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mercoledì 31 luglio 2013

Ordini, quell’Italia corporativa che resiste al passato

Il paese delle caste intoccabili
Con ogni probabilità ne sorgeranno tre nuovi: la direzione verso il mercato è sempre più lontana
La notizia, passata un po’ in sordina, è che il Consiglio dei ministri ha avviato un disegno di legge “omnibus” che prevede, tra le altre cose, una revisione delle professioni sanitarie. In che senso? Almeno 600mila professionisti come infermieri, ostetriche e tecnici di radiologia e delle professioni sanitarie tecniche saranno inquadrati, ognuno, in un apposito ordine professionale. In sostanza, si creano tre nuovi ordini, che prendono il posto dei vecchi Collegi. Un modo di riorganizzare vecchio che va in una direzione per molti superata. La domanda è una sola: servivano?
In Italia ci sono già 31 Albi professionali, una enormità, molti di questi controllati da Collegi e Ordini. Per dare una breve definizione, gli ordini sono enti pubblici “sotto l’alta vigilanza del ministero della Giustizia”. Devono garantire la professionalità e la competenza degli iscritti (un servizio al cittadino) in settori di carattere “intellettuale” in senso lato. Siamo nel campo della tecnica, della salute, della legge.
A cosa servono? Tra i compiti principali lo Stato affida agli ordini l’aggiornamento dell’Albo professionale e la redazione delle norme deontologiche. Poi ci sono altre funzioni: fornire pareri sulle controversie professionali e andare a colpire gli abusi. Un fatto particolare merita attenzione: essendo dotati di autonomia patrimoniale, finanziaria, regolamentare e disciplinare agli ordini non si estendono le norme di spending review. Ma è un dettaglio, diciamo.
Il problema è che l’istituzione dell’ordine, in un contesto politico economico mutato rispetto all’epoca in cui sono sorti, appare anacronistica. L’ipotesi poi di introdurne di nuovi sembra contraddittoria anche rispetto alla direzione del governo, che dovrebbe lavorare per introdurre maggiori liberalizzazioni. In ogni caso, il nocciolo della questione è qui: non è in gioco (soltanto) una battaglia per l’introduzione di un regime di libera concorrenza nel sistema professionale. È l’identità stessa delle professioni italiane che sta cambiando: col tempo, le motivazioni alla base degli ordini professionali stanno venendo meno.
L’ordine, nel momento della sua istituzione aveva la funzione di rappresentare e garantire la specialità delle professioni intellettuali: alta utilità sociale con alcuni privilegi e soprattutto particolari controlli. La funzione di civil service è sempre stata, nel tempo, il criterio alla base della formazione di nuove associazioni di professionisti che, soprattutto in Italia, ha visto una fioritura maggiore rispetto ad altri paesi. La collegialità dipendeva dalla natura istituzionale e sociale delle professioni liberali. Il limite alla concorrenza attraverso l’ordine, in Italia, ha funzionato nel caso dei medici, che hanno imposto un limite alle iscrizioni all’Università e soprattutto dei notai che, grazie alla duplice natura di professionisti e di servitori dello stato, hanno saputo imporre limiti stretti all’accesso alla professione.
In Italia ci sono, come detto, 31 albi. Gli Ordini professionali, secondo la dicitura specifica, prevedono, come criterio per l’accesso, il conseguimento del diploma di laurea. Per i Collegi è sufficiente il diploma di scuola superiore. Con alcune eccezioni notevoli: quello dei giornalisti è un Ordine, ma non richiede la laurea. Per i notai si parla di Collegio notarile, anche se il requisito minimo della laurea in Legge è scontato. Che la situazione delle professioni sia lontana da un’idea di mercato è evidente. Per farsi un’idea ci limiteremo a sottoporre, di seguito, un elenco delle professioni coperte da un ordine in Italia.

Come già specificato, per le professioni in cui è sufficiente il diploma di un istituto secondario di secondo grado si parlerà di Collegio (per cui va bene anche la laurea triennale)
Consiglio Nazionale dei Geometri e Geometri Laureati, anche questo del 1929, e poi ripristinato nel 1944
Federazione Nazionale dei Collegi delle Ostetriche, fondato nel 1946, (forse) diventerà Ordine a breve
Federazione Nazionale Collegio degli Infermieri e dei Vigilanti dell'infanzia, nata ai sensi della legge 29 ottobre 1954, n. 1049
Collegio Nazionale degli Agrotecnici e degli Agrotecnici Laureati, ai sensi della legge 6 giugno 1986, n. 251
Collegi regionali e provinciali delle Guide alpine, sorti nella legge quadro del 2 gennaio 1989
Consiglio Nazionale dei Periti Agrari e dei Periti Agrari Laureati, ai sensi della legge 21 febbraio 1991, n. 54
Domanda finale: è anche lontanamente pensabile parlare di concorrenza, mercato e trasparenza in un paese così pieno di ordini, ognuno ben attrezzato nel fare lobbying e pressioni sul legislatore?


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sabato 27 luglio 2013

DELITTO CALABRESI, 25 ANNI DOPO - CHI SA ALLUDE; ALLA FINE PERO' SI BUTTA SEMPRE IL TUTTO IN UN DIALOGO PARA INTELLETTUALE, MENTRE SI TRATTA DI QUANTO DI PIU' CRIMINALE LA SINISTRA HA COMMESSO IN ITALIA

da DAGOSPIA.COM del 26 LUG 2013 17:59

Oggi la ‘’Stampa’’ dedica due pagine alla vergogna italiana dell'omicidio del Commissario Calabresi. ‘’La Stampa’’ e' diretta, bene o male poco importa, da un galantuomo che ne e' il figlio. Non basta per essere grandi Direttori, ma basta assolutamente per avere rispetto..

