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lunedì 30 dicembre 2013

LA MAPPA EUROPEA DELLE MONETE ALTERNATIVE ALL'EURO

da "libero1uotidiano.it" deL 30/12/2013

ANTIEUROPEISMO SPINTO
Immaginiamo l’Eurozona come un’enorme forma di Emmenthal piena di buchi. Un tempo quei buchi erano le falle lasciate dalla moneta unica, oggi sono i focolai di una reazione all’euro che sta investendo tutta l’Europa: quella delle monete locali. Nel mondo sono oltre 5.000  gli esperimenti di moneta locale, ma è nell’Europa della crisi monetaria che questo fenomeno sta diventando virale. In un periodo in cui il sistema del debito sta portando al collasso molte economie dell’Eurozona e dove l’unica soluzione sembra essere l’illimitato aumento della pressione fiscale, le nuove monete vogliono infondere nuova linfa nelle economie locali strangolate da crisi, tasse e credit crunch. Immaginiamo l’Eurozona come un’enorme forma di Emmenthal piena di buchi. Un tempo quei buchi erano le falle lasciate dalla moneta unica, oggi sono i focolai di una reazione all’euro che sta investendo tutta l’Europa: quella delle monete locali. 
Nel mondo sono oltre 5.000  gli esperimenti di moneta locale, ma è nell’Europa della crisi monetaria che questo fenomeno sta diventando virale. In un periodo in cui il sistema del debito sta portando al collasso molte economie dell’Eurozona e dove l’unica soluzione sembra essere l’illimitato aumento della pressione fiscale, le nuove monete vogliono infondere nuova linfa nelle economie locali strangolate da crisi, tasse e credit crunch. Questi nuovi circuiti monetari non generano interessi e servono solo a rimettere in moto gli scambi, anche perché, il più delle volte, si accompagnano all’euro, senza sostituirlo. La moneta locale non crea debito, dal momento che è divisa in parti uguali fra i membri della comunità che la utilizza, cioè tra le piccole e medie imprese, i liberi professionisti, gli agricoltori, gli artigiani e i semplici consumatori che hanno aderito alla rete monetaria locale e ne riconoscono il valore. Di solito, dietro ognuno di questi sistemi, c’è un’associazione che stampa la moneta locale e la distribuisce gratuitamente tra i membri della rete, autofinanziandosi con piccole quote di iscrizione. L’obiettivo delle monete locali non è quindi abbattere il sistema dell’euro, ma riequilibrarlo in favore dell’economia reale, arginando la speculazione finanziaria a cui sempre più spesso è soggetta la moneta unica, e rilanciare le economie locali tenendo l’euro saldamente agganciato al territorio. Il tutto è condito da una forte avversione nei confronti delle catene degli ipermercati, accusate dai membri di queste nuove comunità monetarie di inondare il mercato interno con prodotti stranieri e di dubbia qualità, senza poi reinvestire nel territorio.
L’idea di comunità
La sempre più radicale rivendicazione di un ritorno alla sovranità monetaria ha come perno centrale l’idea di comunità, ovvero di un’economia di prossimità in cui l’uomo possa tornare ad avere il controllo sui processi economici che ora gli sfuggono di mano travolgendolo. L’Europa appare quindi come un’enorme costellazione di esperimenti di moneta locale. Alcuni, come nel caso italiano, hanno raggiunto un’estensione di livello nazionale, altri, come in Gran Bretagna, sono più legati alle singole realtà locali. Proprio nella cittadina inglese di Bristol dal 2012 si è diffusa una moneta locale, il Bristol Pound. Oggi tutti i cittadini di Bristol fanno la spesa acquistando in Bristol Pound e persino il sindaco, George Ferguson, riceve il suo stipendio nella moneta locale. Dopo un anno dal lancio dell’esperimento, sono oltre 1200 i cittadini con conti correnti in Bristol Pound, 600 le imprese locali che lo utilizzano regolarmente e 500mila le sterline convertite in Bristol Pound.
