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sabato 29 dicembre 2012

Nella Russia di Stalin i cannibali esistevano davvero

Maurizio GRIFFO
tratto da: l'Occidentale, 13.1.2008

Il libro che qui segnaliamo (Nicolas Werth, "L'isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all'interno dell'arcipelago gulag", Milano, Corbaccio 2007, pp. 189, € 16, 60) si occupa di un tema che possiamo definire classico della discussione sui regimi collettivisti: comunismo e cannibalismo.

L'immagine dei comunisti che mangiano i bambini è appartenuta dapprima all'anticomunismo emotivo e spontaneo poi, in tempi più recenti, è stata utilizzata ironicamente dai sostenitori dei regimi sovietici e parasovietici per volgere in dileggio le accuse loro rivolte. Fortunatamente il libro di Werth non prende posizione nella polemica, ma si mantiene sul piano della serena ricostruzione storica. A questo proposito, allora, una prima considerazione s'impone. A distanza di oltre un quindicennio dalla fine dell'Unione sovietica e dall'apertura degli archivi del defunto regime, le ricerche storiche sulla Russia bolscevica hanno conosciuto non solo una considerevole crescita quantitativa ma, soprattutto, un innegabile salto di qualità. Oramai esiste una generazione di storici cresciuti in un ambito lontano dalla partigianeria, ma interessata a capire le vicende del regime sovietico. In altri termini, la storia dell'Urss ha acquisito una sua dimensione pienamente scientifica volta a periodizzare le varie fasi del regime, intenderne lo svolgimento, inquadrare i singoli fatti nel loro contesto. Il saggio di Nicolas Werth è un frutto maturo di questa stagione storiografica. Basato su di uno scrupoloso lavoro d'archivio, consapevole del quadro generale nel quale i singoli avvenimenti analizzati vanno a collocarsi, capace di un innegabile distacco ma animato da una profonda empatia ermeneutica.

La vicenda dell'isola di Nazino, nel cuore della Siberia, dove si verificarono casi di cannibalismo, si colloca nell'ambito di un'operazione di "pulizia sociale" avviata in Urss nei primi anni trenta del secolo scorso. L'idea era quella di deportare in Siberia "elementi declassati e socialmente nocivi" allo scopo di creare delle colonie di popolamento. Una sorta di alternativa al gulag; non campi di lavoro, ma insediamenti. A sua volta questo progetto (successivamente abbandonato) era parte della campagna di dekulakizzazione, volta a distruggere la classe dei contadini proprietari. La dizione di "elementi declassati e socialmente nocivi" era abbastanza elastica da lasciare larghissimo spazio all'arbitrio della polizia. Nel corso della trattazione affiora spesso l'arresto del tutto casuale di persone, perfino di iscritti al partito, motivato dalla necessità di raggiungere la quota fissata.

Alcune migliaia di deportati furono stanziati nell'isola di Nazino, in condizioni per lo meno disperate: senza abitazioni, senza utensili o attrezzi, senza vestiti, senza cibo (tranne razioni di farina comunque insufficienti per tutti). I casi di cannibalismo vanno letti all'interno di questo contesto e si possono riportare a due tipologie. In primo luogo c'era la condizione di estrema penuria che spingeva verso l'antropofagia, non sempre collegata all'omicidio. Chi moriva per inedia o per sfinimento serviva da nutrimento agli altri. In secondo luogo c'era l'abitudine, diffusa tra i delinquenti abituali deportati, di evadere portando con sé qualche giovane e inesperto condannato, in gergo una "vacca", da scannare in caso di necessità. Werth interpreta questi casi di cannibalismo come un aspetto particolare di un processo di "decivilizzazione" che caratterizza l'esperienza sovietica in quel periodo. Un processo che riguarda la tecnologia e la cultura materiale, tant'è vero che i responsabili dell'isola avevano ripreso a scrivere su cortecce di betulla, data la scarsità di carta, ma che soprattutto investe i rapporti umani. Rapporti di una violenza estrema, "fondati su una vera e propria animalizzazione dei deportati". In definitiva "l'utopia modernizzante di un'ingegneria sociale purificatrice e civilizzatrice perfettamente controllata fece paradossalmente riemergere una lunga serie di arcaismi. Da questo punto di vista, l'episodio fu lo specchio dell'intero progetto staliniano".

Da un altro punto di vista la dekulakizzazione e le deportazioni di massa ci presentano la versione sovietica della banalità del male. Gli arresti e le deportazioni erano la conseguenza di un progetto complessivo di riorganizzazione forzosa della società. Queste retate erano pianificate in progetti avanzati, discussi e approvati da zelanti dirigenti del partito, compresi della grande opera di edificazione del socialismo. Certo, all'entusiasmo pianificatore corrispondeva in genere una traduzione pratica approssimativa, sciatta, confusa. Tuttavia la sciatteria non leniva la complessiva ferocia delle operazioni, ma aggiungeva un ulteriore quoziente di arbitrio e di brutalità.

In conclusione, proprio perché l'analisi di Werth non è svolta con furore ideologico, e non è mossa da un pregiudizio sfavorevole, le risultanze risultano ancora più impressionanti e, se si vuole, definitive. Il senso ultimo del comunismo si disegna con nettezza: non un grande ideale di liberazione, magari tradito da una imperfetta applicazione, ma una sovversione brutale e violenta dell'ordine naturale del mondo.

venerdì 28 dicembre 2012

domenica 18 novembre 2012

AZIENDE PUBBLICHE: si vada a vedere i conti.