1. DELITTO E CASTIGO
Bankomat per Dagospia
Oggi la Stampa dedica due pagine al pentito Marino che si confessa ed alla vergogna italiana dell'omicidio del Commissario Calabresi. La Stampa e' diretta, bene o male poco importa, da un galantuomo che ne e' il figlio. Non basta per essere grandi Direttori, ma basta assolutamente per avere rispetto.
Siamo un po' alle solite operazioni di macerata memoria della sinistra. Chi sapeva e sa allude; alla fine pero' si butta sempre il tutto in un dialogo para intellettuale, mentre si tratta di quanto di piu' criminale la sinistra ha commesso e non solo in Italia.
In fondo sembra quasi che una condanna netta e chiara dell'ideologia comunista e terrorista che ha causato infiniti lutti in Italia non si può mai sancire, mentre doverosamente si sancisce per il fascismo, chiaramente indifendibile.
Adriano SofriADRIANO SOFRIIL COMMISSARIO LUIGI CALABRESIIL COMMISSARIO LUIGI CALABRESI
Detto questo, speriamo che le macerazioni socio-psico-cultu della sinistra portino prima o poi a qualcosa. Purtroppo e' difficile prevederlo. Alla medesima Stampa di Torino che vide ammazzato Carlo Casalegno, suo Vice Direttore, dai terroristi di sinistra, alcuni pseudo intellettuali negli anni Settanta ostentavano equidistanza fra Stato e terroristi. Purtroppo lo ricordiamo benissimo.
Ma la vergogna e' la targa che fino a mesi fa campeggiava nell'atrio de La Stampa in via Marenco, in memoria di Carlo Casalegno ammazzato, parrebbe, da non si sa chi. Non un riferimento in quella targa pudica e infame ai noti terroristi di sinistra che lo hanno ammazzato.
Speriamo che nei nuovi uffici il Direttore Calabresi la faccia rimuovere.
2. I TORMENTI DI LOTTA CONTINUA E LA LUNGA DIFESA DI SOFRI
Jacopo Iacoboni per "la Stampa"
«Ecco colonnello, ho finito». Venticinque anni fa, tra il 18 e il 25 luglio dell'88, Leonardo Marino - un ex operaio alla Fiat a Torino, ed ex militante di Lotta Continua - conclude la sua confessione in cui, davanti al colonnello dei carabinieri Umberto Bonaventura, si addossa la responsabilità di aver partecipato come autista all'assassinio del commissario Luigi Calabresi, eseguito materialmente da Ovidio Bompressi, e accusa Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani di esserne stati i mandanti.
Sofri viene subito arrestato, trascorrerà l'estate nel carcere di Bergamo (esperienza poi raccontata in un libro, Le prigioni degli altri); comincia allora una lunghissima vicenda processuale conclusa nel '97 con la condanna a 22 anni. Parallela all'arresto prende le mosse l'ultima e più imprevista battaglia di una generazione di ex compagni di Lotta continua, di nuovo unita per difendere l'innocenza del leader dell'organizzazione della loro gioventù. C'è chi dice, anche il mito dell'innocenza perduta.
ADRIANO SOFRI GIORGIO PIETROSTEFANI OVIDIO BOMPRESSIADRIANO SOFRI GIORGIO PIETROSTEFANI OVIDIO BOMPRESSI
Già in quegli anni e nei successivi questi ex ragazzi hanno preso strade anche molto diverse, chi più laterali, come Guido Viale, chi variamente in carriera, impegnato in politica e successivamente eletto nei verdi, Marco Boato o Luigi Manconi, chi nel giornalismo, ma in modi davvero differenti, come Enrico Deaglio, Paolo Liguori, Marino Sinibaldi, Gad Lerner, Andrea Marcenaro. L'arresto di Sofri è come il gong di una generazione di mezzo: tutti si risvegliano, ognuno vuole dire la sua, ma ognuno ha con sé le sue motivazioni. A cominciare da quelle cruciali dell'accusatore, Marino. A caldo, non a caso, il commento di Leonardo Sciascia è: «Mi colpisce la figura di questo Marino, che cosa c'è dentro di lui».
Indro Montanelli in un'intervista riflette, «se i killer siano davvero questi non mi pronuncio. Di Tortora ne basta uno solo. Se si scoprisse che Sofri ha solo predicato l'illegalità, gli si può fare un processo morale», ma nella sostanza è convinto: «La campagna di stampa contro Calabresi fu certamente quello che armò la mano ai killer».
Su Repubblica Scalfari scrive un editoriale molto duro sul leader accusato dell'assassinio di Calabresi. Altri invece fanno distinzioni sottili. Luciana Castellina sul manifesto scrive «La violenza era nei tempi, negli scontri ai cortei, ma non in attentati di tipo mafioso». Degli ex parla subito Marco Boato, ormai è un iperpacifista: «C'è un baratro tra la critica sacrosanta a quell'errore e a quella concezione politica che avevamo in Lotta Continua, e immaginare che una campagna giudiziaria, che ha portato in tribunale anche un uomo mite come Pio Baldelli, sia collegata a un omicidio».
pd43 adriano sofriPD43 ADRIANO SOFRI
Enrico Deaglio, con Sofri in galera da pochissimo, dà al Tg1 una chiave: «Ho il cuore gonfio, ma anche fiducioso, perché tutti, dico tutti i vecchi compagni di Lotta continua si sono fatti vivi per chiedermi, cosa possiamo fare?». Come può accadere, al di là delle tante discussioni e anche forti divergenze politiche, esistenti dentro l'organizzazione?
Guido Viale è stato forse l'altro grande leader di Lotta Continua: «Adriano naturalmente lo sento spesso, anche se lo vedo raramente, e mantengo nei suoi confronti un'amicizia affettuosa e ricambiata». Adesso racconta: «Non c'è stata nessuna lobby, un'espressione escogitata da un establishment ostile a quella storia. Semmai Lc nasce da un sentimento di fratellanza e condivisione che ha resistito negli anni perché l'organizzazione non è nata su una teoria o un'ideologia, ma da una fiducia reciproca basata su un'assoluta franchezza». Viale è convinto piuttosto che ci sia stato a lungo un forte pregiudizio colpevolista su Sofri, in molta sinistra ufficiale e no.
LEONARDO MARINO NELLA SUA CREPERIE IN PROVINCIA DI LA SPEZIALEONARDO MARINO NELLA SUA CREPERIE IN PROVINCIA DI LA SPEZIA