Ma è  nella patria dell’euro, la Germania, che nel 2003 è stato lanciato uno dei primi esperimenti contemporanei di moneta anti-euro, il Chiemgauer. La particolarità di questa moneta è che ogni tre mesi si deprezza del 2%, perciò l’incentivo a spenderla, invece che tenerla nel salvadanaio, è alto. In più chi vuole convertire i Chiemgauer in euro deve pagare una penale del 5%, di cui il 2% va a finanziarie le spese di gestione del circuito e il 3% viene devoluto alle organizzazioni non profit scelte da chi decide di effettuare la conversione. 
Dalla fine di quest’estate anche la Francia ha una nuova moneta locale. A Nantes due docenti in odore di eresia dell’Università Bocconi di Milano, Massimo Amato e Luca Fantacci, hanno infatti lanciato il Bonùs. Questo circuito ha una sua banca, il Credito Municipale, partecipata al 100% dal Comune di Nantes, che funziona come una camera di compensazione. Presta cioè i Bonùs alle piccole e medie imprese che accendono un conto presso la banca e fa da intermediario fra le aziende che vantano crediti verso il circuito monetario locale e quelle che, invece, hanno un debito da saldare. Così si annullano i costi e gli interessi sull’attivo e si evita la formazione del debito. 
In Grecia, dove il sistema economico è già molto prossimo al collasso, la cittadina di Volos ha lanciato il Tem, acronimo di “unità alternativa locale”. Chi diventa membro della rete Tem si vede assegnati un numero di conto e 300 Tem (che poi sarebbero l’equivalente di 300 euro), un importo “di partenza” che in seguito deve essere rimborsato. Se un membro della rete vende qualcosa, gli vengono accreditati dei Tem, con i quali può a sua volta comprare beni di consumo e servizi offerti dagli oltre 1.300 membri della rete su una piattaforma online. In più, ogni sabato, con questi Tem caricati su un conto elettronico, si può fare la spesa in un mercatino tradizionale dal quale è tassativamente bandito l’uso dell’euro. Il sistema è qualcosa di molto simile a un baratto elettronico, visto che basta un sms per pagare ciò che si compra. Ma, soprattutto, non ci sono tasse.
Anche la Spagna, un altro di quei Paesi dell’eurozona che non se la passano tanto bene, ha tra le 30 e le 50 monete locali. Tra queste c’è l’Eco, utilizzata da più di 1.200 catalani per rispondere a necessità giornaliere come cibo, prestazioni mediche, alimentazione biologica e servizi vari. Un Eco equivale esattamente ad un euro e può essere scambiato con delle ore di lavoro o con prodotti e servizi. Gli Eco si possono convertire in euro, ma non viceversa. Il tutto in maniera virtuale. Le transazioni hanno luogo sia tramite una piattaforma online sia nei mercati o negli spazi delle cooperative e il meccanismo è regolato da una vera e propria banca del tempo. Ma in Spagna la cosa più eclatante è che in una cittadina della Galizia, Murgados, oltre 60 esercizi commerciali hanno deciso di accettare pagamenti in pesetas, la valuta precedente all’euro.
In italia E infine arriviamo all’Italia. Qui c’è lo Scec, che può essere considerato l’esperimento di moneta complementare che ha avuto maggior fortuna in Europa, anche perché, coinvolgendo 12 regioni, non può essere definito una moneta locale. Lanciati a Napoli nel 2008, sono ormai oltre 12 milioni gli Scec (acronimo di Solidarietà ChE Cammina) emessi in forma cartacea o elettronica. Chiunque si può iscrivere all’associazione Arcipelago Scec e ricevere gratuitamente e subito 100 Scec, in forma cartacea o su un conto online. E ogni anno può richiedere al massimo 500 Scec, una sorta di reddito minimo minimo. I commercianti, i lavoratori autonomi, i professionisti e i piccoli imprenditori che, con le loro attività, accettano in media tra il 10 e il 30 per cento in Scec su ogni pagamento in euro, insieme formano un circuito di oltre 2mila soci, mentre sono più di 12 mila i semplici consumatori che ogni anno ricevono il loro gruzzoletto di Scec, pur non avendo un’attività con cui praticare a loro volta questo tipo di agevolazione.  Un anno fa la prima istituzione italiana ad adottare ufficialmente lo Scec come mezzo di pagamento complementare è stato il IV Municipio di Roma, un realtà di circa 200mila abitanti amministrata da una giunta di centro-destra, più destra che centro.
di Francesco Colamartino