Desidero sollevare un problema che, ne sono convinto, interessa a tutti i Cittadini, perlomeno a quelli che pagano le tasse: la gestione antieconomica delle Aziende pubbliche.
E’ assolutamente vero che la differenza tra Azienda e Impresa consiste nel fatto che l’obiettivo dell’Azienda è quello di Soddisfare i bisogni dei Cittadini mentre quello dell’Impresa è quello di creare profitto (in realtà è quello di mantenere un equilibrio economico nel tempo soddisfacendo tutti i fattori della produzione, ma la vulgata dominante vede solo l’aspetto del Profitto e per di più in un’accezione negativa e quindi tanto vale accettare la limitazione al Profitto, ma in una logica positiva, visto cioè come leva per lo sviluppo e mantenimento in vita dell’Impresa stessa).
Sono certo che tutti i lettori converranno con me che le Imprese gestite bene tenderanno in primis a risparmiare sui costi e poi ad incrementare i ricavi. Ciò perché ai fini di una sana gestione l’Imprenditore privato, che abbia un minimo di cognizione di Economia Aziendale, sa bene che non contano i volumi di vendita, bensì quanto costa vendere.
Ormai anche i sassi sanno che una gestione economicamente sana, che non produca perdite, deve riguardare tutte le Aziende Pubbliche.
Nella mia esperienza professionale di Consulente di Marketing mi trovo a confrontarmi con Imprenditori che sono tali solo di nome, ma poco importa perché i mancati profitti o peggio le perdite prodotte dalla loro cattiva gestione ricade sulle loro imprese e in ultima analisi sui loro bilanci. Volgarmente si può dire che ci rimettono del loro e quindi transeat, peggio per loro.
Ma quando sono i Dirigenti delle Aziende pubbliche a rifiutarsi di prendere in considerazione le possibilità di abbattere alcuni costi strategici per le Aziende, o settori di esse, da loro guidati bè, non può essere accettato.
Ciò perché le Perdite generate dalle loro pessime gestioni sono pagate da noi Cittadini che paghiamo le tasse.
Poiché non voglio assolutamente citare in questa sede Aziende pubbliche e dirigenti, a mio parere negligenti, perché sarebbe di cattivo gusto, ma desidero sollevare un problema vero chiedo di aprire un dibattito e magari in quella occasione, se servirà a dimostrare il mio assunto agli scettici, potrò portare esempi concreti di gestione poco oculata, voglio essere gentile, di alcune aziende pubbliche della nostra zona.
Poiché i dirigenti delle aziende pubbliche devono garantire professionalità e sono responsabili dei danni provocati dalla loro gestione antieconomica, credo proprio che prima o poi ci si dovrà rivolgere alla Corte dei Conti della Regione Toscana perché rivolga la sua attenzione sulle aziende pubbliche della nostra Provincia, senza aspettare che si allarghino le voragini nei conti economici delle stesse.

Ennio Di Benedetto


Massa, 18 Novembre 2012

sabato 17 novembre 2012

Il declino dell’Italia (in 3 grafici)


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DA "CHICAGO BLOG"

Alcuni studenti mi hanno chiesto quale variabile potrebbe in maniera più sintetica ed efficace rappresentare il declino economico dell’Italia dell’ultimo decennio-quindicennio. La miglior ‘fotografia’ possibile del declino è a mio avviso rappresentata dall’indice del  Pil pro capite degli italiani in standard di potere d’acquisto (PPS) calcolato ponendo sempre uguale a 100 in ogni anno lo stesso dato per l’UE a 27 paesi. Si ottiene in tal modo una linea che discende rapidamente e continuamente nel tempo senza accenno alcuno ad un’inversione di tendenza, come è possibile vedere dal grafico sottostante.
Pil pro capite in SPA  (Indici UE27=100)
A metà anni ’90 il Pil pro capite dell’Italia in PPS si trovava 21 punti percentuali al di sopra del valore medio degli attuali 27 paesi che compongono l’Unione e persino 6 punti sopra il valore dei paesi UE-15 pre allargamento. Nel 2003 il dato italiano scendeva al di sotto del dato medio UE-15 e alla fine del decennio azzerava completamente il vantaggio rispetto all’UE-27.
Accanto alla ‘foto’ del declino relativo dell’Italia è utile  osservare anche le differenti dinamiche del Pil nel nostro paese e nell’UE che lo spiegano. Il Grafico seguente mostra i due indici del Pil reale dal 1995.
Pil Italia e UE-27 Italia esclusa  (Indici 1995=100)
Dal 1995 l’Italia è sempre cresciuta di meno del resto dell’UE (tranne nel 1999-2000): dal 1995 al 2007, ultimo anno per noi pre recessione, avevamo cumulato una crescita complessiva del 20% (contro il 38% del resto dell’Unione) ma circa metà di essa è andata perduta nel biennio 2008-9 e il piccolo recupero del 2010-11 è stato interamente bruciato dalla recessione fiscale italiana del 2012. Risultato? Mentre nel 2012 il resto dell’Unione (nonostante comprenda tutti i paesi problematici tranne noi) ha recuperato integralmente il livello di Pil del 2007 noi non abbiamo recuperato assolutamente nulla e il nostro Pil è ritornato quest’anno allo stesso livello del 2001, indietro di tre legislature politiche.
Ma c’è di peggio. Infatti in questo periodo la popolazione italiana è  cresciuta e in conseguenza i dati relativi al Pil pro capite segnalano un arretramento più consistente.
Pil totale e pro capite Italia e UE-27 Italia esclusa  (Indici 1995=100)
In termini pro capite il Pil dell’Italia risulta ritornato nel 2012 allo stesso livello del 1998, l’anno in cui l’Italia fu ammessa all’euro. So di regalare un argomento ai grillini ma il grafico ci dice che in tutto il periodo in cui abbiamo avuto l’euro non vi è stato alcun miglioramento nel pil pro capite e poiché nel frattempo la popolazione italiana è divenuta mediamente più anziana e ha in conseguenza più bisogni da soddisfare per garantire un dato livello di benessere, possiamo ragionevolmente credere che a fronte di un eguale livello di Pil reale pro capite il benessere medio attuale sia inferiore rispetto a quello del 1998.
Ovviamente una concomitanza non è una causalità e l’euro c’entra davvero poco col declino dell’Italia. Quando fummo ammessi all’euro avevamo un disavanzo pubblico inferiore al 3% del Pil e grazie all’introduzione dell’euro e alla ridenominazione del debito pubblico italiano abbiamo risparmiato sino a un massimo di 7 punti di Pil all’anno nella spesa per interessi. Con quel risparmio si sarebbe potuto portare il bilancio in pareggio, arrestando la crescita del debito  in valore assoluto e accelerandone la riduzione in rapporto al Pil. Si sarebbe anche potuta ridurre la pressione fiscale sino a un massimo di quattro punti percentuali. Se avessimo fatto queste poche cose oggi non avremmo nessun declino e nessun problema di finanza pubblica. Abbiamo scelto di non farle ma siamo stati noi, chi ci ha governato. Non ce lo ha chiesto l’euro o chi precedette Angela Merkel.
9 novembre 2012Senza categoria