«Molti che all'inizio nei media erano stati i più ostili a Sofri, penso a Eugenio Scalfari - e in generale al gruppo Repubblica - che scrisse un articolo durissimo sostenendo che anzi, la cattura di Sofri avveniva troppo tardi, divennero in seguito suoi convinti difensori, quando capirono che le accuse erano totalmente infondate. Invece quelli che nutrirono più antipatia verso Sofri furono e sono tuttora, da un lato persone con un chiaro orientamento politico di destra, dall'altro, gli epigoni di tradizioni diverse della sinistra extraparlamentare; penso per esempio all'area dell'autonomia, che non perdonò mai a Sofri di aver schierato Lc contro la lotta armata».
Sostiene Giovanni De Luna, ex attivista e storico, che «la difesa non fu di Sofri, fu la difesa di ideali e lotte della propria generazione», una mobilitazione nella quale ognuno rivedeva la sua storia, e difendere uno era difendere la propria stessa onorabilità. Altri, come Marino Sinibaldi, fanno notare che la coincidenza nella medesima stagione dell'arresto di Sofri, della fine del Pci e l'avvio di Mani pulite, «fecero sì che la forte componente anti-istituzionale che era presente in Lotta continua si sposasse con una forma di garantismo radicale, contro l'operato del tribunale di Milano».
Adriano SofriADRIANO SOFRI
Una tesi che in alcuni, per esempio in Paolo Liguori, torna per spiegare una delle ragioni della vicinanza degli ex andati a destra con quelli rimasti a sinistra: «La vera lobby era fatta di forze contro Sofri: il Pci dell'avvocato Maris, dell'area di Sarzana, da dove veniva Marino, la stessa area, si ricordi, in cui un Sofri giovanissimo si alza a criticare Togliatti; in più i carabinieri di Bonaventura e il tribunale di Milano».
Poi, dice Liguori, c'era «il pregiudizio fortissimo contro Sofri da parte di tutti quegli intellettualoni che volevano lavarsi la coscienza per aver firmato l'appello contro Calabresi». Se c'era un colpevole fisico, ritiene Liguori, le differenze tra un appello odioso e un assassinio erano ristabilite.
Giampiero Mughini firmò per alcuni mesi il quotidiano di Lc, per consentirne l'uscita per la legge sulla stampa. È uno dei non molti che da quel mondo hanno sostenuto (nel libro «Gli anni della peggio gioventù») che «il delitto maturò certamente negli ambienti di Lc, anche se Sofri credo vada assolto per insufficienza di prove».
Su quella generazione al telefono è a dir poco tranchant, «se parli con otto persone su dieci ti risponderanno che il delitto è avvenuto dentro Lc, ma poi stanno zitti. Me lo chiese Sabelli Fioretti per Sette - diretto dalla Agnese, con eminenza Paolo Mieli - e gli risposi; tutto qui. Ecco, io contesto l'impudenza vergognosa di questi di Lc che ancora oggi si mettono sul piedistallo dei presunti guru, e continuano a volersi raccontare come se fossero stati una forma di innocuo francescanesimo scalzo». Trentamila persone in otto anni passano in Lotta continua dal '68 al '76; un pezzo e un nodo di storia d'Italia che continuamente, anche oggi, finiamo per ritrovarci davanti.
LESTREMISTA DI DESTRA GIANNI NARDILESTREMISTA DI DESTRA GIANNI NARDI
3. MARINO: "MI CHIAMANO TRADITORE, MA IO POSSO GIRARE A TESTA ALTA"
Michele Brambilla per "la Stampa"
Sono passati venticinque anni da quell'estate in cui un colpo di scena riaprì le indagini sull'omicidio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972. Accadde un fatto più unico che raro: un uomo libero, incensurato e non sospettato di alcunché si presentò dai carabinieri per dire: sedici anni fa ho ucciso un uomo. Il suo nome è Leonardo Marino. Quando partecipò, come autista, all'agguato al commissario, aveva 26 anni; quando si costituì 42; oggi ne ha 67.
Dopo qualche titubanza, in quel luglio di venticinque anni fa Marino fece i nomi anche del complice, Ovidio Bompressi, e dei due mandanti, Adriano Sofri e Giorgio Pietrostefani. Tutti ex militanti di Lotta Continua. Gli arresti scattarono il 28 luglio 1988. Marino è stato condannato a undici anni (poi prescritto); Sofri, Pietrostefani e Bompressi a ventidue.
La confessione di uno degli imputati pareva sufficiente a spazzare via qualsiasi dubbio: ma il Paese si divise ugualmente. Per anni Marino è stato investito da una campagna tesa a screditarlo. Si disse che si era inventato tutto; che aveva preso soldi dai carabinieri; che il Pci aveva ordito un complotto per regolare vecchi conti con Lotta Continua. Si disse che Marino voleva riscattarsi (economicamente) da un'esistenza grama, visto che vendeva le crêpes a una bancarella di Bocca di Magra. Oggi comunque è ancora lì, a Bocca di Magra, a vendere crêpes. Arriva all'appuntamento con una Citroën C3.
Marino, che cosa ricorda di quel luglio di venticinque anni fa?
«Cerco di non ricordare. Tre giorni fa è venuto un signore e mi ha chiesto: "È lei Marino?". Ho risposto di sì, e lui: "Allora voglio darle la mano". Ma la maggior parte della gente che passa di qui non sa niente. E a me va bene così».
Per una volta, le chiediamo di ricordare.
«Andai per primo dal prete di Bocca di Magra, don Regolo. Poi dal senatore Bertone del Pci, perché per me il partito era importante. Da lì nacquero le leggende sul complotto del Pci, alimentate anche dal fatto che pure il mio difensore, l'avvocato Gianfranco Maris, era un ex senatore comunista. Ma Maris era stato chiamato come difensore d'ufficio da Pomarici, il pm che mi interrogava. Era estate, a Milano non c'era nessuno. Pomarici aprì la porta e il primo che incontrò in corridoio fu Maris».
OVIDIO BOMPRESSI E ADRIANO SOFRIOVIDIO BOMPRESSI E ADRIANO SOFRI
Andiamo avanti con Bertone: che cosa le disse?
«Di andare dai carabinieri».
E lei?
«Andai dal maresciallo del paese, Ameglia».
Dove, a quanto pare, lei fu trattenuto a lungo.