QUESTA NON E' LA MIA OPINIONE, MA IL PENSIERO DELL'AUTORE DELL'ARTICOLO

venerdì 27 dicembre 2013

Confindustria: capitalismo di Stato costa 23 miliardi di euro l'anno

PARI ALL'1,4 DEL PIL

La denuncia degli industriali: metà degli enti costituiti non svolgono servizi di interesse generale e andrebbero smantellati

Il 'capitalismo pubblico' costa quasi 23 miliardi allo Stato, circa l’1,4% del Pil, un "peso che l’Italia non può piu permettersi". Lo denuncia Confindustria, secondo il cui ufficio studi sono circa 40 mila le partecipazioni possedute da amministrazioni pubbliche in quasi 8 mila organismi esterni.   "Gran parte di questi organismi sono nati, a livello locale, per aggirare i vincoli di finanza pubblica - sostiene Confindustria - in particolare il patto di stabilità interno, e come strumento per mantenere il consenso politico attraverso l'elargizione di posti di lavoro".
Secondo l’associazione degli industriali "sarebbe prioritario dismettere gli enti o comunque azzerare i costi per le pubbliche amministrazioni di quegli organismi che non producono servizi di interesse generale.  Il Centro studi di Confindustria rileva che "nel 2012 erano 39.997 le partecipazioni possedute da amministrazioni pubbliche in 7.712 organismi esterni. L’onere complessivo sostenuto dalle Pubbliche amministrazioni per il mantenimento di questi organismi è stato pari complessivamente a 22,7 miliardi, circa l’1,4% del PIL. Si tratta di cifre consistenti che meritano attenzione. Infatti, gran parte di questi organismi sono nati, a livello locale, per aggirare i vincoli di finanza pubblica, in particolare il patto di stabilità interno, e come strumento per mantenere il consenso politico attraverso l’elargizione di posti di lavoro. Naturalmente non tutti gli organismi rispondono a queste logiche - aggiunge il rapporto di viale dell’Astronomia - di certo, però, il modo e l’intensità con cui il fenomeno si è sviluppato confermano l’anomalia".
Secondo l’associazione, "in generale, sarebbe prioritario dismettere gli enti o comunque azzerare i costi per le pubbliche amministrazioni di quegli organismi che non producono servizi di interesse generale". Quanto alla 'produttività di questi enti, il centro studi di Confindustria incrocia una serie di dati e rileva che "oltre la metà degli organismi non sembra svolgere attività di interesse generale, pur assorbendo nel 2012 il 50% degli oneri sostenuti per le partecipate: circa 11 miliardi di euro. Più in generale, considerando anche gli organismi che producono servizi di interesse generale, oltre un terzo delle partecipate ha registrato perdite nel 2012, e ciò ha comportato per la PA un onere stimabile in circa 4 miliardi".   "Il 7% degli organismi partecipati ha registrato perdite negli ultimi tre anni consecutivamente con un onere a carico del bilancio pubblico che è stato pari a circa 1,8 miliardi. Sono numeri straordinari che il Paese non può permettersi". 

mercoledì 25 dicembre 2013

Il primato industriale italiano

di 

24 dicembre Nel 2013 il surplus manifatturiero italiano con l'estero sfiorerà i 110 miliardi di euro, un successo conseguito da tutto il sistema produttivo (dalla meccanica ai mezzi di trasporto, dalla moda all'alimentare, dai mobili alle ceramiche, dagli articoli in plastica a nicchie avanzate di chimica e farmaceutica) e non da isolate o piccole porzioni del made in Italy, come talvolta si sente argomentare.

