizzare questo disegno autoritario. Ricostruisce il cammino delle bande guidate da Luigi Longo e da Pietro Secchia sino dall'agosto 1943. Poi le prime azioni terroristiche dei Gap, l'omicidio di capi partigiani ostili al Pci, il cinismo nel provocare le rappresaglie nemiche, ritenute il passaggio obbligato per allargare l'incendio della guerra civile.
A distanza di tanti decenni colpisce sempre la strategia messa in atto dai militanti del Pci. In molti luoghi dell'Italia del Nord e del Centro, senza strutture apposite, comandi riconosciuti, progetti elaborati, basi predisposte. All'inizio tutto avvenne per iniziativa di singoli militanti, a volte sconosciuti anche ai dirigenti comunisti periferici. Fu così che si mise in moto un'offensiva fondata su uno schema semplice e terribile. Lo schema può essere riassunto nel modo seguente. Un attentato, una rappresaglia nemica. Un nuovo attentato, una nuova rappresaglia più dura. Un terzo attentato, una terza rappresaglia ancora più aspra. E così via, con una catena senza fine che aveva un solo risultato: allargare l'incendio della guerra civile e spingere alla lotta pure chi ne voleva restare lontano. Scriverà Giorgio Bocca: «Il terrorismo ribelle non è fatto per prevenire quello dell'occupante, ma per provocarlo, per inasprirlo. Cerca la punizione per coinvolgere gli incerti, per scavare il fosso dell'odio».
Ecco qual era la strategia dei Gruppi di azione patriottica, i Gap. Fondati verso la fine del 1943 per iniziativa del Comando generale della Brigate Garibaldi, ossia di Longo e di Secchia. Uno degli spagnoli, Francesco Scotti, poi raccontò: «Qualche compagno sosteneva che non era giusto scatenare il terrore individuale, perché questo era contrario ai principi marxisti leninisti. Anche in Francia avevo ascoltato critiche di questo genere».
Aderire alla strategia dei Gap, anche soltanto sul terreno del consenso politico, era difficile per molti iscritti al Pci clandestino. Gente semplice e coraggiosa che rischiava l'arresto perché aveva in tasca una tessera o partecipava a una raccolta di denaro per i primi nuclei ribelli. Ma trovare dei compagni disposti a sparare alla schiena di un avversario, e a sangue freddo, risultava un'impresa davvero ardua.
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Il vertice delle Garibaldi non perdeva tempo a strologare su queste esitazioni. Voleva vedere subito dei morti nelle strade. Secchia incitava ad agire «contro le cose e le persone» dei fascisti. Le azioni non venivano quasi mai rivendicate. E questo accentuava la paura seminata dalle molte uccisioni.
Pochi si rendevano conto che i Gap erano piccoli nuclei armati, composti soltanto da militanti comunisti, clandestini nella clandestinità, capaci di vivere nell'isolamento più totale. Una solitudine in grado di mettere a dura prova la resistenza nervosa anche del più freddo terrorista.
In realtà i gappisti veri e propri, quelli professionali e in servizio permanente, erano una frazione davvero minuscola rispetto ai tanti comunisti che iniziarono a sparare quasi subito contro i fascisti.
Gli omicidi di dirigenti del nuovo Partito fascista repubblicano, di solito segretari federali, vennero preparati e compiuti da terroristi dei Gap. Ma gli altri delitti, ben più numerosi, furono il risultato di iniziative decise da singoli militanti, decine e decine di volontari, senza nessun rapporto con il vertice delle Garibaldi. Erano pronti a sparare e a uccidere, sulla base di una tacita parola d'ordine diffusa da nessuno.
Ecco qualche esempio di queste azioni, di solito destinate a non entrare nella storia della guerra civile. Il 5 novembre 1943, a Imola, venne ucciso il seniore della Milizia Fernando Barani. Il 6 novembre, a Medicina, sempre in provincia di Bologna, furono accoppati quattro fascisti. Il 7 novembre, a San Godenzo (Firenze) altri quattro fascisti caddero sotto le rivoltellate di sconosciuti.In seguito Giorgio Pisanò scrisse che questo attentato era stato compiuto da un gruppo guidato dal meccanico Alessandro Sinigaglia, poi capo dei Gap fiorentini. Anche lui uno spagnolo reduce da Ventotene, perse la vita nel febbraio 1944 in una sparatoria.
Nel Reggiano, dopo la fine del Tirelli, si cercò di accoppare il commissario della nuova federazione fascista, l'avvocato Giuseppe Scolari. Era l'imbrunire del 13 novembre e l'attentato fallì. Andò a segno il terzo colpo, messo in atto il 17 dicembre. L'obiettivo era Giovanni Fagiani, cinquantenne, seniore della Milizia e già comandante della 79ª Legione. Abitava nel comune di Cavriago e stava ritornando a casa in bicicletta. Era in compagnia della figlia Vera, 19 anni, che pedalava accanto a lui. In località Prati Vecchi, il seniore venne affrontato da due ciclisti, in apparenza contadini avvolti nel tabarro per difendersi dall'umidità invernale. Gli spararono e lo uccisero. Mentre Vera si gettava sul padre, tirarono anche su di lei e la colpirono al volto. La ragazza sopravvisse, ma rimase cieca.
A Genova il gruppo di Buranello, ormai divenuto il Gap della capitale ligure, il 27 novembre 1943 cercò di intervenire in appoggio agli operai meccanici e ai tranvieri scesi in sciopero. L'agitazione era stata indetta dal Pci per adeguare il salario al carovita e ottenere l'aumento della quantità di alcuni generi alimentari tesserati. Ma l'aiuto si limitò a un paio di attentati contro i tralicci dell'alta tensione. Più pesante fu l'intervento in occasione del nuovo sciopero deciso tra il 16 e il 20 dicembre. Due fascisti vennero uccisi, forse dai Gap o da altri. Per reazione, le autorità repubblicane fucilarono due operai già in carcere perché trovati in possesso di armi mentre tentavano di sabotare dei tram. La rappresaglia, resa pubblica il 20 dicembre, fece terminare subito l'agitazione.