«Lì nacque un'altra leggenda: quella di Marino imbeccato dai carabinieri. La verità è semplice: che cosa volete che ne sapesse il maresciallo di Ameglia dell'omicidio Calabresi? Era roba più grossa di lui. Per questo chiamò i suoi superiori, i quali poi mandarono il colonnello Bonaventura dell'antiterrorismo».
Che la tenne lì un po' in caserma. Perché?
«Se vai dai carabinieri a confessare un reato, per giunta così grave, è ovvio che prendono informazioni sul tuo conto. Scoprirono presto che a Torino c'era un fascicolo su di me per il mio passato in Lotta Continua. Cercarono di capire se ero credibile, dopo di che mi portarono a Milano in Procura».
Gli ex di Lotta Continua insinuarono che lei era stato pagato per parlare.
«Intanto, non si capisce che interesse avrebbero avuto i carabinieri a costruire false accuse contro un movimento che non esisteva più da oltre dieci anni. Secondo, se avessi messo in piedi una storia del genere per soldi, mi sarei fatto pagare bene. E invece come vede sono sempre qui come venticinque anni fa: a fare crêpes fino alle due di notte».
Non ha avuto altri vantaggi?
«E quali? Avrei potuto chiedere la protezione come collaboratore di giustizia, e ho rifiutato. Avrei potuto cambiare nome come Peci e Barbone, e non l'ho fatto».
BOMPRESSI E PIETROSTEFANIBOMPRESSI E PIETROSTEFANI
Rifarebbe quello che ha fatto venticinque anni fa, viste le insinuazioni, i sospetti?
«Mi sta chiedendo se mi sono pentito di essermi pentito? No. Adesso sono me stesso. Certo: qualcuno mi dà del traditore. Ma io posso andare in giro a testa alta».
Si aspettava da parte degli ex compagni di Lotta Continua una simile campagna contro di lei?
«Me l'aspettavo. È il loro stile. Hanno fatto con me quello che avevano fatto con Calabresi».
Quanto tempo è stato in carcere?
«Un paio di mesi a Opera. Poi un paio d'anni agli arresti domiciliari».
Da quanto tempo non vede più i suoi tre ex complici?
«Sofri e Bompressi dall'ultimo processo, nel 2000. Pietrostefani era già latitante all'estero da tempo».
Che opinione ha di loro?«Ognuno fa i conti con la propria coscienza».
ADRIANO SOFRI GIORGIO PIETROSTEFANI OVIDIO BOMPRESSIADRIANO SOFRI GIORGIO PIETROSTEFANI OVIDIO BOMPRESSI
A chi dei tre si sente più legato?
«A Bompressi. Era uno come me. Uno di quelli che quando tiravano una pietra non nascondevano la mano».
Quanti le credono, tra gli ex di Lotta Continua?
«Al di là della propaganda, tutti sanno che ho raccontato la verità. Solo pochi però hanno il coraggio di esporsi. L'ha fatto Casalegno, l'ha fatto Mughini. Ma gli altri dicono: chi me lo fa fare?».
Sofri al processo ha negato tutto, anche le rapine.
«L'avvocato Maris mi diceva: saranno condannati dalle loro stesse parole. Hanno negato anche di fronte all'evidenza, come le pistole rapinate all'armeria Leone di Torino e trovate in possesso di militanti di Lotta Continua. Credo che Sofri volesse dare una visione totalmente immacolata di Lotta Continua».
Marino, lei ha detto che Sofri le confermò il mandato a uccidere Calabresi a Pisa, dopo un comizio. Non ha nessun dubbio su quel colloquio?
«Mai avuto dubbi. Le parole esatte non le posso ricordare. Ma certe cose si possono capire solo tra chi è stato in un certo ambiente. Io avevo chiesto a Pietrostefani garanzie per la mia famiglia nel caso fossero andate male le cose, e volevo rassicurazioni da Sofri. Loro dicono: a Pisa non ci fu il tempo per parlarsi, si era sotto il palco di un comizio. Ma lui sapeva già tutto, gli bastò un attimo per darmi la conferma. Non c'è possibilità di equivoco. Non si dicono certe cose a chi deve andare a distribuire dei volantini».
bompressi ovidio pisaBOMPRESSI OVIDIO PISA
Non ha mai pensato che in realtà fu Pietrostefani a decidere l'omicidio, e che Sofri subì la decisione?
«Questo non lo posso sapere. Sicuramente "Pietro" era più propenso a passare alla lotta armata. Però ripeto: non lo posso sapere».
Sofri aveva un grande ascendente su di lei?
«Ce l'aveva su tutti noi».
È vero che ha chiamato il suo primo figlio Adriano in onore di Sofri e il secondo Giorgio in onore di Pietrostefani?
«Adriano sì, è per Sofri. Giorgio un po' per Pietrostefani e un po' per un altro ex di Lotta Continua, Giorgio Merlo di Torino».
Spera ancora che qualcun altro confessi?
«Lo spero ma non ci credo. La loro scelta l'hanno fatta».
Perché pensa che non confesseranno mai?
«Per troppo orgoglio».
Non crede che qualcuno avrebbe diritto alla verità?
«La verità è stata stabilita da ben sette processi, più quello di revisione a Venezia, concesso per motivi che non stavano né in cielo né in terra».
Calabresi fu ucciso solo da voi quattro?
«Sono sicuro che ci furono dei complici d'appoggio, ma non lo posso dire perché non so i loro nomi».
sofri bompressi mughiniSOFRI BOMPRESSI MUGHINI
Quando è finita la sbornia ideologica di quegli anni?
«È venuta meno in modo travagliato e prolungato. Ci furono anni di euforia: pensavamo di fare la rivoluzione. Poi c'è stato, man mano, un tirarsi indietro. Lotta Continua alla fine si è sciolta. Io ho pensato: ma che cosa ho fatto fino ad ora? Quello che mi hanno detto per anni erano tutte balle? Il potere agli operai, l'esaltazione di Mao e del Che... Tutto finito? Allora c'è stato un lento e progressivo ripensamento di tutta la mia vita. Io, noi, abbiamo avuto l'impressione di una generazione persa per colpa di pseudo-intellettuali che predicavano cose assurde».
Quando, nell'estate 1988...
«Quando ho confessato ero già distaccato da Sofri da un pezzo, se è questo che vuol dire. Posso aggiungere una cosa?»
Certo.
«Vorrei che lei scrivesse che io non avevo alcuna voglia di fare questa intervista. Ho accettato solo perché in qualche modo devo ancora farmi perdonare dalla famiglia Calabresi. Ma chiedo il diritto a vivere una vita normale. Faccio fatica, ogni volta, a parlare di queste cose».