giovedì 8 novembre 2012

GUIDA ALLE DETRAZIONE Casa, ecco come e quando risparmiare 50mila euro di tasse


DA "LIBERO" del 08/11/2012
Casa, così si risparmiano 50mila euro di tasse
 
di Antonio Spampinato
Mancano poco più di sette mesi alla scadenza delle agevolazioni fiscali del 50% per la ristrutturazione della casa. Il proprietario o l’inquilino che hanno effettuato lavori di riqualificazione - anche se si tratta semplicemente di piccole migliorie - dell’immobile tra il 26 giugno del 2012 e il 30 giugno 2013, possono portare a detrazione nella denuncia dei redditi la metà delle spese sostenute, fino a un massimo di 48 mila euro, che possono essere recuperati in 10 anni. Il tetto delle spese di ristrutturazione che rientrano nel bonus fiscale è dunque di 96 mila euro per ogni immobile (il 50% fa appunto 48 mila), anche nel caso di più interventi. Questo vuol dire che se vengono effettuati nello stesso appartamento due interventi di riqualificazione da 100 mila euro ciascuno, il tetto massimo su cui calcolare la detrazione resta 96 mila euro. Chi è proprietario di più appartamenti può contare invece su uno sconto fiscale calcolato su 96 mila euro per ciascun immobile. A fare fede non è la data di inizio dei lavori, ma la data del pagamento, che deve avvenire, appunto, entro il 30 giugno 2013.
Il meccanismo  L’articolo 11 del decreto legge 83/2012 permette di estendere il vecchio bonus del 36% fino al limite del 50% ed aumentare il tetto di spesa agevolabile da 48 a 96 mila euro. In questo modo il governo ha voluto dare un po’ d’ossigeno al settore dell’edilizia, particolarmente colpito dalla crisi. (Per avere un’idea della mannaia che dal 2009 è calata sull’intero comparto delle costruzioni: in base all’analisi dei bilanci 2011 fatta per «Edilizia e Territorio» dalla società Guamari, i risultati complessivi sulla redditività sono calati del 69% per i produttori e del 28% per i Top 50 gruppi di costruzione, mentre per le prime 100 imprese edili si è passati da un utile netto cumulato di 297 milioni a una perdita di 11,2 milioni).  Parallelamente all’estensione del bonus sulle ristrutturazioni, continua ad essere attivo (dal 2007 e fino a fine anno)  anche quello sulla riqualificazione energetica che prevede invece uno sconto fiscale ancora più alto - anche in questo caso si dovrà spalmare in 10 anni - pari al 55% mentre il tetto massimo su cui applicare lo sconto dipende dal tipo di intervento: 181.818 (lo sconto del 55% è dunque di 100.000 euro in 10 anni) per la riqualificazione energetica di edifici esistenti; 109.091 (la detrazione del 55% è pari a 60.000 euro in 10 anni) per la sostituzione di finestre, la coibentazione di pareti e coperture, l’istallazione di pannelli solari per la produzione di acqua calda; 54.545 euro (il bonus del 55% è di 30.000 euro) per la sostituzione della caldaia. Nel caso si intenda utilizzare la detrazione al 55% è necessaria però la trasmissione telematica all’Enea della documentazione tecnica.
I lavori detraibili  Rientrano nel bonus fiscale del 50% le opere straordinarie, come la rimozione di barriere architettoniche, la creazione o lo spostamento di una parete interna, alcune opere di risparmio energetico, bonifica dall’amianto, abbattimento dell’inquinamento acustico, adeguamento degli impianti alle norme di sicurezza, la sostituzione delle finestre, il rifacimento del bagno o dell’impianto elettrico, l’istallazione di una nuova caldaia, l’applicazione alle finestre di film per la riduzione della luce solare. Sono escluse le opere di ordinaria amministrazione, come la tinteggiatura (previste solo nel caso di condomini), ma sono state incluse alcuni lavori minori, come l’installazione del salvavita, la porta blindata o l’impianto antifurto. Non possono essere inclusi invece quei lavori che prevedono un aumento della volumetria.
Chi ha diritto  A poter scontare il bonus sull’Irpef sono i soggetti privati come ad esempio il proprietario dell’immobile, l’inquilino (basta che paghi l’affitto e abbia contratto in regola), l’usufruttuario, il familiare convivente: in generale chi possiede o detiene l’immobile attraverso un titolo idoneo. Anche i non residenti in Italia possono approfittare dell’occasione. L’importante è che l’utilizzatore dello sconto abbia effettivamente sostenuto le spese o la quota a lui spettante. Il tetto però non è cumulabile tra i diversi soggetti: il calcolo deve essere fatto partendo dal totale speso per ogni singola unità abitativa e la detrazione, sempre per ogni unità immobiliare, non può superare i 48 mila euro.

Quando si risparmia  Valendo il principio di cassa, cioè il pagamento delle fatture, si possono detrarre i lavori iniziati anche prima dell’entrata in vigore della norma (26 giugno 2012), basta pagarli o averli pagati tra il 26 giugno 2012 e il 30 giugno 2013. I pagamenti effettuati a partire dal primo luglio 2013, rientreranno, salvo proroghe, nella detrazione del 36% con il tetto massimo di lavori scontabili a 48 mila euro. I pagamenti inoltre dovranno essere fatti attraverso un bonifico bancario dove risulterà la causale del pagamento, il codice fiscale del beneficiario della detrazione e la partita Iva o il codice fiscale dell’artigiano o dell’impresa. La detrazione inoltre si applica solo per gli interventi su immobili residenziali e sono dunque esclusi quelli effettuati su edifici con diversa destinazione d’uso. Da sottolineare il fatto che le detrazioni al 50% e quelle al 55% sulla riqualificazione energetica, sono cumulabili. Come sono cumulabili le detrazioni effettuate, per esempio sulla prima casa e su quella del mare e la quota spettante al proprietario o all’inquilino dei lavori condominiali che rientrano nella detrazione.

martedì 6 novembre 2012

Tutte le vergogne della sua Olivetti: "Libero" le ricorda a De Benedetti L'editore di "Repubblica" si dice orgoglioso di quell'azienda, ma dimentica mazzette e salvagenti di Stato. Oltre al suo passato socialista...