Una cifra che è un record indipendentemente dalla caduta delle importazioni e che dimostra come l'industria italiana abbia in realtà già realizzato gran parte di quello "sforzo di ristrutturazione, di innovazione e di modernizzazione" di cui ha ripetutamente parlato in questi giorni il ministro dell'Economia Saccomanni ma che molti economisti, uffici studi ed opinionisti in Italia e all'estero non hanno ancora focalizzato sui loro radar, sintonizzati su vecchie e superate teorie "decliniste".
D'altronde, non si può nemmeno pensare che le imprese italiane debbano arrivare ad esportare tutto quello che producono, come pretenderebbero alcuni. Anche perché in tal caso vorrebbe dire che tutto quello che consumano le nostre famiglie, ancorché in forte calo, sarebbe importato dall'estero. Una vera assurdità. Né si può trascurare l'importanza del mercato domestico anche per chi esporta molto, cioè, ad esempio, per quelle imprese che vendono all'estero fino al 70-80% del loro fatturato. Infatti, anche per chi esporta così tanto l'Italia resta comunque spesso il primo mercato. E se il tuo primo mercato improvvisamente viene a mancare a causa di politiche economiche troppo "rigoriste", non ci sono incrementi a breve termine sugli altri mercati che possono bastare per compensare le perdite.
I dati parlano chiaro. Rispetto al gennaio 2008, gli indici destagionalizzati dell'Eurostat ci dicono che il fatturato dell'industria manifatturiera italiana a settembre 2013 risultava caduto del 16,9% contro un calo del 2,8% della Germania. Colpa soprattutto di un autentico crollo del 23% del fatturato domestico italiano rispetto ad una più modesta flessione del 6,3% di quello tedesco.
All'opposto, la dinamica del fatturato estero manifatturiero italiano durante questa crisi è stata del tutto simile a quella della Germania, riportandosi sopra i livelli pre-crisi. Ciò nonostante, arrivano quotidianamente dal commissario europeo alle finanze Rehn e dal presidente della Bundesbank Weidemann continui richiami all'Italia perché la nostra presunta mancanza di competitività sui mercati internazionali non farebbe crescere il nostro PIL. 

Mentre è del tutto evidente che le cause della crisi attuale dell'economia italiana vanno ricercate non nell'export ma nelle ricette sbagliate, o quantomeno sproporzionate, che ci sono state imposte dall'UE e che hanno falcidiato le capacità di spesa e di consumo degli italiani. Non si poteva, infatti, applicare ad un importante Paese produttore-esportatore come l'Italia la stessa medicina di brutale austerità prescritta a Paesi non produttori e fondamentalmente importatori come Grecia o Spagna. Queste economie facendo austerità hanno soprattutto ridotto l'import, mentre l'Italia ha distrutto soprattutto capacità produttiva e con essa posti di lavoro pregiati nella manifattura.2013










L'Italia al tempo del pensiero distrutto

Dai social network fino alla politica e all'università: tanti aforismi e sempre meno discorsi complessi


Nel mondo moderno e anche in Italia va sempre più prevalendo una forma di pensiero fatto di scritti brevi, di connessioni intuitive e di conclusioni frettolose: il pensiero frammentato.
Lo usano i ragazzi col computer e gli adulti con i social network, con Twitter e gli sms, ma ormai domina anche nella televisione, soprattutto nel campo del dibattito politico, dove i partecipanti non espongono mai un pensiero completo con una argomentazione logica. Vengono subito interrotti da una battuta, da un filmato, da qualcun altro che si sovrappone. È vero che ci sono anche i giornali e i blog in cui è possibile scrivere articoli completi, ma i giornalisti politici, che monopolizzano la tv, riportano solo le battute più polemiche, a cui fanno seguire le risposte più cattive, trasformando regolarmente il dibattito in una chiassata.
L'esposizione con argomentazione è ormai scomparsa anche in radio, dove spesso si alternano canzonette, commenti, battute oscene, sghignazzi, un chiacchiericcio senza inizio e senza fine. Anche all'università, spesso, i ragazzi per giudicare un pensiero o un autore, dicono «mi piace, non mi piace», come fanno su Facebook. E spesso non riescono a seguire un ragionamento logico per una intera lezione. Si distraggono, perdono il filo. Se il docente vuol catturare la loro attenzione, deve mostrare filmati, immagini, grafici, fare spettacolo. D'altra parte anche nelle imprese i manager ormai usano solo presentazioni visive con frasi che riportano i fatti salienti, le idee-chiave e le tappe da seguire. E alla fine non c'è nessuno che riassume tutta l'argomentazione e ne trae una rigorosa conclusione logica. È questo modo di pensare frammentato una ragione dei gravi errori che vengono compiuti sia in economia (pensiamo all'euro) sia in politica. E spiega perché spesso, dopo tanti dibattiti, le decisioni intelligenti finisce per prenderle uno solo. È fortunata l'impresa o il partito che ha un capo capace di elaborare i problemi complessi in una sintesi elementare ed arrivare ad una decisione chiara. La scienza è semplificazione, il genio è semplificazione e la verità è semplice.