L’evasione fiscale e l’ipocrisia dei benpensanti

da www.linkiesta.it del 26/7/2013
Perché è importante la frase di Fassina
Si combatte il “nero” tagliando le tasse, i molti sprechi e riformando la Pubblica amministrazione
Solo l’ipocrisia dei benpensanti è peggiore dell’evasione fiscale. Quando si parla di frodi all’erario, di furbetti che evadono, di tasse troppo alte o non pagate, in Italia la tentazione insopprimibile è di buttarla nel moralismo più dozzinale. Indignarsi tanto (sacrosanto!) e riformare poco è il modo migliore per lasciare tutto così com’è. Almeno fino a ieri quando Stefano Fassina, vice ministro del governo Letta, capofila dell'anima socialdemocratica del Pd, se ne è uscito a sorpresa con una frase («in Italia esiste una evasione fiscale di sopravvivenza») che a sinistra ha fatto scalpore (leggi gli strali del gran capo della Cgil Susanna Camusso e gli imbarazzi di molti colleghi di partito) e a destra ha scatenato per lo più ironie («Se l'avesse detto Berlusconi...»).
Per gli osservatori neutrali il ragionamento di Fassina è la rottura di un tabù a sinistra, dove ancora la cultura dominante è liquidare il "nero", di cui siamo con la Grecia i campioni insuperabili, come una malattia che ammorba un pezzo di Italia gretta e impermeabile al bene comune. L'evasione è giustamente così scandalosa che viene facile, con un debito pubblico del genere sul groppone, metterla al centro di ogni agenda politica (di destra, centro e sinistra). Mancano risorse? Recuperiamole dalla lotta all’evasione, è il mantra diffuso di tutti gli ultimi governi e persino tra le categorie economiche. Tutti d’accordo a parole, ma stradivisi un secondo dopo perchè in realtà manca la condivisione sulle ragioni storiche di tutto questo "nero" che circola nelle vene di un Paese da sempre refrattario allo stato esattore - nemico secolare da gabbare -, incarnato dai troppi stranieri che ci hanno dominato. Finchè non si chiarisce questo punto, difficilmente faremo passi avanti sulla lotta all'evasione.
L’Italia del Dopoguerra è infatti un Paese che fonda il proprio accumulo di benessere su una strana costituzione immateriale: un settore pubblico sterminato e inefficiente usato da ammortizzatore sociale – uno stipendio sicuro a tutti pur di alimentare il circuito dei consumi - ; un settore privato, artigiano e di piccolissima industria spina dorsale del Paese a cui si concede, quasi a compensazione, il vizietto dell’evasione. Col tempo la prassi degenera da Nord a Sud: il piccolo “nero” di provincia si fa grande evasione, se non elusione, coinvolgendo fette sempre più larghe di popolazione. Dai “giovani” pensionati ai doppiolavoristi del pubblico impiego e delle grandi aziende private, dagli studenti che lavorano a nero nei locali alle casalinghe che fanno i mestieri o il babysittering fino agli insegnanti che danno lezioni private.
Finché il patto improprio ha funzionato ha prodotto ricchezza per tutti, senza che nessuno muovesse un dito per denunciare l’imbroglio. Poi con l’ingresso in Europa e la concorrenza globale il Bengodi è finito. La crisi mondiale ci restituisce un Paese in mutande, con 100 e passa miliardi di evasione fiscale, un settore pubblico elefantiaco e un debito pubblico fuori controllo.
Per questo la frase ad effetto di Fassina è importante e non va banalizzata. Sgombra il campo delle tasse dal moralismo mainstream che va per la maggiore e soprattutto, se Fassina è onesto intellettualmente lo ammetterà, costringe tutti a spostare il fuoco sull'unico modo utile a risolvere strutturalmente la piaga dell'infedeltà fiscale: riformare in profondità un sistema paese inefficiente e costoso, dal sistema tributario alla macchina pubblica, ben oltre i veti incrociati e le accuse reciproche. E qui non serve l’indignazione bensì il bisturi della buona politica. Serve tagliare spesa improduttiva, sprechi immani e dipendenti pubblici in eccesso e insieme le tasse abnormi su produttori e lavoratori facendo davvero controlli stringenti anti furbetti, altrimenti un pezzo di evasione italiana continuerà ad essere un mezzo patologico per sopravvivere. Oltre che un grande alibi. 
Ma perché la strategia abbia successo ci vuole soprattutto un disarmo bilanciato tra parti sociali: le associazioni d’impresa devono smetterla di considerare i tanti evasori "colleghi che sbagliano"; e i sindacati devono bandire la politica dei due forni: la denuncia del "nero" fatto da padroncini gretti, e insieme l’accettazione sottobanco degli straordinari fuori busta per i propri iscritti (almeno finchè l'economia ha tirato). Troppo comodo. Senza un’operazione verità non si va da nessuna parte e di certo la coscienza fiscale degli italiani non si raddrizza a colpi di decreto. Ma con la fatica quotidiana del riformismo. Per questo la frase di Fassina non va sprecata...
 