DI FRANCO BECHIS


03/11/2012
'Libero' ricorda a De Benedetti le vergogne della sua Olivetti
Carlo De Benedetti
Qual è il tuo stato d'animo?
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di Franco Bechis
Il passo d’addio è accompagnato sempre da una certa retorica, e figurarsi se non doveva accadere  anche per Carlo De Benedetti e il suo annuncio di mezzo ritiro dalla scena. Lui a dire il vero aveva già annunciato nel 2009 una pensione dorata, abbandonando tutte le cariche del gruppo salvo la presidenza dell’Espresso. Nella sostanza non cambia nulla rispetto ad allora, salvo l’utilizzo della legge sulla successione per trasferire ai figli le sue quote nella holding di famiglia, la Carlo De Benedetti & c. Un asse ereditario risolto in anticipo per non fare litigare la prole sul testamento, che gli assicura ancora il generoso stipendio da amministratore unico di Romed (2,5 milioni di euro l’anno) e la guida del gruppo editoriale che ha dentro Repubblica, i quotidiani locali di Finegil, le attività radiofoniche e televisive e il settimanale Espresso. Tanto è bastato per dedicare ieri sul quotidiano degli industriali italiani un’ampia intervista all’Ingegnere che annuncia «Ora farò l’editore puro».
EDITORE PURO
A parte l’atipicità di un editore puro che continua ad essere il capo di una famiglia con interessi nell’energia, nella finanza, nella ristorazione, nella componentistica auto, nella sanità e decine di altri settori, l’intervista al Sole 24 Ore ieri è stata l’occasione per ripercorrere fra effluvi di incenso la sua carriera di imprenditore. Come tanti altri grandi imprenditori (un difetto in comune col nemico di una vita, Silvio Berlusconi) De Benedetti gode di altissima autostima. E ha qualche difficoltà ad individuare errori compiuti in vita. Gli scappa un’ammissione sulla celebre scalata alla cassaforte del Belgio, la Sgb (che fallì ed è un fatto incontrovertibile), ma subito si corregge: «Il mio fu un errore di esecuzione, non di intuizione». Vale a dire: l’idea della scalata era stata sua, formidabile. La scalata in sé fu tentata dai suoi uomini, e furono loro a fallire: «Purtroppo nella sua finalizzazione l’operazione fu gestita male. E ne abbiamo subito le conseguenze». A una certa età la memoria ha maglie più larghe, vale per tutti. Così l’ingegnere non si ricorda più da quali labbra sfuggì l’arrogante annuncio ai belgi: «La ricreazione è finita», che fece irritare tutti e naufragare l’intera operazione. Erano proprio le sue labbra.
Ma i vuoti di memoria più terribili debbono avere accompagnato la non felicissima storia di De Benedetti nell’Olivetti. Non felicissima, perché grazie a quell’azienda fu indagato a Milano dal pool mani pulite, poi inseguito proprio diciannove anni fa durante il ponte dei Santi da un mandato di cattura. Infine pure arrestato (il processo fu lentissimo, e insieme ad altri fu infine prosciolto nel 2003 anche perché i fatti erano ormai prescritti). Al Sole 24 ore De Benedetti ha raccontato quel che si ricorda dell’Olivetti. Bei ricordi, come capita il giorno della pensione: «Una storia che rivendico con orgoglio. L’ho salvata da una morte che ha interessato tutti i nostri competitor di allora (…) Con Olivetti ho trasformato una fabbrica di macchine da scrivere in uno dei maggiori produttori di computer mondiali e poi in un grande operatore di telefonia mobile che rompeva un monopolio…». Poi se è finita male (ed è finita malissimo, con il marchio che ogni tanto risorge provoca altre disavventure e come la Fenice risorge ancora passando di mano in mano), naturalmente la responsabilità è altrui.
Basterebbe un po’ di memoria però per raccontare la storia giusta, forse poco adatta al passo d’addio, ma almeno vera. Quello di Olivetti in mano all’Ingegnere non fu straordinario successo imprenditoriale. Fu in realtà un calvario non diverso da quello affrontato dai competitori internazionali e anche dalle grandi imprese italiane in anni di crisi industriale come fu la prima metà degli anni Ottanta. Basta consultare gli archivi digitali per scoprire che il termine più volte associato ad Olivetti dal 1980 al 1994 fu «cassa integrazione», non certo un simbolo di grande successo. Non fu l’imprenditore, fu la politica a tenere in piedi quell’azienda. Sempre e comunque. Perché rappresentava un problema sociale, e perché De Benedetti chiedeva e pagava - come si faceva all’epoca - la politica per reggere la baracca. Lo ammise lui stesso - presentandosi naturalmente come vittima - davanti al pool Mani pulite che ormai lo aveva pizzicato quindici giorni dopo avere negato tutto di fronte all’assemblea degli azionisti Olivetti.
NEGAZIONE CONTINUA
«Non lavorare», scrisse in un suo memoriale, «in particolari specifici settori della pubblica amministrazione italiana diveniva per noi inaccettabile (…). Questa prima fase era caratterizzata da pressioni dei mandatari del Psi e della Dc alle quali rispondevamo respingendo richieste specifiche del “caso per caso”, ma cercando di limitarci a donazioni generiche ai segretari amministrativi non riferite specificatamente a singoli lavori». Poi «subentrò una seconda fase in cui avvenne una sistematica, totale, ineludibile contrattazione da parte dei mandatari dei partiti su tutto quello che potevano controllare senza alcuna eccezione. Così il nostro atteggiamento subì un cambiamento e cioè invertimmo la nostra posizione, respingendo ormai disgustati qualsiasi finanziamento ai partiti, ma subendo di volta in volta i ricatti di loro mandatari su singoli specifici espisodi». Insomma, finì con il pagamento di circa 10 miliardi di lire di tangenti. Concusso per tenere in piedi l’Olivetti.
Negli anni Ottanta l’azienda fu salvata dalla legge che impose i registratori di cassa a tutti i commercianti. Portava la firma di Bruno Visentini, già nel board Olivetti. E il mercato fu diviso da due aziende: l’Olivetti, e la Sweda. Che fu comprata subito dalla stessa Olivetti.
Nel memoriale De Benedetti sostenne di essere ricattato dalla politica che gli chiudeva la commessa delle Poste, aprendo il mercato ad aziende straniere. Pagò e rifornì l’azienda di vecchie telescriventi mai usate. Se ne trova ancora qualcuna nei magazzini di palazzo Chigi, dove costa una fortuna rottamarle. Sempre sotto ricatto dei politici, naturalmente. Anche se nell’archivio di Bettino Craxi e in quello di Giovanni Goria si trovano documenti che racconterebbero un’altra storia. A meno che il ricatto non comportasse cimeli garibaldini generosamente donati dall’Ingegnere a Bettino, o la partecipazione a comizi Psi sulla piazza di Brescia con tanto di garofano all’occhiello (foto dell’archivio Craxi).
Finite le commesse inutili, tornarono i cassa integrati. L’Olivetti provò a rifilarne 1500 alla pubblica amministrazione, con una norma varata dall’ultimo governo di Giulio Andreotti. Non passò in parlamento. Ma 414 cassaintegrati Olivetti furono scaricati lo stesso sulle spalle dello Stato. A quel punto l’ingegnere cercò di sfilare Finsiel all’Iri: un contratto per pagare la minoranza e comandare come fosse in maggioranza. Si oppose il socialista Massimo Pini, e l’operazione non riuscì.
LA PROPOSTA
Allora l’ingegnere bussò alla porta di Giovanni Goria (nella primavera del 1993), chiedendo una mano per la sua Olivetti pubblica amministrazione. Ci sono lunghi carteggi a testimoniarlo. Olivetti voleva una commessa per realizzare la carta elettronica della Sanità nella Regione Lazio, per poi estenderla in tutta Italia. E aveva proposto perfino una carta elettronica sostitutiva del certificato elettorale per fare votare tutti gli italiani. Goria caldeggiò (e anche qualcosa più) l’Olivetti presso l’amica Maria Pia Garavaglia, ministro della Sanità nel governo di Carlo Azeglio Ciampi. Il colpaccio però non andò in porto. E l’Olivetti sarebbe stata ancora mesi in agonia, fino alla spugna gettata dall’Ingegnere pochi anni dopo. Un’altra storia.

lunedì 5 novembre 2012

Vi svelo le manovre della lobby di Casaleggio Grillo, Di Pietro, Travaglio e De Magistris: ecco tutti i volti della cerchia. L'sms di Giggino a Travaglio: "Vulpio contro Santoro, io mi dissocio"