martedì 24 dicembre 2013

Sterminio a norma di legge

Sterminio a norma di legge

Sergio Scarpellini affitti d'oro: "Durante la campagna elettorale qui vengono bianchi, rossi e verdi e noi un contributo lo diamo sempre"

"Durante la campagna elettorale vengono qui bianchi, rossi e verdi e noi un contributo lo diamo sempre. A tutti. Gli imprenditori romani fanno così". Parola di Sergio Scarpellini, l'imprenditore che affitta immobili alla Camera, intervistato dal Fatto Quotidiano.
"Se volevano - dice Scarpellini a proposito della questione affitti d'oro -, con questo denaro che mi hanno dato, circa 369 milioni di euro per le locazioni, un paio di palazzi li potevano acquistare. Avevano una opzione, perché non l'hanno sfruttata? Se mi chiamano, vendo di corsa. Anzi, ci metto pure un fiocco su, però si devono prendere il personale. Per me questa storia è diventata una rogna. E la Camera ci risparmia".
"La rescissione con un mese di preavviso è contro la legge - aggiunge - è contro la Costituzione e contro le regole. Se mi assumono il personale, cinquecento dipendenti,me ne vado subito. Io sono pentito, non lo farei più. Ho buttato una balena di soldi". Negli ultimi 13 anni ha finanziato partiti di destra e sinistra per circa 650 mila euro: "Durante la campagna elettorale - spiega Scarpellini - vengono qui bianchi, rossi e verdi e noi un contributo lo diamo sempre. A tutti. Gli imprenditori romani fanno così".
Come finirà? "Io rispetto i termini previsti dai contratti, mi riprendo i palazzi e ci faccio alberghi di lusso, però devo sbattere in mezzo a una strada più di 500 ragazzi". Una regolare gara d'appalto non si poteva fare, spiega, perché "i palazzi vicini erano i miei, potevano venire soltanto da me".
"Se rescindono gli affitti - sottolinea Scarpellini intervistato anche da Repubblica - rischiano di andare a casa cinquecento dipendenti. A meno che non li assume la Camera". E i conti, sottolinea, "bisogna saperli fare": dai soldi guadagnati affittando palazzi alla Camera dal '97 occorre levare l'Iva" e poi "togliere il 50% di tasse. E poi ci sono gli interessi bancari".

sabato 14 dicembre 2013

Marmo più forte della crisi: brilla ancora l’export Carrara, nei primi nove mesi + 3,2% in quantità e + 7,2% in valore




CARRARA. Brilla ancora l’export del lapideo italiano (nella voce si comprendono marmi bianchi e colorati, graniti, travertini ed altre pietre sia grezzi che lavorati): nei primi nove mesi del 2013 un trend positivo che consolida quanto emerso nella prima parte dell’anno.
Nel periodo gennaio-settembre 2013, infatti, le aziende italiane hanno esportato 3.214.718 tonnellate di materiali lapidei per un valore complessivo di 1.414.551.649 euro con un aumento, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, del +3,2% in quantità e +7,2% in valore.
Lo rende noto l’Internazionale Marmi e Macchina Carrara, diffondendo le elaborazioni statistiche periodiche del suo Ufficio Studi ed evidenziando una crescita in quantità e valore con una performance molto importante dell’export di lavorati.
La voce più rilevante è quella del marmo lavorato con un export di 675mila tonnellate (+4,6%) per un valore di 648,3 milioni di euro (+10,1%) rispetto al 2012. Seguono le esportazioni di lavorati in granito con 441mila tonnellate per 415,4 milioni di euro che evidenziano un modesto calo nei quantitativi (-1%) ma un aumento del +3,3% nei valori.
Continua a crescere anche l’export di marmo in blocchi e lastre con un export di 1.047.265 tonnellate per un valore di oltre 239 milioni di euro con una crescita nei quantitativi di quasi +6% e nei valori del +10,3%. Il valore medio unitario del marmo in blocchi e lastre passa così da 219 euro per tonnellata a 228 euro anche grazie a una crescita del 6,5% dell’incidenza del lastrame sui valori complessivi della voce. Oggi il valore dell’export di marmo in blocchi e lastre è costituito per un 46% da lastrame nel quale è inclusa comunque una quota di valore aggiunto per la trasformazione, mentre il restante 54% è costituito da marmo grezzo o sgrossato.
12 dicembre 2013