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sabato 20 luglio 2013

La governance grillina Casaleggio lancia l’Opa sul Movimento 5 Stelle Marco Fattorini Il guru perde clienti ma aumenta la pressione sull’azienda M5s. Tra ruolo pubblico e strategia web

20 July 2013

Il Quirinale lo aveva messo in chiaro prima dell’incontro con Grillo. «A tale udienza potranno partecipare anche altre personalità purché ne siano chiariti i titoli e le funzioni nell’ambito del Movimento». Un messaggio a Gianroberto Casaleggio, poi cordialmente accolto da Napolitano: «Ah ma lei è il famoso guru». Il cofondatore del Movimento 5 Stelle, già manager di Telecom e padre della Casaleggio Associati, è pronto a ingrossare il proprio “pacchetto azionario” della compagine politica. Nei prossimi mesi Beppe Grillo dovrebbe partire per una tournée internazionale dopo anni di stop: gli spettacoli lo vedrebbero impegnato in Nord America, forse in Europa, comunque lontano dalla politica di casa nostra.
Questa è solo una delle ragioni alla base dell’Opa di Casaleggio: se sia passaggio di consegne o consolidamento del ruolo poco importa, visto che già oggi l’imprenditore classe 1954 gestisce il M5s con i gradi del direttore esecutivo. D’altronde la linea politica si fa a Milano, non a Genova. Negli uffici della Casaleggio Associati, mica nella villa di Sant’Ilario. In un palazzo di via Morone, a due passi dalla Scala, lavora un team di fedelissimi tra cui il figlio Davide e il braccio destro Filippo Pittarello, già sceso a Roma per incontrare i parlamentari: «Ci ha fatto un discorso molto aziendalista».
Dall’azienda dettano l’agenda politica, pubblicano i post del blog e selezionano i temi che poi rimbalzano a Palazzo. Dal quartier generale di via Morone transitano la comunicazione, il marketing, la canalizzazione del traffico web: attualmente una decina di collaboratori della Casaleggio sta lavorando alla piattaforma online per la democrazia diretta. La cabina di regia milanese cura anche le votazioni online degli iscritti e la web tv “La Cosa”, i cui studi di registrazione sono ospitati in una camera dell'azienda. Sempre qui vengono «certificate» le liste locali del Movimento, passaggio necessario per l’utilizzo di nome e simboli stellati. In quest’ottica la sconfitta delle amministrative è stata incubata proprio negli uffici del fortino milanese. «Era tutto previsto - dichiara Casaleggio a Bruce Sterling - abbiamo voluto perdere. Avremmo potuto prendere più voti aumentando il numero di liste, potevano essere il quadruplo, tante erano le richieste arrivate. Ma abbiamo preferito affrontare le elezioni solo con le liste radicate sul territorio da almeno un paio d’anni».
Politica e rete s’intrecciano, Casaleggio Associati e Movimento 5 Stelle vivono un matrimonio che per alcuni ha le sembianze del conflitto d’interessi. Emblematico il fatto che Anonymous abbia scelto di hackerare il sito della Casaleggio Associati in segno di protesta contro la linea politica adottata dal M5s. Il guru, che è cofondatore del Movimento e prestatore dei servizi professionali per gli stellati, ha scelto personalmente gli uomini dello staff comunicazione alla Camera e al Senato, con loro intercorrono telefonate e incontri sull’asse Roma-Milano. Da settimane tiene contatti diretti con una pattuglia di parlamentari fedelissimi per consulti informali. Dice Alessandro Di Battista: «Ho un rapporto personale con Casaleggio, lo stimo e ogni tanto lo chiamo per chiedergli qualche consiglio». Non mancano i summit nella sede milanese, dove arrivano staff e deputati del “cerchio magico” per incontri lampo: tre ore di Frecciarossa, riunione strategica e poi ognuno ritorna alla base.
Non è un caso che nell’ultimo periodononostante l’indole schiva e l’attenzione maniacale alla privacy, il guru sia uscito in pubblico. Dopo mesi di blindatura nel fortino milanese ha risposto alle domande del Corriere della Sera e Wired. A stretto giro di posta è arrivata una videointervista concessa a Gianluigi Nuzzi. Sul fronte politico si è mosso con le piccole e medie imprese partecipando agli incontri di Confapri, tant’è che più di qualcuno nel Movimento ha storto il naso: «Vuol mica diventare l’ambasciatore della nostra linea economica?». Infine la salita al Quirinale coi galloni di leader politico ha smosso le acque stellate, quasi a istituzionalizzare la discesa in campo.
Il futuro è scritto nel business della Casaleggio Associati. A fine estate l’azienda perderà il cliente più importante dopo Beppe Grillo: il gruppo editoriale Mauri Spagnol, per il quale Casaleggio cura la comunicazione online delle case editrici controllate o partecipate (Longanesi, Garzanti, Guanda, Corbaccio, Chiarelettere) e il sito Cadoinpiedi.it, un forziere da 150.000 visitatori unici al giorno. L’addio, svelato da Vanity Fair, sarebbe dettato dall’evoluzione digitale della casa editrice che ora vuole gestire in proprio le appendici web. Ma anche perché, riferiscono i ben informati, «l’avventura politica di Casaleggio non ha fatto piacere a un gruppo editoriale che vuole pubblicare autori di tutti gli orientamenti politici».
Con lo snellimento delle attività commerciali la gestione resta focalizzata sul network beppegrillo.it, stante lo spettro del bilancio 2011 in perdita per 56.000 euro e l’attesa per il documento contabile del 2012. È verosimile che ora l’attività della Casaleggio si concentri a tempo pieno sulla creatura stellata, con ulteriori sviluppi sulla catena decisionale del Movimento. La parola d’ordine, riconfermata nella chiacchierata con Wired, è la stessa: «Andremo al governo da soli senza alleanze». Quello del guru è il piglio del manager, «non siamo un partito» ma le dinamiche ricordano i gangli dell’azienda. Spiega a Linkiesta l’ex pupillo Giovanni Favia: «Il suo manifesto politico è un libro intitolato “Prosperare sul caos”, vangelo che Casaleggio ha adottato nelle sue aziende e poi applicato alla politica, deve creare atomizzazione nella base per legittimare la sua leadership».
Che l'approccio Casaleggio fosse manageriale è un dato acclarato, lo riconoscono in primis gli stellati. A proposito del cordone ombelicale tra M5s e Casaleggio Associati il senatore Lorenzo Battista si è sbottonato: «È come se Publitalia indirizzasse il Pdl, che poi magari è così, ma noi non possiamo scendere a questo livello». Più duro il fuoriuscito Adriano Zaccagnini: «Non è Grillo il problema, ma l’approccio aziendalista del Movimento, lo staff di cui si sta fidando». Lo stesso che a breve potrebbe controllare il 100% delle Cinque Stelle.
Twitter: @MarcoFattorini