Lettera di Carlo Vulpio a "Il Giornale"

sabato 6 ottobre 2012

All’armi! Siamo in guerra Un pezzo da Novanta, Giulio Tremonti, fa un partito e ne spiega qui il senso. Siamo oggetto di truffa, ci vogliono colonizzare e rapinare, ribelliamoci alla speculazione finanziaria mondiale. Ecco come

6 ottobre 2012 - ore 06:59 l 

DA "Il FOGLIO"


Siamo in guerra. Dentro una strana guerra: economica, non violenta, “civile” e per questo diversa da quelle del passato. Soprattutto una guerra economica. Ma pur sempre una guerra!
Possiamo perderla, questa guerra, se per paura accettiamo di farci colonizzare, se nel 2013 votiamo per dare il nostro richiesto consenso al nostro assistito suicidio. Da quando hanno deciso di “salvarci”, sottomettendoci ad una cura che loro chiamano “distruzione creatrice”, abbiamo infatti in Italia troppe tasse e troppa paura. Un conto è tassare il reddito prodotto, un conto è impedire con le tasse che il reddito sia prodotto! Puoi liberalizzare o puoi spaventare, ma non puoi fare tutte e due le cose insieme! Una volta si falliva per i debiti. Oggi in Italia si fallisce anche per i crediti, perché il denaro – fatto per circolare – non circola. Nel dopoguerra non c’erano i soldi, ma c’era la vita! Oggi in Italia è l’opposto: non si compra, non si assume, non si investe. Nelle nostre strade si stanno diffondendo i cartelli “compro oro”. Weimar cominciò così, quando la crisi arrivò al ceto medio. Tra poco ci diranno che la nostra economia si indebolisce, che il nostro debito pubblico cresce, che così l’Italia non lo può onorare, che perciò dobbiamo chiedere l’ “aiuto” europeo, ma che per questo dobbiamo fare “ancora di più!”. Questo è il presente e questo sarà anche il futuro, se ancora si crede alla propaganda dominante: l’Italia avanza, l’Italia attacca… goal della Germania! Se continuiamo così, di sicuro vincono solo la speculazione internazionale e l’industria straniera, perché il contagio finanziario si sta già trasmettendo dal bilancio pubblico a quello delle banche, che di riflesso strozzano le nostre imprese, così destinate ad essere chiuse o spiazzate o comprate dalla concorrenza estera. E’ così che ora, come centocinquanta anni fa, come è scritto nel principio dell’“Inno d’Italia”, siamo noi stessi a voler essere “calpesti e derisi”, via via perdendo la nostra sovranità nazionale, la nostra dignità personale, la nostra democrazia, la nostra libertà, i nostri risparmi.
Oppure possiamo vincerla, questa guerra. Possiamo vincerla, ma solo se vinciamo la paura. Come è stato detto, in un tempo drammatico come questo, l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa. Perché è la paura, e solo la paura, che fa paura. L’Italia è (ancora) enormemente ricca, più ricca di quanto si dice agli italiani. E fuori si ammette che è proprio per questo, che ci si vuole colonizzare. Ed è ancora proprio per questo che, visti da fuori, sembriamo vittime di una truffa o di una beffa, o di tutte e due le cose insieme. In ogni caso, che sia truffa o beffa, ciò che in assoluto dall’estero ed all’estero conviene è fare ruotare, con gli “spread”, la manopola della nostra paura. Lo si fa perché si sa che è sufficiente far credere che un paese non ha scampo, perché questo davvero non abbia scampo! Siamo dunque sulla “Linea del Piave” e la prima battaglia da vincere è una battaglia da combattere sul campo della volontà e dello spirito. Le difficoltà esistono infatti soprattutto nella nostra testa! Siamo noi che dobbiamo scegliere: rassegnati a subire o decisi a cambiare; colonizzati perché presunti debitori verso l’estero o ancora padroni a casa nostra! Cosa fare, per uscire dalla trappola, per spezzare la catena della nostra sopravvenuta dipendenza dalla speculazione finanziaria internazionale, per farlo senza patrimoniali o prestiti forzosi o svendite disastrose, all’opposto lasciando i soldi nelle tasche degli italiani, è specificamente scritto nello sviluppo di questo “Manifesto” (leggibile in rete). Non è che poi si entra nel “paese di Bengodi”. Serviranno ancora sacrifici, ma questi avranno un fine ed una fine e sarà proprio per questo che gli italiani lo capiranno. Sacrifici, certo, ma non per fare guadagnare gli altri, piuttosto per mettere davvero in sicurezza l’Italia e gli italiani. Gli altri partiti, i vari movimenti politici, litigano su tutto, litigano sul mobilio o lo rottamano, mentre la casa crolla sotto i colpi della speculazione finanziaria. Altri ancora si mettono in lista per ottenere, dall’estero, l’appalto dei lavori di demolizione. Messa in sicurezza l’Italia, l’economia italiana può essere fatta ripartire, ed allora potremo smettere di parlare solo di soldi, perché l’uomo non è fatto ad immagine e somiglianza del denaro o delle merci, ma per guadagnarsi il pane con il lavoro e con il sudore della fronte. Quello che segue è un “testo aperto”, per questo è scritto su di una sola colonna. L’altra, quella lasciata in bianco, la potete scrivere voi, con le vostre idee, con le vostre critiche, con le vostre aggiunte. E’ un testo che non è di destra o di sinistra, ma per l’Italia.
Due ultime cose: alle elezioni del 2013 vogliamo candidare una maggioranza di giovani; la politica va messa in quarantena. Almeno per un giro, prima di stabilire una media europea, per nessun incarico politico si potrà guadagnare più di un precario. (segue dalla prima pagina)
Programma

BLOCCO PRIMO: “COMPRAITALIA”. 

Il debito pubblico italiano può e/o deve tornare in mani italiane per bloccare il ricatto speculativo esterno. Titoli pubblici esenti da ogni imposta presente e futura.

BLOCCO SECONDO: ECONOMIA 
Sezione prima: credito, lavoro, protezione della nostra produzione, Legge Tremonti per chi fa investimenti, assunzioni, export;
Costituzione di una banca nazionale di “Credito per l’Economia” (CpE) sul modello tedesco della KFW; separazione tra credito produttivo e casino’ o bisca finanziaria; Tfr nella busta paga mensile, con diritto di compensazione finanziaria automatica ed equivalente per le imprese; nuovo contratto di lavoro per la piccola e media impresa; “un giovane – un anziano”; protezione della nostra produzione; blocco della riforma Fornero sul precariato; potenziamento dei “Distretti e reti”; nuova Legge Tremonti per investimenti, assunzioni ed export; responsabilità sociale delle grandi società finanziarie, etc.
Sezione seconda: tasse e spesa pubblica
Abbattimento dell’Imu sulla prima casa non di lusso; parallela introduzione a copertura di un’aliquota di imposizione bancaria e finanziaria sui profitti da attività speculative e sull’attività fatta nei paradisi fiscali; destinazione prioritaria dei risparmi da “Compra Italia”, e altro, a riduzione fiscale; moratoria Equitalia in specifici casi; antievasione: coinvolgimento dei Comuni; controlli sulla lealtà fiscale degli immigrati che accedono alla nostra sanità, etc.; pagamento in contanti della pensioni più basse; “Simple tax”; concordato triennale preventivo; allentamento del patto di stabilità per gli investimenti fissi; ripresa del federalismo fiscale; sblocco effettivo dei pagamenti della pubblica amministrazione; standard europeo di spesa pubblica;
Sezione terza: libertà economica
Moratoria legislativa e taglio del “Nodo di Gordio”;
Sezione quarta: il Sud
Cassa del Mezzogiorno; Banca del Mezzogiorno; potenziamento dei titoli di risparmio per l’economia meridionale; fiscalità di vantaggio.