venerdì 6 dicembre 2013

Le «Considerazioni generali» del 47° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese/2013 - Una società sciapa e infelice in cerca di connettività


Il crollo non c'è stato, ma troppe persone scendono nella scala sociale. Nuovi spazi imprenditoriali e occupazionali in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Il sistema ha bisogno e voglia di tornare a respirare, oltre le istituzioni e la politica
Roma, 6 dicembre 2013 - Una sospensione da «reinfetazione». Oggi la società ha bisogno e voglia di tornare a respirare per reagire a due fattori che hanno caratterizzato l'anno. Il primo fattore è lo stato di sospensione da «reinfetazione» dei soggetti politici, delle associazioni di rappresentanza, delle forze sociali nelle responsabilità del Presidente della Repubblica. Ma la reinfetazione, in nome del valore della stabilità, riduce la liberazione delle energie vitali e implica il sottrarsi alle proprie responsabilità dei soggetti che, a diverso titolo e con differenti funzioni, dovrebbero concorrere allo sviluppo, che è sempre un processo di molti. Il secondo fattore è la scelta implicita e ambigua di «drammatizzare la crisi per gestire la crisi» da parte della classe dirigente, che tende a ricercare la sua legittimazione nell'impegno a dare stabilità al sistema partendo da annunci drammatici, decreti salvifici e complicate manovre. Nel progressivo vuoto di classe politica e di leadership collettiva, i soggetti della vita quotidiana rischiano di restare in una condizione di incertezza senza prospettive di élite.
Il crollo non c'è. Il crollo atteso da molti non c'è stato. Negli anni della crisi abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C'è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l'imprenditorialità artigiana, l'internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari).
Una società sciapa e infelice. Quale realtà sociale abbiamo di fronte dopo la sopravvivenza? Oggi siamo una società più «sciapa»: senza fermento, circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa. E siamo «malcontenti», quasi infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali. Si è rotto il «grande lago della cetomedizzazione», storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti.
Dov'è oggi il «sale alchemico»? Quel fervore che ha fatto da «sale alchemico» ai tanti mondi vitali che hanno operato come motori dello sviluppo degli ultimi decenni si intravede, tuttavia, nella lenta emersione di processi e soggetti di sviluppo che consentirebbero di andare oltre la sopravvivenza. Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell'agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l'iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all'estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione.
Nuove energie e responsabilità in due ambiti: revisione del welfare e economia digitale. Ci sono poi due grandi ambiti che consentirebbero l'apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni occupazionali. Il primo è il processo di radicale revisione del welfare: crescono il welfare privato (il ricorso alla spesa «di tasca propria» e/o alla copertura assicurativa), il welfare comunitario (attraverso la spesa degli enti locali, il volontariato, la socializzazione delle singole realtà del territorio), il welfare aziendale, il welfare associativo (con il ritorno a logiche mutualistiche e la responsabilizzazione delle associazioni di categoria). Il secondo ambito è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati agli applicativi basati sulla localizzazione geografica, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani «artigiani digitali».
In cerca di connettività. Il filo rosso che può fare da nuovo motore dello sviluppo è la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi. È vero che restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell'interesse collettivo e nelle istituzioni. Eppure la crisi antropologica prodotta da queste propensioni sembra aver raggiunto il suo apice ed è destinata a un progressivo superamento. Oggi le istituzioni non possono fare connettività, perché sono autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo. E la connettività non può lievitare nemmeno nella dimensione politica, che è più propensa all'enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l'antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide (dalla selva dei decreti legge all'uso continuato dei voti di fiducia). Se istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi. Sarebbe cosa buona e giusta fargli «tirar fuori il fiato».