mercoledì 17 luglio 2013

LA STOCCATA Sartori: "Kyenge e Boldrini sono due raccomandate incompetenti, nullità della politica" Il politologo mette nel mirino il ministro dell'integrazione: "Che c'entra un'oculista al governo?". E su lady Montecitorio: "E' stata segnalata forse dalla P3?"

da "www.liberoquotidiano.it"

Giovanni Sartori torna ad attaccare il ministro dell'integrazione Cecile Kyenge. Il politologo, con un editoriale sul Corriere della Sera, dopo aver consigliato alla Kyenge "lezioni d'italiano", ora la accusa di incompetenza e di essere di fatto una raccomandata. "Letta è del mestiere, conosce bene il mondo politico nel quale vive. Chi gli ha imposto, allora, una donna (nera, bianca o gialla non fa nessunissima differenza) specializzata in oculistica all'Università di Modena per il delicatissimo dicastero della "integrazione"? Lei, la Kyenge, si batte per un ius soli (la cittadinanza a tutti coloro che sono nati in Italia) mentre il suo ministero si dovrebbe occupare di 'integrazione'. Allora a chi deve la sua immeritata posizione la nostra brava Kyenge Kashetu? Tra i tanti misteriosi misteri della politica italiana questo sarebbe davvero da scoprire", afferma Sartori. 
Secondo il politologo la Kyenge ha fallito su tutta la linea: "Nullità che diventano ministri, brave persone messe al posto sbagliato. La Kyenge non sa, a quanto pare, che l'integrazione non ha niente a che fare con il luogo di nascita: è una fusione che avviene, o anche non avviene, tra un popolo e un altro. Io ho scritto un libro per spiegare quali siano i requisiti di questa integrazione etico-politica (che non è integrazione di tutto o in tutto). Capisco che un'oculista non deve leggere (semmai deve mettere i suoi pazienti in condizioni di leggere). Ma cosa c'entra l'immigrazione e l'eventuale integrazione con le competenze di un'oculista? Ovviamente niente". 
Poi Sartori sposta il mirino su Montecitorio e se la prende pure con Laura Boldrini: "Un'altra raccomandata a quanto pare anch'essa di ferro (da chi?) è la presidente della Camera. In questo caso le credenziali sono davvero irrisorie. Molta sicumera, molto presenzialismo femminista ma scarsa correttezza e anche presenza nel mestiere che dovrebbe fare. L'Italia non si può permettere governi combinati (o meglio scombinati) da misteriose raccomandazioni di misteriosissimi poteri. Siamo forse arrivati alla P3?". (I.S.)

sabato 13 luglio 2013

LA CONFESSIONE Sallusti: "Il Corriere? Aveva due direttori, Mieli e Borrelli"



Il direttore del Giornale chiarisce gli anni di tangentopoli e il 1994 vissuto in via Solferino: "I magistrati là erano di casa, ma non toccavano mai il Pci"

Alessandro Sallustisi confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, eil suo rapporto con Paolo Mieli col quale ha discusso con toni accesi durante l'ultima puntata di Ballarò. La polemica è scoppiata dopo che Sallusti ha accusato Mieli di aver sempre strizzato l'occhio alle toghe quando negli anni Novanta veniva abbattuta con tangentopoli la prima Repubblica e veniva tirato giù, nel 1994, il primo governo Berlusconi.
Al Corriere le toghe erano di casa - Ora Sallusti chiarisce quegli anni in via Solferino e racconta anche di Mieli: "Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano". 
I magistrati ci passavano tutto - Sallusti è un fiume in piena e aggiunge: "I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano". Insomma per Sallusti c'è un filo rosso che unisce il Corriere della Sera e la procura di Milano. La storia si ripete. E questa volta non cade solo un governo. Stavolta si elimina il leader del maggior partito italiano di centrodestra. (I.S)

venerdì 12 luglio 2013

L’appello dell’Associazione Civicum “Lo Stato metta online come spende i soldi, subito“

12 July 2013
L’Associazione Civicum promuove una campagna per ottenre dei conti pubblici chiari e comprensibili per tutti, aggiornati e consultabili facilmente in rete, possibilmente confrontabili con quelli esteri. 
In un’ottica di trasparenza, per favorire comunicazione e dialogo fra cittadini, istituzioni e pubblica amministrazione. 
Civicum ha scelto di creare una petizione online su Change.org, il cui appello, indirizzato al Ragioniere Generale dello Stato, riportiamo qui sotto. 