BLOCCO TERZO: RICERCA, MEDICINA, AMBIENTE, ETC. 
Credito d’imposta; la nuova medicina; adozione della parte ragionevole delle proposte del M5S; libri di scuola fermi per 5 anni.

BLOCCO QUARTO: DEMOCRAZIA E SOCIETA’ 
Costo della politica: quarantena. Nessun compenso politico potrà superare il guadagno di un precario. Poi andrà a regime il sistema di standard di costo medio europeo; generalizzazione dei referendum propositivi e consultivi; abbassamento a 16 anni della maggiore età; doppio voto elettorale ai giovani; adozione delle proposte liberali per la “rete” fatte dal “Piraten Partei”; innalzamento dal 5 al 7 per mille della contribuzione al volontariato; elezione diretta del presidente della Repubblica;

BLOCCO QUINTO: L’EUROPA
Referendum sull’Europa futura: più unità nella disciplina di bilancio, sopra; più solidarietà sotto, e comunque “battere i pugni” in Europa.
di Giulio Tremonti

sabato 29 settembre 2012

«Sarà guerra per le risorse»


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Poiché la considero molto interessante desidero
dare la massima diffusione a questa intervista
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Lettera43

INTERVISTA ESCLUSIVA

«Sarà guerra per le risorse»

Il sociologo Bauman sugli effetti della crisi.

di Barbara Ciolli
da Leeds
Negli occhi ha il guizzo di un ragazzino sveglio e intelligente e l'acume disincantato di chi ha attraversato molte generazioni, conosce bene il lato cinico dell'uomo, ma non ha perso neanche la fede nel suo lato più nobile.
'Umano' si dice dell'uomo quando prova dolore e istintiva partecipazione per le miserie altrui, tende la mano all'altro nella difficoltà e spera di arrivare insieme a un traguardo comune. E in fondo Zygmunt Bauman, uomo solido che ha teorizzato la società liquida, è stato accolto senza riserve nelle campagne dello Yorkshire inglese dopo essere sfuggito, da ebreo polacco, prima all'occupazione nazista, poi all'antisemitismo strisciante del regime comunista.
Dall'inizio degli Anni 70 non si è mai mosso dalla sua cattedra all'università di Leeds. «A wonderful city», dice con entusiasmo mai spento, mentre si siede di scatto sulla poltrona in pelle del suo studio, accendendosi con gusto la pipa.
FEDE NEL SOCIALISMO LIBERALE. A 87 anni, il sociologo che ha descritto le metamorfosi del capitalismo e l'esplodere della società dei consumi gira il mondo senza sosta per lezioni e conferenze. Ma le sue radici sono lì, nella culla del socialismo liberale, nel quale non ha mai smesso di credere.
La sua casa in collina - molto british - è grande e accogliente, piena di libri ma senza grandi comfort. Gli oggetti sembrano essere stati piazzati sui mobili per restarci a lungo.
Per gli ospiti, Bauman prepara con cura un caffè e un'abbondante colazione. «Si faccia un giro in questa splendida cittadina, prima di ripartire. Goda delle sue arti, respiri la sua cultura. Qua è tanto meglio che a Londra», suggerisce, prima di parlare dei travagli del mondo.
LE DUE VIE PER USCIRE DALLA CRISI. Sulla crisi attuale, l'uomo che ha vissuto molto vede nero. Ma, da sociologo, è molto lineare e lascia la porta aperta. «Ci sono due possibilità», spiega a Lettera43.it. «O, come è già successo nella storia, l'umanità cambia rotta e, per sopravvivere, imbocca una strada alternativa alla crescita» oppure, se l'homo consumens non accetterà, con sacrificio, di tornare indietro, «la natura prenderà il sopravvento e sarà la guerra di tutti contro tutti per la redistribuzione delle risorse».
In entrambi i casi, il processo sarà «doloroso», soprattutto nei Paesi occidentali, dove «lo stato sociale è in via di demolizione». Per Bauman, «non è più una questione di destra o di sinistra», ma di lotta per la sopravvivenza.
Le insidie non mancano, a partire dal capitalismo al tramonto, che «riserva sempre sorprese imprevedibili», e dall'impotenza della politica che, se non riacquisterà il potere di agire, non potrà traghettare i Paesi verso modelli più sostenibili.
DOMANDA. Eppure i politici propongono la via dell'austerity, per tagliare sprechi e sperperi della società dei consumi.
RISPOSTA. È una soluzione a breve termine, che di certo riduce la crescita e tiene molte persone disoccupate.
D. Come fa allora a risolvere la crisi?
R.
 Probabilmente, anche i rimedi a breve termine sarebbero dovuti essere diversi. Io, da sociologo, posso esprimermi solo in una prospettiva a lungo termine.
D. Per ora, cosa è arrivato a concludere?
R.
 Primo, che la crisi era ampiamente prevedibile. Siamo vissuti per oltre 30 anni al di sopra delle nostre possibilità, spendendo soldi non guadagnati. Il collasso del credito era inevitabile.
D. Colpa del ceto medio vorace, che, con il boom economico, voleva accaparrarsi tutti i nuovi comfort?
R.
 Certo che no. Le masse sono state convinte a vivere a credito. Sugli interessi dei loro prestiti, le banche hanno incamerato grandi utili. Le persone sono state indottrinate, è stato fatto loro il lavaggio del cervello.
D. Un sistema sofisticato.
R.
 Miracoli del capitalismo. Il punto, però, è che adesso ci troviamo in questa situazione. In tutto il mondo, non solo nell'Occidente più sviluppato, ma anche nelle Tigri asiatiche, in Brasile...
D. L'Europa non è messa peggio dei Paesi in via di sviluppo?
R.
 Questo sì. In Europa e negli Usa la contrazione è maggiore. E in Gran Bretagna, per esempio, si è abusato delle carte di credito più che in Italia, ma il trend è lo stesso.
D. C'è chi parla già di ripresa, grazie alle manovre di austerity.
R.
 Di questo mezzo secolo di abbondanza pagheranno lo scotto non solo le attuali nuove generazioni. Ma i loro figli e i loro nipoti.
D. In cosa ha sbagliato la società liquida?
R.
 Intanto nel non considerare che c'è un limite naturale al credito. Che quello che si ottiene senza sacrificio oggi, si pagherà necessariamente domani.
D. E poi?
R.
 Poi c'è un secondo aspetto che abbiamo ignorato: la sostenibilità del pianeta. Stiamo già consumando il 50% in più di quanto la Terra possa offrire.
D. Ma, con la crisi inarrestabile, i consumi si stanno contraendo.
R.
 Globalmente, la fame di risorse continua a crescere. Tra 50 anni avremo bisogno di cinque pianeti, per soddisfare i nostri bisogni. È una certezza.
D. Ed è una certezza che la Terra sarà distrutta.
R.
 Credevamo che la sola via per essere felici in queste e nelle prossime vite fosse consumare il più possibile. Invece questo sistema sta distruggendo il pianeta e le nostre esistenze individuali.
D. Come se ne esce?
R.
 Per uscirne, dovremmo necessariamente rivedere i nostri stili di vita. Mettere in discussione tutto quello che siamo stati abituati a pensare o a credere, rinunciando a molti comfort.
D. Sarà dura.
R.
 Chi, come le nuove generazioni, non ha mai provato una vita frugale dovrà imparare da zero un modello alternativo. Chi, come me, ha vissuto per 40 anni senza frigorifero, dovrà riabituarsi a minori comodità.
D. Sta dicendo di rassegnarci ad andare in peggio?
R. Non in peggio, a cambiare mentalità. Per millenni, le generazioni hanno vissuto senza televisione e non stavano necessariamente peggio. Di certo, sarà difficile disabituarsi ai comfort. Sarà - se accadrà - un processo lungo e doloroso.