Egregio Ragioniere Generale dello Stato,
mai come ora si parla di conti pubblici. Eppure nessuno, o quasi, li conosce. Noi di Civicum, che di conti della pubblica amministrazione ci occupiamo da quasi un decennio, lo abbiamo sperimentato in molte occasioni.
I cittadini vengono continuamente esposti a cifre su quanto incidono la riduzione dell’IMU e l’aumento dell’ IVA sui conti dello Stato e sull’impossibilità di fare alcunché per far ripartire lo sviluppo del Paese se non calcolandone i costi per l’erario e individuando analoghi importi in nuove tasse o in riduzioni di costi, ma tali cifre sono spesso imprecise e non omogenee e generano nella maggior parte dei casi confusione e non contribuiscono alla reale comprensione dei fenomeni analizzati.
Il cittadino comune si perde nel mare magnum di numeri, grafici, percentuali senza venire a capo di nulla, ed anche quello che voglia tenersi informato dedicando tempo e competenze al dibattito pubblico rimane frastornato, preso comʼè tra il pressapochismo degli interventi di molti esponenti politici e le diatribe tra gli esperti che illustrano, ciascuno, cifre spesso contraddette da altri esperti.
Ci auguriamo che la Ragioneria Generale inizi a svolgere un ruolo di informatore dei cittadini sui conti dello Stato e, in collaborazione con la Corte dei Conti, di tutta la Pubblica Amministrazione, rendendoli comprensibili e consultabili facilmente in rete. Ci auguriamo che questo possa avvenire non solo per quelli passati, ma anche per le previsioni dell’anno in corso e quelli prossimi.
Ugualmente auspichiamo che la Ragioneria Generale, in collaborazione con il costituendo Ufficio Parlamentare di Bilancio, possa illustrare gli effetti e le proiezioni sui conti pubblici delle diverse proposte di intervento in discussione a livello governativo o in parlamento, semplificando e rendendo rintracciabile agevolmente quanto già viene fatto per il Parlamento.
La trasparenza e una comprensione più diffusa dei conti pubblici aumentano l’informazione dei cittadini e rendono lo Stato più vicino, migliorano la qualità del dibattito pubblico e quindi anche della produzione legislativa e dell’azione del Governo. L’Associazione Civicum prosegue l’attività di promozione della trasparenza dei conti pubblici iniziata sugli Enti Locali dalla Fondazione Civicum (www.civicum.it) alla quale avevano collaborato lʼUniversità Bocconi, il Politecnico di Milano, lʼUfficio Studi Mediobanca, IRS, Ernst&Young, PriceWaterhouse, KPMG, Deloitte.
Chiediamo a Lei, che inizia ora il suo nuovo incarico, e ai suoi collaboratori di:
1. prendere un impegno pubblico alla promozione di una sempre più ampia diffusione di conti pubblici comprensibili ai cittadini, indicando un responsabile della Ragioneria dello Stato per lʼ informazione al pubblico e dotandolo di staff e budget adeguati.
2. introdurre nel sito della Ragioneria Generale una sezione di facile leggibilità che sviluppi sempre più quanto già avviato con lʼiniziativa del "bilancio in rete", rendendola aggiornata, completa e comprensibile al comune cittadino. Ci auguriamo che questo modello di trasparenza venga poi promosso con riferimento ai conti di ogni soggetto pubblico, in collaborazione con gli altri organi competenti dellʼAmministrazione dello Stato.
3. avviare una rendicontazione pro-capite, ed esporre per quanto possibile un confronto con i conti pubblici degli altri Paesi con cui ci confrontiamo.
4. avviare, in collaborazione con le istituzioni preposte all’istruzione e alla cultura, una campagna di alfabetizzazione sui conti dello Stato, che sono i conti di tutti e che dovrebbero essere compresi, nelle loro linee generali, da ogni cittadino.
Egregio Ragioniere Generale, ci rendiamo conto che alcuni di questi punti sono realizzabili rapidamente, altri sono più ambiziosi. L’importante è avere la volontà di perseguire una strada di trasparenza e educazione dei cittadini. Se Lei e i suoi collaboratori avvierete con misure concrete questa evoluzione avrete dato un contributo importante al miglioramento di questa nostra Italia e anche l’immagine della Pubblica Amministrazione e della Ragioneria Generale dello Stato ne trarranno un beneficio.
Civicum, se lo ritiene, le sarà accanto per darle per quanto possibile il contributo di idee proprie e degli esperti con cui collabora e il supporto dei tanti cittadini che condividono l’ideale di trasparenza e di collaborazione con gli amministratori pubblici. Potremmo ad esempio organizzare un incontro annuale di confronto sulle migliori esperienze italiane ed estere. Se lo desidera, saremmo felici di organizzare fin dʼora con Lei un incontro (anche pubblico, se lo riterrà opportuno) per confrontarci con lei sui temi sopra indicati.
Ci auguriamo che questa lettera sia di spunto per affrontare quella che ci sembra essere una situazione di estrema emergenza: cittadini e istituzioni devono conoscere la situazione reale del Paese e dei conti dello Stato per prendere corrette decisioni. Facendole i più “civici” auguri per il suo nuovo incarico, le inviamo i migliori saluti.
*Presidente Associazione Civicum
Twitter: @civicum_it



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