La sconfitta della politica. O una società nuova o la guerra per le risorse

D. Perché dubita che accadrà, se ritiene possibile l'esistenza di società alternative?
R.
 Essere possibile non è essere scontato. Qualcuno dovrà necessariamente guidare questo percorso. La grande domanda è capire quale forza sarà in grado di farlo.
D. La politica non è in grado?
R. I governi sono chiaramente incapaci di farlo. Vengono eletti per quattro, cinque anni. Il loro obiettivo è restare in carica. Per riuscirci, dicono alla gente quello che vuole sentirsi dire nel momento.
D. Eppure la crisi dura da cinque anni.
R.
 E infatti la politica è impotente, non sa che pesci prendere. Ormai la gente, per frustrazione, vota chi non era al governo al momento del collasso. Non è più una questione di destra o di sinistra.
D. In Italia, Mario Monti non è stato neanche eletto.
R. Ma la gente lo avrebbe votato egualmente, per reazione contro il premier precedente. In Spagna, il socialista José Luis Zapatero cadde travolto dalla crisi, ma sarebbe accaduto lo stesso al conservatore Mariano Rajoy. E se in Francia, due anni fa, ci fosse stato monsieurFrançois Hollande, ora Nicolas Sarkozy sarebbe in carica.
D. Non è un quadro troppo sconfortante?
R.
 Ormai la gente ha la certezza che qualsiasi governo non serva a niente. I cittadini hanno perso fiducia nell'élite al comando. E, se vuole la mia personale opinione, penso che abbiano ragione.
D. Perché?
R. Da un po' ormai vado dicendo che i politici non hanno più in mano gli strumenti per governare.
D. In che senso?
R. Al momento, siamo in una fase di divorzio tra politica e potere. Il potere è la capacità di fare determinate cose, la politica è la capacità di decidere quali cose devono essere fatte per il Paese. Se 50 anni fa politica e potere erano nelle mani dei governi, oggi il potere è stato globalizzato. Ma la politica no, è nazionale. O, al limite, internazionale.
D. Può fare un esempio concreto?
R. Prima i politici decidevano cosa fare e, contemporaneamente, avevano il potere di agire nel campo delle finanze e dell'economia nazionali. Oggi possono pensare a cosa fare, ma agire è ormai un potere fluttuante nella no man's land globale. Le aree locali non hanno più influenza.
D. Stati e gruppi di Stati sono quindi succubi dei cosiddetti 'poteri forti'.
R. La situazione è terribile. E fino a che non cesserà questo scollamento, nessuna soluzione a lungo termine potrà essere trovata. Questa è la mia profonda convinzione.
D. Prima parlava di rivedere gli stili di vita, costruire un modello di società alternativo.
R.
 Non si tratta solo di eliminare i surplus consumistici. Ma di reimparare - o imparare da zero - a essere felici stando nella comunità, coltivare relazioni di vicinato, cooperare.
D. Non le sembra un progetto utopistico?
R.
 Utopistico? Perché mai (ride). È chiaro che tu, io, tutti noi insieme, dovremo discutere seriamente per cambiare i nostri orizzonti, smettendo di spendere nei negozi. Ma, in passato, per la maggior parte della storia dell'umanità, gli uomini trovavano soddisfazione, per esempio, nel creare e nello svolgere lavori ben fatti. I sociologi lo chiamano istinto dell'uomo-artigiano.
D. E se non ci riusciremo, se non ci sarà la volontà di tornare artigiani?
R.
 Allora - è la seconda possibilità - la vita sarà ancora più dura. La natura minaccerà la nostra esistenza. E, se anche non soccomberemo, ci saranno guerre sanguinose.
D. Guerre per le risorse?
R. Sì, come ha ipotizzato Harald Welzer in Climate wars, a differenza del 1900, le guerre non saranno ideologiche, ma molto materiali. Ci potrebbero essere grosse guerre per la redistribuzione.
D. Sopravvivenza e distruzione, entrambi gli scenari sono possibili.
R. Come sociologo non sono in grado di dire quale prevarrà. Personalmente, non credo tanto nella prima possibilità.

La fine dello stato sociale e la smitizzazione del '68

D. Oltre ai consumi che le masse non possono più permettersi, la crisi globale sta distruggendo lo stato sociale.
R.
 Tutti i governi lo stanno smantellando, socialdemocratici e di centrodestra. Come per i premier eletti, la scomparsa dello stato sociale non è né di destra, né di sinistra. Del resto, non lo fu neanche sua creazione.
D. Da cosa nacque lo stato sociale?
R.
 L'idea che la comunità venisse incontro nei momenti di difficoltà si concretizzò, in modo particolare, dopo la terribile esperienza della Seconda guerra mondiale.
D. Tutti ne uscirono a pezzi.
R. Al di là della destra e della sinistra, si arrivò alla conclusione di aver tutti bisogno dell'aiuto reciproco. I lavoratori, ma anche i capi. L'uno dipendeva mutualmente dall'altro.
D. Perché mai il padrone, the boss, dipendeva dagli operai?
R.
 Allora il capitalismo aveva ancora bisogno di lavoratori locali. Era interesse del boss tenere la sua potenziale forza lavoro in buone condizioni. Buona salute, buona istruzione, buona forma. Magari anche una buona auto per andare al lavoro!
D. Ma a pagare il welfare era lo Stato.
R.
 A maggior ragione c'era bisogno del welfare. Con questo meccanismo, i capitalisti abbattevano anche il prezzo per avere forza-lavoro attraente. La comunità pagava loro buona parte dei costi.
D. Invece oggi?
R.
 Oggi le aziende non hanno più bisogno di lavoratori locali. Con la globalizzazione fanno arrivare manovalanza dall'Asia e dall'Africa. Oppure traslocano in Bangladesh.
D. L'industria è davvero finita in Europa?
R.
 Togliamoci dalla testa che ritorni. I disoccupati europei non sono più neanche potenziali lavoratori. La classe operaia - e più in generale la classe lavoratrice dipendente - sta scomparendo molto velocemente. Come nel 1900 accadde con i contadini.
D. Cosa resta nel continente?
R.
 Lo vediamo dai danni fatti. Da decenni i profitti non si fanno più dall'incrocio tra capitale e lavoro. Ma dall'incrocio tra prodotti e clienti. Occorreva tenere buoni i consumatori.
D. Come il welfare, anche le conquiste del 1968 sono polverizzate dalla crisi.
R.
 Da un punto di vista sociologico, rivalutato a posteriori, il movimento del '68 coincise con l'entrata dei cittadini nella società dei consumi. Fu questa la sua conseguenza più duratura.
D. Non le considera conquiste?
R.
 Il '68 fu una rivoluzione culturale, non c'è dubbio. E di certo, gli studenti che scendevano in strada volevano tutto, tranne che sdoganare la società dei consumi.
D. Ma?
R. Ma, volenti o nolenti, la conseguenza fu quella. Dall'austerità del dopoguerra emerse una nuova generazione che voleva godersi la vita, semplicemente.
D. È un paradosso.
R.
 Eppure è così. I sessantottini erano consumatori di mercato, pronti a cogliere le occasioni che si presentavano. Volevano divertirsi. Vestirsi alla moda. Crearsi identità diverse dalle precedenti. Essere liberi di provare piaceri temporanei. Alla lunga, anche gli iPhone sono una conseguenza del '68.
D. Anche l'amore liquido è una conseguenza del '68.
R.
 Gli appuntamenti su Internet, gli incontri di una notte («one night stand»)... Tutto è una conseguenza. È facile: ti diverti, poi premi il bottone delete, cancella. E tutto sparisce.
D. Nell'attimo, però, la soddisfazione è maggiore. Si conoscono più partner, si accumulano esperienze di vita.
R.
 Sì, ma il punto è che, nel tempo, ciò che dà soddisfazione è innanzitutto collezionare esperienze su esperienze. Una volta ottenuto l'oggetto del desiderio lo si getta via, per ottenerne subito un altro.
D. Il mio iPhone, però, non è l'ultimo modello. E l'ho preso pure usato.
R.
 Stia tranquilla che, presto, anche lei lo getterà nel sacco della spazzatura, per averne uno nuovo.

L'etica commercializzata e la vitalità del capitalismo

D. Si prende, si usa e si scarta. Eppure, 20 anni fa, lei guardava all'etica post-moderna come a un salto di qualità. La società liquida non era tutta da buttare.
R.
 Avevo, ahimè, sottovalutato l'ingegnosità del marketing capitalista. Pensavo che, dopo secoli di società solida, dove la moralità si identificava con il conformismo, fosse finita l'etica dell'obbedienza ai codici prestabili e iniziasse l'epoca dell'agire morale individuale. Un agire autentico e libero, dettato dalla responsabilità delle proprie scelte.
D. Perché non è andata così?
R.
 Nell'era dei consumi, anche l'etica e la moralità sono state commercializzate. In un'epoca dove sei rintracciabile ovunque e, pena il licenziamento, devi fare gli straordinari per il tuo capo, ti senti molto in colpa, per non essere un partner presente, un buon padre o una buona madre.
D. E allora?
R. Allora arrivano in soccorso i negozi. Con i regali cerchi di compensare i bisogni della tua famiglia. Come un prozac, sedano il tuo inappagato impulso morale.
D. Ma non risolvono i problemi.
R. Affatto. Scambiando i regali come tranquillanti, non sentirai mai che le relazioni umane vanno in pezzi. Togliendo il dolore, non cercherai più la guarigione e diventerai patologico.
D. Parla della situazione attuale?
R.
 Riducendo gli scrupoli morali ed evitando di affrontare i problemi, siamo arrivati dove siamo arrivati.
D. Eppure lei ha vissuto tempi peggiori: la guerra, i regimi, la discriminazione. È davvero così doloroso vivere oggi? E domani sarà davvero così difficile?
R.
 È sbagliato pensare alla società liquida, come a una società leggera e superficiale. Non ha senso comparare i livelli di felicità di epoche e generazioni diverse.
D. Perché?
R.
 Perché si confrontano astrazioni diverse. Per sentire la mancanza di qualcosa, devi prima provarne l'esperienza. Si può dire che ogni tempo abbia le proprie gioie e le proprie afflizioni. Ma non che oggi un giovane rimasto senza Facebook soffra meno che a vivere nel Medioevo.
D. Qual è lo scoglio più duro della crisi attuale?
R. La deprivazione. Quattro anni fa non sarebbe stato neanche immaginabile perdere la capacità di comprare una casa, di chiedere prestiti...
D. ... Persino non potersi permettere un'auto.
R.
 Eppure sarà così. Tornare allo stile di vita «happy & lucky» (felice e fortunato) del '68, o anche solo di un anno fa, sarà impossibile.
D. Se per l'etica era stato fiducioso, adesso lo è meno.
R.
 Se è per questo, come tanti ero stato anche troppo ottimista sul capitalismo.
D. Con il crollo dei consumi morirà il capitalismo?
R.
 Chissà. In passato molti hanno profetizzato la sua fine. Invece, visto che non siamo profeti, quando stava per morire il capitalismo è sempre risorto.
D. Come ha fatto?
R.
 Trovando strade inedite e sorprendenti, per fare profitti.
D. Anche il capitalismo è liquido?
R. Quanto meno flessibile e dotato di grande inventiva. È riuscito a trasformare la gente che aveva abitudine a risparmiare, in gente che spende denaro senza riserve. Un miracolo.
D. Ora anche il business del credito però sembra arrivato al capolinea.
R. Il capitalismo è in seria difficoltà e sembra assai improbabile che possa sopravvivere. L'ultima sua metamorfosi è grigia. Ormai il Prodotto interno lordo si regge su un'economia illusoria e intangibile, disconnessa dai problemi genuini della gente, che fa profitti solo spostando moneta.
D. Business virtuale.
R. Business per pochi. I soldi si muovono dalle tasche di un grande azionista verso le tasche di un altro grande azionista. Capace però di fare miracoli.
Giovedì, 27 Settembre 2012